Nel 1949 Michelangelo Antonioni realizza il suo terzo documentario, “L’amorosa menzogna”, dando vita ad un soggetto che tre anni dopo ispirerà lo “Sceicco bianco”, splendido debutto di Federico Fellini.
Le prime immagini del cortometraggio mostrano magazzini pieni zeppi di riviste, pronte ad essere distribuite nelle edicole di città; la voce narrante esordisce elencando i nomi di questi nuovi “giornali a fumetti”, nomi che hanno in sé un richiamo di sirene: Grand Hotel, Bolero, Sogno Incanto. Sono i “settimanali di romanzi d’amore a fotogrammi” dapprima solo disegnati, poi con vignette contenenti le foto dei volti, infine composti di sole fotografie. Due milioni di copie per cinque milioni di lettori, lettori umili per lo più, che hanno in questi periodici uno svago a buon mercato, una specie di cinematografo tascabile, e anche un consigliere sentimentale.
Antonioni mostra un pubblico indifferenziato di uomini e donne rapiti, stregati dalla lettura di questi giornali; lettura che avviene camminando, appena allontanati dall’edicola, totalmente immersi, assenti a quanto avviene intorno. Un assorbimento totale. E i titoli delle storie, moderni feuilleton visivi, favoriscono questo movimento di estraniamento dal reale attraverso protagonisti dai nomi esotici e titoli conturbanti pieni di promesse: “Oltre l’oblio”, “Cuori sulle vele”,”La sposa della morte”. Il passaggio dalle immagini disegnate ai protagonisti in carne e ossa segna poi un ulteriore scarto, che il regista evidenzia mostrandoci la stanzuccia usata come teatro di posa, e i cosiddetti divi che posano per la costruzione della nuova vicenda. Il protagonista maschile èSergio Reggiani, di mestiere meccanico; lo vediamo interrompere la riparazione di un’auto e correre a posare, indossando non più una tuta da lavoro, ma un completo elegante. La sua partner invece, Anna Vita, cura con attenzione il trucco e porta un vestito da sera, segno evidente dell’ extra ordinario che vanno a mettere in scena. Ogni posa fotografica è sapientemente impostata dal “regista”, che suggerisce pure l’espressione dei diversi sentimenti nella fissità dei volti, mostrando come calcare sull’enfasi. Tutto, qui, è fatale. Ma basta la semplice ripresa di un gatto, che casualmente si trova tra le gambe della coppia abbracciata in una posa amorosa, con l’assistente che tiene diritta la schiena dell’eroina, a svelare interamente questa intensità fasulla. Usando una definizione che Gianni Celati utilizza per descrivere gli intenti di Fellini in “Otto e mezzo”, possiamo dire che anche Antonioni, qui, riporta a suo modo il mondo “messo in posa” (bloccato dal rifiuto del “banale”) al flusso ordinario e multiforme della vita, alla sua imprevedibilità.
La parte finale del documentario misura l’effetto della presenza del divo, la seduzione che esercita sull’immaginario di migliaia di lettrici e lettori. In una lettera un’ammiratrice racconta aSergio Raimondi (altro protagonista dei fotoromanzi) il turbamento nel sogno: “Non potendo trattenere l’impulso del mio cuore, vengo a lei con questi due righi. Lei senza saperne è l’autore di molte notti insonni per me. Vado a letto con la speranza di dormire ma lei, chiamato forse da un genio maligno, mi appare davanti e i suoi occhi belli sembrano dirmi: sognami, sognami bambina, anche questa è la felicità”. E l’apparizione fisica di Raimondi in un rione di città, per banali motivi di lavoro (indossa ora la tuta da meccanico), non suscita minore entusiasmo: gli sguardi della ragazze accorse non si posano sulla persona, ma sul personaggio, su cui lanciano occhiate languide e concupiscenti accompagnate da lunghi sospiri.
L’effetto è il medesimo prodotto dalle proiezioni immaginative suscitate dalle star del cinema hollywoodiano, che promettono felicità radiosa e una vita piena di emozioni, oltre a continui sussulti per la fortissima carica erotica che promanano. Sono gli stessi congegni di finzione del consumo di massa, qui al lavoro nella società italiana del dopoguerra, rapidi nel trasformare la sessualità in qualcosa di stereotipo, esteriore e normato, qualcosa di sempre più simile alla pubblicità. L’esito finale lo evoca Giani Celati: “la sessualità non pone più problemi poiché ogni cosa è risolta nell’apparenza esteriore del comportamento umano”.
L’ultima lettera al divo di turno, citata in “L’amorosa menzogna” testimonia il cambiamento antropologico in atto: “Siamo due sorelle prive di qualsiasi divertimento. L’unico nostro svago è quello di leggere il giornale dove lei recita. Beato lei che può vivere tante passioni. Che vita interessante deve essere la sua.” Ecco qui, la vita rappresentata espunge il banale e l’ordinario, mentre le pose della messa in scena spettacolare si fondano su momenti privilegiati, e significanti, che dividono il mondo in vincenti e perdenti.
Constata la voce off nel finale del documentario: “Sorridiamo, ma non ridiamo di questi personaggi. Ogni epoca ha i suoi eroi. La nostra ha gli eroi a fumetti”.
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La maschera in cui consistono e si esauriscono i divi, siano essi cinematografici o dei fotoromanzi, l’ha ben evidenziata Federico Fellini nello “Sceicco bianco”. Di fronte a una novella sposina di provincia, che sgattaiola appena può dall’albergo in cui alloggia col marito per andare a conoscere il suo idolo di carta, in uno stato di estatico incanto, si presenta un uomo tutt’altro che carismatico: un Alberto Sordi infantile e gigione, furbesco e patetico. Ma dovranno accadere gli imprevisti più grotteschi perché la ragazza rinunci alle illusioni della sua fantasia. Quando, al principio della sua avventura romana, Vanda confessa la frenesia che la prende all’arrivo per posta del suo fotoromanzo preferito, rivelando con candore come la sua vera vita cominci con quella lettura, nel chiuso della sua camera, la redattrice del fotoromanzo le risponde: “La vera vita è quella del sogno”. L’immagine esotica del latin lover, coniata sul modello del seducente Rodolfo Valentino negli anni venti, ha nel frattempo riorientato potentemente l’ideale di mascolinità nella cultura occidentale, rendendola ora predatrice, ora più languida e femminile, ossia ambivalente. L’imitazione italiana di questo sogno cinematografico, la sua incarnazione nello sceicco felliniano come icona del grande amatore, ribalta di segno gli stereotipi dell’industria cinematografica, riducendo i clichè della rappresentazione sentimentale ai loro esiti macchiettistici (il fascinoso sceicco parla romanesco, il set è un capolavoro di improvvisazione, e tutta la tensione supposta cade nel ridicolo delle pose, nella quotidianità di un litigio tra marito e moglie).
Rappresentano un monito dai risvolti molteplici le ultime parole di Vanda, pronunciate a se stessa (e a noi) mentre telefona piangendo all’albergo del marito dopo aver visto infrangersi il suo sogno; sono parole utili per proseguire il discorso addentrandoci nell’attualità italiana più recente: “La vera vita è quella del sogno, ma a volte il sogno è un baratro fatale”.
I meccanismi con cui queste proiezioni immaginative operano sono infatti tuttora radicatissimi nell’immaginario collettivo italiano. Lo spiega bene Marco Belpoliti nel suo ultimo libro, “Il corpo del capo”: analisi quanto mai necessaria e inedita del fenomeno Berlusconi, di respiro ampio e assai colta, multidisciplinare e molto dettagliata, senza alcun cedimento al facile antiberlusconismo di maniera, d’altra parte ormai inutile per comprendere le modificazioni profonde in atto nella società italiana. Da subito l’asciuttezza dell’indagine si giova dell’assenza di qualsiasi volontà di denuncia, o di moralistico compiacimento su un oggetto di ricerca che notoriamente si presta al facile gioco. Nel presentare il contenuto del racconto per immagini “Una storia italiana”, l’unica concessione, per così dire critica, di Belpoliti, è solo un’ovvia constatazione: sottolinea come la rivista di propaganda elettorale di Berlusconi contenga “evidenti omissioni”. Più avanti ricapitola la carriera del Cavaliere citandolo come costruttore edile e creatore di una televisione “libera”. Sono le virgolette, qui, a riassumere e contenere l’obiezione, permettendo al discorso che segue di fondarsi sui fatti, e non sulle accuse. L’utilità di questa riflessione sul cambiamento antropologico degli Italiani, corredata da un solido retroterra storico, è evidente se si pensa ai risultati di un sondaggio diffuso pochi giorni fa da una trasmissione televisiva: alla domanda “se foste una mosca chi vorreste spiare?” le risposte più prevedibili, cioè i figli o il partner, si posizionavano al terzo e quarto posto con percentuali poco rilevanti. Al secondo posto, ben distaccato, il Papa. Al primo posto, con un risultato eclatante, c’era lui, Silvio Berlusconi. Un esito del genere costituisce un segnale inequivocabile della penetrazione di questa figura nel nostro immaginario collettivo, grazie alla sapiente manipolazione che questi ha scrupolosamente attuato nel tempo.
L’analisi di Belpoliti parte allora proprio dalle pose fotografiche, le stesse che incantavano la povera Vanda innamorata dello sceicco e che toglievano il sonno a una ragazza di provincia. Come nei fotoromanzi, anche qui la preparazione e la scelta delle immagini è mirata e consapevole: Berlusconi rivela una grandissima capacità di “costruire un racconto partendo dalle immagini fotografiche”, o meglio “sa raccontare la storia di cui vuole appropriarsi”. L’affidarsi alla foto come medium privilegiato della propria rappresentazione, nonostante egli sia un tycoon televisivo tra i più potenti, è sintomatico di un narcisismo che neppure Belpoliti esita a definire traboccante. Tuttavia accontentarsi di questa spiegazione significa fermarsi sulla soglia del fenomeno. Gli abiti-maschera che Berlusconi indossa e cambia con disinvoltura si apparentano ai travestimenti della compagnia di borgatari-attori di fotoromanzo che Fellini si diverte a ritrarre sulla spiaggia di Ostia; sono involucri rilucenti che mettono in scena stereotipi privi di qualunque profondità, sono apparenze che inavvertitamente scivolano dal sublime al ridicolo. Esemplificativa la puntata di “Porta a porta” citata ne “Il corpo del capo”: il Presidente del Consiglio seduto a fianco alla miss di turno; lei reginetta coronata, lui Re, immortalato in un profluvio di istantanee subito diffuse dai vari media il giorno dopo. L’espressione di Berlusconi è soddisfatta e autoreferenziale, tanto che Belpoliti ne parla come di “un’immagine quasi devozionale”. Ma basterebbe uno sguardo appena un po’ spostato, per svelare nel Re il Buffone e la sua recita. E tuttavia, per i più, la favola regge, la maschera convince, e chi guarda si offre come specchio in cui questo nuovo, diverso sceicco si riflette compiaciuto.