Quando ho letto la chiamata al raduno Spazzavento, il nome scelto, e l’invito – che lasciava ben più spazio ad atteggiamenti dubitanti che a istanze definite – mi hanno catturata, facendomi immaginare. Immaginare cosa? Beh, per prima cosa, sebbene il testo l’avessi letto in un asettico file, l’annuncio con quel titolo mi pareva più da vecchio ciclostile, di quelli un po’ sgualciti affissi abusivamente sui muri, che a volte ci si sofferma ad osservare durante il passeggio, quasi per sbaglio.
E cosa affascina, di quei testi artigianali messi su un po’ alla buona, alla faccia dei supposti difetti comunicativi? Credo si tratti del fatto che molto spesso l’informazione utile è lasciata in secondo piano, in un affollamento di indicazioni non prioritarie , di disegni e cornici improbabili e ricami senza scopo, che non servono a nulla ma che fanno frullare la fantasia, su chi l’abbia scritto e perché, e che tipo sia, e cosa si aspettasse da noi che leggiamo.
Eccoci, qui, ad una delle chiavi di Spazzavento. L’abbandono, netto e senza rimpianti (o tentazioni) del funzionale. Un annuncio che annuncia un dubbio, un’ ipotesi, delle piste possibili, è una grande opportunità. Opportunità di storie, ma ancora prima di incontri, ove le prime non possono che scaturire da questi, con gran naturalezza.
La seconda immagine che la parola Spazzavento mi ha fatto balenare è più legata al mio luogo di nascita, la pianura veneta. L’idea del vento che pulisce e trascina con sé, in maniera impetuosa e anche ribalda, riporta alla mente certe mattine d’inverno tipiche di queste zone, di sole alto e sibilo fischiante, che rendono tersa l’aria e creano una strana limpidezza di visione.
E in questa trasparenza, se si riuscisse davvero a sbarazzarsi del semplice leggere, del leggere sordo e stonato, le parole tornerebbero a disvelare un poco del loro fascino antico, della tradizione lunga che ce le porge ora, da assaggiare e gustare nella bocca. Perché a scorrere gli incipit dei libri stampati che il quotidiano mi segnala in classifica, come a leggere certi post dei blog letterari più di tendenza, delle recensioni più à la page, le povere parole sembrano dei cartellini da supermercato, con appeso lo sconto e il valore al chilogrammo, e quelle più di richiamo stanno sullo scaffale centrale, quello designato a catturare noi, poveri allocchi, con gran fanfara di citazioni e nomi altisonanti in funzione dell’acquisto. E allora è chiaro che le parole, spossessate delle loro vaghezza, utilizzate come direttrici di un traffico a senso unico, verso l’uscita denominata finale (tutti affollati sulla porta!), sembrano sempre più simili ad un tour domenicale nel centro commerciale, dove ad aspettarci, alla fine, c’è solo un parcheggio buio e vuoto, dove non abbiamo incontrato nessuno.
Ma se dobbiamo ancora una volta affidarci ad esse come a degli àuguri, come pre-visioni del noi che saremo, non posso trascurare la casualità (ovvero il destino) che ha voluto che l’incontro Spazzavento si svolgesse in via “Rimembranze”. Parola chiave della poetica leopardiana, ormai desueta ma piena di echi, ondeggiante nel suono e vecchia di sette secoli, ecco una suggestiva sorella del più banale “ricordo” che usiamo comunemente. Il verbo rimembrare, da cui essa deriva, significa letteralmente “rivivere nelle membra la memoria”, a dire rivivere con tutto il corpo. Conserva perciò in sé, oltre al significato più noto di restituire alla memoria, anche quello di ricostituire, raccogliere ciò che prima si trovava in pezzi, frammentato come esperienza: la pienezza del senso rinvenibile solo nella pienezza dei sensi, di là da ogni sterile astrazione.
E cosa è ogni storia narrata se non il ricollegarsi a un racconto precedente, ad un’esistenza già vissuta, a una tradizione ancora tracciabile come unica salda ancora di un presente tutto preso dal suo delirio di onnipotenza? La proposta di Spazzavento, non più delimitata agli scopi delle rivista cartacea con le sue scadenze e i suoi spazi cogenti, si apre allora generosamente a tutte le forme di narrazione, siano esse teatrali, musicali o cinematografiche, fatte di giocattoli o di fiati, imprevedibili come un’avventura, di quelle a puntate che non sai mai come andranno finire, o come la ricerca di un’accordatura sulle voci sempre nuove che può accogliere senza presunzioni.
Ecco che occuparsi di letteratura e di scritture non significa più evocare un sistema astratto di pensieri e giudizi, né una borsa di valori scolastici o monetabili, ma diviene una pratica, una pratica quotidiana e condivisa di fabulazione, quasi un gioco, spazio ludico che necessita della presenza, del corpo di tutti quelli disposti a partecipare a questo viaggio le cui tappe sono gli incontri.
Ciò che forse sarebbe auspicabile accadesse, a poco a poco e senza forzature, ritengo sia l’uscita dal proprio ruolo abituale, sociale. Colui che scrive, colui che insegna, colui che dirige una rivista o fa del teatro, sono separati da confini labili, scavalcabili proprio attraverso l’abbandono alla parola, come chiave per lasciare le garanzie rappresentate dalle proprie competenze specifiche. Se l’eccezione interiore è irriducibile e non teorizzabile, si può forse approssimarsi ad essa tralasciando le pastoie imposte da una certa idea di noi stessi, e assecondando invece le proprie manie più fonde.
L’anarchia concessa dal non avere posizioni da difendere, in questa zona franca degli incontri-messe in scena denominati Spazzavento (e non a caso, il luogo prescelto è un palco teatrale), può consentire a ciascuno di spossessarsi del proprio io e avvicinarsi all’altro, raggiungendo per paradosso il risultato che la diversità dal sé lo riconduca più prossimo a quelli che Gianni chiama i propri cominciamenti intimi.
Pratica difficilissima, certo, ma che può essa sola sbrigliare l’io dalle sue posture ed artifici per farci mero tramite di ogni storia, voce di tutte le voci che ci traversano.
La reciprocità degli scambi, oltre a regalare l’innegabile contentezza, che tutti noi abbiamo avvertito sulla strada del ritorno da questo primo incontro, è la base da cui partire per ogni successiva ipotesi o scaletta. Il problema di come formalizzare quest’esperienza poi, mi pare successivo rispetto alla priorità di come alimentarla.
Sicuramente tra i diversi siti e riviste on line (ed eventualmente editori) si può creare un circolo virtuoso di testi e riflessioni, ma elevare questo fatto a tema cardine rischia di snaturare la fluidità di questa comunità aperta, per quel che ne so unica.
Il malfatto, la bizzarria dei temi, le trascrizioni, la questione dei generi restano dei tramiti, degli spunti che non vanno ipostatizzati o resi cerchio chiuso di mirabilia.
L’apertura è fondamentale perché il vento, una volta alzatosi, continui a soffiare, con effetti di meraviglia. Danilo Kiš, nei suoi “Consigli a un giovane scrittore” ammoniva: “Ricordati sempre di questa massima: ‘Chi centra l’obiettivo sbaglia tutto’”. E allora seguendo l’attore Vecchiatto, mi viene di dire che non ci sia, ai futuri Spazzavento, miglior viatico che questo: “Non c’è vita in guadagno, tutto è al vento, noi siamo spore perse in spargimento”.