Umbrarum fluctu terras mergente…”.
Giordano Bruno, “De la causa. Principio et Uno”
Vita di Attilio Vecchiatto (1936 – 1939)
Alla fine del 1939 Attilio parte per il Brasile, poi passa in Colombia, dove partecipa a una spedizione etnografica nelle foreste del Paranà e sul fiume Putamayo, nell’alta Amazzonia. Durante una marcia nella foresta tropicale perde contatto con i compagni ed è accolto da una tribù sconosciuta, i Kajak. È una tribù d’una quindicina di persone, che dopo i primi momenti di diffidenza lo accoglie e lo cura. Qui Attilio dice d’essere rinato. (John Berger, Il sorprendente A. V., “Times Literary Supplement”, gennaio 1984).
Per due anni non si sa niente di Attilio. Neppure il suo biografo Fulgencio Turner sa dove sia stato tra il 1940 e il 42. Poi riappare a Buenos Aires, sposato con l’attrice Carlotta Benedetti. I due creano una compagnia viaggiante, su un camion con un tendone che serve da casa, da teatro e da cinema. Recitano in spagnolo adattamenti da Shakespeare, oppure commedie all’improvviso secondo l’ambiente, o infine mostrano fil m c on grandi attori. Tutto questo nelle situazioni più insolite: in campi di minatori, presso tribù indigene, in cantieri di disboscamento, nelle carceri colombiane, nei giardini pubblici in Costarica, tra le baracche dei quartieri poveri di Manaus, o in sperdute comunità agricole dell’Uraguay.
Quei viaggi attraverso il continente, su un vecchio camion sconquassato, dureranno circa sette anni. Rappresentano il momento più avventuroso e meno conosciuto del teatro di Attiilio e Carlotta. Nel 1949, durante uno di questi viaggi, i due sono catturati da una formazione di ribelli colombiani, e tenuti prigionieri per sei mesi in un campo militare nella foresta. Poi durante un ’incursione delle forze governative riescono a darsi alla fuga, escono dalla Colombia e arrivano non si sa come in Messico. Dal Messico passeranno attraverso cunicoli segreti a San Diego, in California, e alla fine sbarcheranno a New York, nel Bronx, dove Carlotta aveva degli amici italiani e americani pronti ad aiutarla.
Nel 1950 Attilio e Carlotta si stabiliscono a New York, nel Bronx, dove aprono il “Teatro Italia”, al numero 1237 di Decatur Avenue. Questa è una lunga strada dove si parlava italiano, e nel retro del negozio d’un barbiere italiano c’era un lungo magazzino inutilizzato. In quel magazzino Attilio e Carlotta creeranno il loro teatro, con un semplice palco, qualche tendaggio e un centinaio di sedie, spesso prese in prestito dagli altri negozi. Sarà “Il nudo teatro della povertà”, programma a cui Attilio e Carlotta aderiranno sempre.
Secondo la testimonianza di Susan Sontag (intervista su “The Village Voice”, gennaio 1985), verso la metà degli anni 50, il teatrino di Decatur Avenue aveva ottenuto una sua piccola notorietà che gli consentiva di sopravvivere. Era frequentato non solo da italiani del Bronx o dei dintorni, ma anche da ammiratori e critici che venivano da Manhattan per vedere le recite di Attilio e Carlotta – recite con burattini ventriloqui e con abitanti del quartiere, che si prestavano volentieri ai giochi scenici inventati da Attilio.
Nel 1952 Attilio e Carlotta compiono una tournée in Europa, che li porta in Francia, Germania, Belgio, Cecoslovacchia e Polonia. Attilio incontra Bertold Brecht a Berlino, Jean-Lous Barrault e Louis Jouvet a Parigi. Poi a New York fa amicizia con il celeberrimo Laurence Olivier. Dopo il ritorno al teatrino nel Bronx, nel 1955 Attilio e Carlotta sono invitati a recitare in Canada, ma durante il viaggio vengono colti da una bufera di neve e rischiano la vita. Salvati dagli indiani winnebago, stringono amicizia col loro capo-tribù.
SONETTI DEL BADALUCCO NELL’ITALIA ODIERNA
22. So che l’amor carnale passa e sfuma
So che l’amor carnale passa e sfuma
in un momento come un estro matto,
e appena il genitale è soddisfatto,
cessa la foia e tutta la sua schiuma.
Ed è il modello d’ogni arma di ricatto,
l’esempio d’ogni quid che si consuma,
nell’imbroglio in cui tutto si profuma
da promessa d’un prossimo riscatto.
Ma poi usciti da quel pozzo di bruma,
pensando all’inizio e ad ogni nostro atto:
che lezione di vita! Come una piuma
che t’addolcisce e sfuma di soppiatto!
O fantasma che mi hai disacerbato,
non ti rimpiango, ma te ne sono grato.
23. Dolcezza del vivere
Sai, Carlotta, quando sul tuo braccio
mi prendevi a dormir con te nel letto,
anche in Colombia di notte all’addiaccio,
io mi sentivo del tutto protetto.
Come accogliente è sempre stato il laccio
con cui amorosa mi tenevi stretto;
come scioglieva la tua carne il ghiaccio
del mio livore tetro e maledetto.
Dei miei lamenti ammenda qui io faccio,
e voglio dire invece del perfetto
stato di leggerezza senza impaccio
che dà alla nostra nullità ricetto.
Oh dolcezza del vivere e prodigi,
che apprezza sol chi è fuori dai fastigi.
24. Sulle attese di gioventù
Pensavo un tempo di poter scrollare
la gretta cassa del borghese mondo,
che un filo d’aria mai lascia passare
nel suo comfort blindato ed infecondo.
E pensavo tra me che il recitare
grandi opere con cuore ardente e mondo
potesse un sacro fuoco suscitare,
senza più boria e avidità di fondo.
Così viaggiai tra delusioni amare,
accolto dall’uomo umile e profondo,
ma nauseato da borghesi tare
che sono ovunque i cardini del mondo.
Con la mente ora e qui dal sogno desta,
Vecchiatto si dà pugni sulla testa.
25. Sugli errori che curano
Se in vita mia quasi sempre ho sbagliato,
la vita m’aiuterà con la sua pena.
Ma se temessi d’aver sperperato
quelle speranze che mi davan lena,
oppure non mi fossi mai arrischiato
e senza rischio, seguendo la piena,
fossi giunto tra i primi, salutato
come trionfante attore nell’arena,
da cosa potrei essere aiutato?
Non dalle adulazioni in cantilena!
Con altri errori ogni errore è curato,
e non dal canto di qualche sirena.
La vita cura con la sofferenza,
Vecchiatto al vento impara a aver pazienza.
26. Risposta a un professore universitario che si compiaceva di vilipendere Vecchiatto senza averlo mai visto recitare
O grande ispiratore di tromboni,
trombon tu stesso, paturnia, clistere,
maestro di quelli che credono avere
la sapienza masticando citazioni.
Protervo e astruso, la via da tenere
tu additi alla maniera dei sermoni:
l’unica – dici – per non andare a tentoni
nella notte delle vacche tutte nere.1
Ma con il gergo dei tuoi paroloni
neanche la notte ci lasci vedere,
e nella tua oscurità da paltoniere
non ci son più vacche né vitelloni.
Pastoia greve di falsa certezza,
ecco il delirio della saputezza.
Testimonianza autetica sull’attore Vecchiatto resa da Enrico De Vivo (ex professore nella scuola media)
‘O fuorilegge ‘nnammurato
Quando andavo a prelevarlo a Capua, a casa degli Scannapieco, all’ultimo piano di un palazzone antico di color grigio e rosso pompeiano, trovavo Attilio quasi sempre sull’ampio terrazzo, seduto a scrivere su fogli protocollo. All’ombra di un pergolato di un’uva nerissima e dai chicchi piccoli, sedevo anch’io a volte insieme a lui, guardando la campagna in una distesa punteggiata da case bianche, basse e fitte, con lievi ondulazioni di colline all’orizzonte. A casa degli Scannapieco, Attilio diceva di godere un’aria dolcissima, lassù all’ottavo piano, grazie alla quale gli venivano pensieri elevati in forma di rime. Vedevo anche Carlotta sempre indaffarata, che sembrava contenta di risolvere il perenne disordine di una casa abitata da soli maschi (Gennaro e Pasquale Scannapieco, più Attilio). Un’altra cosa che le piaceva molto, era quella di sostare sul pianerottolo a chiacchierare con le signore degli altri appartamenti, che la invitavano a prendere il caffè a casa loro, facendole domande su tutto – chi era il marito, che ci facevano da quelle parti, se avevano figli. Domande alle quali Carlotta rispondeva forse soltanto per il gusto di vedere le facce meravigliate delle vaiasse sul pianerottolo, mentre ascoltavano i suoi racconti su tanti viaggi lontani e tante avventure nelle due Americhe.
Cosa scriveva Attilio sul terrazzo? Scriveva la sceneggiata ‘O fuorilegge ‘nnammurato, della quale tanto si è parlato verso la fine degli anni ‘90, quando ci si è accorti che il suo manoscritto era scomparso. Io non posso dirne molto, non avendola mai letta. Posso solo assicurare che è stata scritta a Capua, a casa di Gennaro e Pasquale Scannapieco. Attilio voleva mettere su, mi diceva, una recita che avesse il sapore sanguigno napoletano e la sostanza istrionesca inglese, quindi mi illustrava le azioni dei personaggi, facendo riferimenti – se non ricordo male – alle sceneggiate delle compagnie Maggio, Ciaramella e Marchetello, che aveva avuto modo di vedere a New York. Poi io gli chiedevo: come mai questa fissazione per la sceneggiata? E poi perché una sceneggiata napoletana con un argomento che somigliava al più famoso dramma di Shakespeare: la storia di Amleto, il tradimento incestuoso di sua madre che si dà al fratello del re?
‘O fuorilegge ‘nnammurato doveva essere ambientata in un quartiere di Torre Annunziata. La protagonista – “essa”, secondo il canone della sceneggiata – si chiamava Donna Carmela, ed era una donna del popolo, non più giovane ma bellissima, mentre “isso” era suo figlio, di nome Adolfo, abilissimo falsario e scassinatore. Il terzo personaggio importante, “’O malamente”, era un guappo di cartone, ricco e sfacciato, per giunta democristiano. Don Pappalardo importunava Donna Carmela, all’insaputa di Adolfo. In un primo momento, Donna Carmela pare cedere alle insistenze di Don Pappalardo, ma poi vuole cacciarlo di casa. L’altro la minaccia di rivelare qualche suo oscuro peccato. Donna Carmela invoca Adolfo, con una di quelle canzoni malinconiose che si intonavano sotto i portoni e nei cortili – lo invoca di venire, perché lui e lei devono fuggire, prendere una nave per l’America, lasciarsi tutto alle spalle. Quel canto arriva alle orecchie di Adolfo, che entra in casa dello stesso Don Pappalardo, gli spara un colpo di pistola e lo uccide. Poi Adolfo recita un monologo farcito di bestemmie e improperi in napoletano antico, che però si addolcisce quando lui risponde cantando a Donna Carmela, dicendole che partiranno per l’America e vivranno insieme come sposi, contenti e lontani dalle ombre che li hanno fin qui minacciati. In quel momento arrivano i carabinieri e lo arrestano.
Dal racconto che Attilio mi ha faceva, capivo che collegava questo o quell’episodio del suo svariare e vaneggiare giovanile, alla sceneggiata da scrivere, dandole forma e ritmo in schietto napoletano. Era come se il suo passato rimanesse immerso in un fondo d’oscurità, poiché ancora lo agitava tantissimo. Forse si aspettava dalle invenzioni teatrali la possibilità di intravedere un senso nella malattia della vita. E una volta mi ha detto proprio così: che esiste la malattia della vita, come un’oscurità rischiarata dall’unica vera luce – la luce della fantasia amorosa che va all’indietro, verso il ricordo. Non di rado, dopo aver accennato a fatti scabrosi del suo passato, si calmava, si alzava, camminava avanti e indietro bevendo un po’ d’acqua di Castellammare. (Beveva gassosa quando si infiammava, acqua di Castellammare quando i suoi ardori iniziavano a sbollire).
Capivo che parlare di queste cose era per Attilio uno sfogo e insieme una sofferenza, ed erano racconti ingarbugliati che mi faceva quando uscivamo a spasso. Allora mi parlava di sua madre, della sua bellezza che da giovane lo stordiva, rendendogli le notti insonni, portandolo a esser furioso e gelosissimo, con fantasmi di lei che gli agitavano la mente. Io ero imbarazzato mentre lui continuava a evocare episodi della sua età giovanile, accenni a un’intimità che non aveva parole. Per questo aveva fretta di mettere in scena la sua sceneggiata, per vedere le reazioni del pubblico: sentire le urla o le apostrofi nei confronti degli attori, a volte spari veri e propri dalla folla nei confronti del “malamente” o di altri personaggi poco amati. Attilio era ansioso di osservare l’effetto che la sua sceneggiata avrebbe scatenato, e se da tale effetto proveniva un po’ di quella luce che diceva di cercare nelle storie di fantasia. Voleva capire le storie dell’amore, che sono sempre in qualche modo mescolate a gelosie e tradimenti, quindi anche alla delinquenza naturale degli uomini. Per questo ‘O fuorilegge ‘nnammurato è il titolo giusto, perché la legge è sempre l’invenzione d’un mondo che si illude di aver fatto i suoi conti con tutto.
Rimane un mistero come la sua sceneggiata sia scomparsa. Qualcuno ha sparso la voce che Pasquale Scannapieco, il quale ospitò Attilio con grande affetto e dedizione, e che tuttora ne custodisce l’epistolario e le opere giovanili, abbia venduto l’unica copia autografa di ‘O fuorilegge ‘nammurato a un collezionista straniero. Scannapieco ha sempre negato l’infamante accusa. Più volte da me interrogato, ha detto di non capire come possa essere scomparso quel manoscritto dalle carte di Vecchiatto, visto che lui le ha sempre tenute tutte sotto chiave. Io non so cosa dire. È vero che esiste un mercato di queste reliquie teatrali, e si sa di una sceneggiata che fu venduta come commedia di Eduardo Scarpetta per la somma di 10 milioni. La vittima di quel colpo fu un italo-americano di nome John Scaturchio, gradasso ignorante che andava in giro con il suo blocchetto di assegni e aveva la smania di comprare tutto. “Quanto costare, quanto costare…”. Tanto che un giorno qualcuno gli ha venduto la Reggia di Caserta, spacciandola per sua – esattamente come Totò nel film Totò truffa.
SONETTI DEL BADALUCCO NELL’ITALIA ODIERNA
27. Lo studio della filosofia
Povera e nuda vai, filosofia!
Ricca e famosa diventi infatuata
di rimediare a ogni sbaglio, aporia,
contraddizione, con qualche trovata.
Noi viviamo d’errori e così sia:
la vita non può esser rimediata,
ed ogni contraddizione è la spia
d’una nostra debolezza accettata.
Invece è il peggior strazio che ci sia,
se si vuole abolire la sensata
coltivazione d’errori che ci avvia
a intenderci con gli altri alla giornata.
Infinita è la massa degli stolti:
credete che da quella noi siam tolti?
28. Vita di Giordano Bruno , filosofo vagante (Nola 1548 – Roma 1600)
In Inghilterra andò Giordano Bruno
per sottrarsi all’accusa di eresia,
perseguitato sempre da qualcuno
che era ostile alla sua filosofia.
Parlò ad Oxford, ma qui parve a qualcuno
il suo accento napoletano un’eresia,
e bollato fu dai dotti del raduno
come plagiario d’ultima categoria.
Lui rispose per le rime a ciascuno,
poi se ne andò a cercar fortuna via,
finché un altro bacchettone importuno
l’affidò a una pretesca polizia.
Per un accento ignoto e ai dotti ingrato,
Bruno tornò in Italia e fu bruciato.2
29. De umbris idearum. Secondo sonetto in memoria del grande filosofo di Nola, Giordano Bruno
Lui pensava all’universo come Uno
dove mai è data situazion stantìa,
perché ogni movimento fa tutt’uno
e nessun corpo c’è che in stasi stia.
Tuttavia egli vedeva poi nell’Uno
le tenebre di cui siam tutti in balìa,
e di certezze assolute a digiuno –
trovando poi nei vincoli una via.
Pensiero d’immagini e cecità d’ognuno,
pedanti sciocchi e santa asineria,
tutto questo c’insegnò Giordano Bruno –
e che la luce sta nell’amorosa scia.
Guarda quel merlo là, che caca chiodi,
disprezza gli asini e si gonfia di lodi!3
30. Umbra profunda sumus. Ovvero: siamo ombre. Terzo sonetto in memoria di Giordano Bruno
L’uom si addormenta nelle sue abitudini,
e altro non sa, come cieco col bastone,
che va picchiettando tra moltitudini
di cose a cui non pone mai attenzione.
Cieco come una talpa alle attitudini
che non s’adeguano alla sua opinione,
muto qual pesce sulle turpitudini
che garantiscono la sua posizione,
non vuol saperne di vicissitudini
che contraddicano la sua ragione.
Ma Bruno trova qui le latitudini
in cui la luce d’amor si fa visione.
E qui il cieco vedrà nell’ombra amata
lo specchio della natura generata.4
31. Ars moriendi. Scritto in un ospedale veneziano, in un momento di riflessione acuta, ma non depressiva
Dove il demone disumano impera
e travestito ormai da buon borghese
la belva finanziaria e menzognera
elegge a dio il denaro d’un paese,
di morire in pace ormai nessuno spera,
perché fino all’ultimo ha pretese
che il denaro lo salvi dalla fiera
morsa del nulla che sempre lo attese.
Ma tu Carlotta cara, amica vera,
ascolta Attilio che non può far spese
per curarsi la salute e che dispera
di sopravvivere ancora per un mese.
Sappi che lui non muore disperato,
a differenza del borghese infrollato.5
SONETTI DEL BADALUCCO/ 1
SONETTI DEL BADALUCCO/ 2
- “La notte delle vacche tutte nere” = frase sprezzante di Hegel contro un collega filosofo, nell’introduzione alla Fenomenologia dello spirito. Frase molto usata da intellettuali di sinistra, prima di accodarsi alla marcia trionfale del Badalucco. ▲
- Per buona parte della sua vita matura Giordano Bruno tentò di fuggire da un’Italia trista, e fu bruciato vivo nell’attuale piazza Campo dei Fiori a Roma, per ordine delle facce di bronzo. ▲
- Sonetto ispirato da tre grandi libri di Giordano Bruno che hanno appassionato chi scrive:De la causa, principio e uno (1584), Cabala del Cavallo Pegaseo (1584) e De gl’Heroici furori(1585). ▲
- Leggendo Giordano Bruno , bisogna distinguere la natura naturans (natura generante) dalla natura naturata (natura generata). La prima è come il seme che racchiude in potenza la pianta che sarà generata; la seconda è la pianta che si sviluppa e corrisponde alla natura in atto. Secondo Bruno, qui troviamo lo specchio dell’ombra che ci avvolge e la luce che trasforma la nostra cecità in visione interna. ▲
- “Borghese infrollato” = reso frolle dagli agi. È l’infrollimento del borghese che vuole ogni comodità – ognuno per sé, a casa sua, etc. ▲
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