Gli undici racconti che formano la raccolta “Il ritardo” hanno tutti l’aria di un sopralluogo.
No, non temete: per una volta nessun delitto, nessuna suspense, nessun luogo esotico dove dare la caccia al criminale, nessuna confessione da estorcere.
Piuttosto, luoghi della provincia italiana, ma indecifrabili; paesaggi di montagna, ma anche piccole città, con i loro posti di ritrovo, le loro geometrie, le loro architetture; fratelli, sorelle, cugini, fidanzati, con i loro legami, le loro confidenze, le loro sorprese, i loro segreti.
Raggiunta la prima maturità, tutti i personaggi, uomini o donne – quasi sempre privi di nomi o con nomi molto comuni – ritornano alla loro giovinezza, dialogano con quel passato prossimo usando per lo più l’imperfetto. Per questo il congedo dal tempo della loro giovinezza è silenzioso, discreto, senza strepito, pieno di pudore, e la loro lingua a volte perfino laconica: sembrano estranei intenti a penetrare per l’ultima volta in una casa tanto famigliare quanto sconosciuta.
In realtà il loro sopralluogo nelle province della giovinezza è solo l’inizio di un lungo tirocinio quale l’età adulta in effetti è una volta che ci si è convinti, come afferma uno dei personaggi del libro, che quella che si sta vivendo è davvero la nostra vita. La vita così, per incanto, cessa d’essere quella che avevamo immaginato e finalmente noi incominciamo a liberarci dalla pretesa di diventare qualcuno.
L’età adulta: quando “ci si abitua a esistere”, quando, come ripete alla fine dell’ultimo racconto (“Il resto”) un altro personaggio, le occupazioni di ogni giorno, al di là dello sconcerto che le vicende amorose procurano, ci avvicinano a noi stessi, cioè alla nostra capacità di osservare, di studiare, di lavorare, di dedicarci alle cose, con la consapevolezza che esse, per quanto accessorie, come una cravatta in un giorno di lutto (“I primi passi di un corriere”), annunciano puntualmente che ci sopravvivranno: “Aveva compreso che per quanto lontana, remota avesse potuto pensare la propria fine, non avrebbe potuto vivere abbastanza a lungo perché nessuno al suo funerale portasse la cravatta”. La vita così mostra, per incanto, il suo limite, la sua misura, e la sua bellezza prosaica.
In tutti loro, come nel personaggio del primo racconto (“Un altro mestiere”), che ha passato la giovinezza lavorando in molti cantieri (diventando in seguito un fotografo di matrimoni), c’è “un’ossessione delle forme edilizie”, una volontà di costruire, di dar forma alla materia, cosa che, per quanto ci illuda e ci consumi, resta sempre la miglior prova del nostro passaggio.
Non importa che mestiere facciamo. In questi racconti non ci sono adolescenti infatuati dai numeri o dalla musica sacra, commissari di polizia, mafiosi, ex brigatisti, serial-killer, tutte quelle professioni alla moda nei feuilleton degli autori di successo. Ma impiegati catastali, fotografi di matrimoni, corrieri, ferrovieri… Non importa quanto umile sia il nostro mestiere – per il personaggio protagonista di “Anni di studio” c’è una “sapienza segreta anche nei panni stesi” –, l’importante è averlo imparato, magari “senza dare a vedere” come e con quali sacrifici. Il mestiere, afferma sempre il personaggio del primo racconto, è “la difficoltà che si porta con sé al termine di un lavoro, quando si rimane con quel che non si è riusciti a dire di se stessi, con quanto è rimasto intentato”.
Tra i racconti più intensi c’è “La fiducia nei giorni feriali”. Qui il protagonista è “Martedì”, un ferroviere in pensione, ex campione della bicicletta, celebre in gioventù per esaltarsi soprattutto di martedì. Non che gli altri giorni si scoraggi, anzi, alla fine di ogni corsa è sempre contento. Solo che il martedì ritrova la “fiducia”: appena la strada si fa dura, s’alza sui pedali, abbandona il gruppo e vince in solitaria. Poi, un martedì, durante una gara importante, un fatto inspiegabile: poco prima del traguardo, quando ormai ha staccato gli inseguitori, Martedì scende dalla bicicletta e si mette a pregare: “Prego per quelli che sono rimasti indietro”, risponde al suo direttore sportivo che gli dà del deficiente. Fine della corsa. Fine della giovinezza. Inizio della carriera umana: Martedì tenterà di farsi frate, si sposerà con una tedesca, avrà dei figli, entrerà nelle Ferrovie, andrà a pesca e a chi gli chiede se, da vecchio, ha ancora tanta fiducia nel secondo giorno della settimana, risponde di no, ma in compenso ne ha “guadagnata molta di più negli altri”.
La storia di Martedì è raccontata dal narratore attraverso il filtro dei ricordi, tra cronaca e leggenda, di alcuni parenti riuniti intorno a un tavolo. Questo mi fa pensare a un modo di raccontare storie dove il senso dell’eccezionale, del fantastico, viene fuori dall’incontro di persone che si ritrovano, da un costume e da comportamenti abituali, un modo di raccontare che è un congedo silenzioso dalla volontà di evadere, di meravigliare con effetti speciali.
La meraviglia nasce dall’esplorazione dell’ignoto, ma l’ignoto qui, in questi racconti, non viene dalle profondità della psiche né dall’intreccio come metodo di cattura del lettore né dal significato sociale che diamo a qualsiasi rievocazione riducendo il racconto a un cadavere ambulante, ma da una pratica della vita quotidiana che, terminata l’età dell’inesperienza, non si è trasformata con l’età adulta in routine, noia, esercitazione a vivere.
E ne ho conferma, rileggendo un altro racconto del libro di Walter Nardon, “Il fidanzamento”.
È la storia di un incontro tra un uomo e una donna, di una breve vacanza al mare, di una corsa sulla spiaggia grazie alla quale il protagonista recupera in modo inatteso fiducia in se stesso e prova di nuovo un sentimento a lungo dimenticato: “gli era tornata la voglia di essere felice”. L’atmosfera di festa, lo sguardo dell’amata illuminano il personaggio di una “luce irresistibile”: “era in riva al mare e correva; correva sulla sabbia, in mezzo agli altri… Scendeva in basso dove la sabbia era più levigata, fino quasi a bagnarsi i piedi nell’acqua. Una corsa all’impazzata per quasi un chilometro… È un nuovo rito, si diceva, è questa la prova”.
La scoperta inattesa della felicità da parte del protagonista coincide con la scoperta che la felicità non è dovuta tanto alla sua volontà di ritornare ragazzo né alla ricerca di vivere un attimo irripetibile, quanto al suo sentirsi parte di un rito comune, ripetibile, il cui accesso implica una prova, un’iniziazione, se si vuole una performance, capace ogni volta di radicarci in una tradizione, in una memoria che celebra i suoi fasti non importa quanto effimeri.
L’inattesa felicità che si sperimenta allora leggendo i racconti di Nardon è quella che nasce dalla nostra scoperta che ogni gesto o evento della nostra vita si perde nel mare dell’oblio perché noi desideriamo correre all’impazzata verso mete sconosciute, essere sempre altrove, in luoghi lontani a vivere momenti irripetibili.
Nardon ci congeda dalla nostra eterna giovinezza, affermando che nulla è così memorabile come la vita quotidiana.
Questo testo costituisce la prefazione a Il ritardo di Water Nardon, QuiEdit 2009