Ti ricordo, Maestro, nel crepuscolo
dei miei giorni ancora colmi di libri,
d’amore ardenti, come m’insegnasti
che dev’essere ordita tramatura
di vita, d’intelletto, di sapienza.
Cavalco l’ippogrifo alato della
mia anca sciancata che mi fa deforme
nel corpo brutto, storpio – ma immenso
era, è il richiamo degli spalti arditi
degli universi, dei mondi: specchianti
spazi – e ho imparato: ch’io sia Atlante,
Ariele, Marco Polo e tuo copista.
Ti trasformasti fuoco, pietra lavica
nell’ore feroci di Roma, l’aulika.
Di nuovo Ti ho sognato, Accademico
di nulla Accademia, Maestro, luna
e delle solitudini così
come dell’ansia insonne di esplorare
(labirinto di gallerie cumane,
macchinàrie di cappelle ipogee).
Nella veglia mi segui, nei suoi passi,
Tu strada, scalinata, andito stretto
che chiamano se stessi “inquietudine”.
Quando cominciò tutto? Col finire
dell’infanzia è cominciato: venisti
nei sogni e nei libri dello sciancato
che nessuno guarda e che fa mestieri
da servo per la fonda dei velieri.
Nella stanza che fu frantoio affatico
la macchina-per-la-stampa poiché
l’intolleranza cresce e l’ignoranza
premendo alle pareti della stanza.
Stampare dunque, libri ecco diffondere
come rete che ricopra l’Europa:
i miei libri per voi, amici di Londra
e di Cracovia, di Valladolid
e di Francoforte, di Sarajevo…..
I vostri libri (oh quanto attesi!) che
mi raggiungono nell’insonnia atlantica,
atlantica perché sogno le Azzorre.
Scrivevi nella mente, passeggiando –
copiavi a penna, come fiammeggiando.
Te nne se’ gghiuto, Magister, luntano
‘e Vittenberga luterana, libera –
T’invitavano le strade d’Europa
e l’abitudine a dormire sotto
il respiro alto di caudate Artemidi –
per Europam te duxit scientiae sitis:
Copernicus et Faustus et Durerus
non furono soltanto amati nomi
ma anche moti del cuore che desidera –
amor di fiamma viva, m’insegnasti
in una delle Tue tre lingue madri –
uogne libro stà ccà e me canta ‘e Te.
Im Schneebett der Sprachen – come la neve
che accoglie i nostri passi, poi li beve.
Europa fragrante di biblioteche
ancora sconosciute ed invitanti.
Come i chierici antichi vesto gli abiti
pesanti e varcando a piedi passaggi
innevati qui mendico accoglienza
sulla soglia profumata dei libri:
lasciami entrare, custode del varco,
sarà di nuovo nascita all’inizio
del libro, del respiro – ad imparare.
Apprendista copista per sporcare
le dita emozionate d’ossessione
scrittoria: il giorno non basta operoso,
dovrò bere la notte più lontana,
sorprenderne la neve antelucana.
[Tratto da Linea borbonica di Antonio Devicienti, Lietocolle 2011]