L’apologia del testo minore
Era arrivata una lettera di convocazione piuttosto strana. Fissava un appuntamento in un posto chiamato San Lazzaro, dentro un teatro, e invitava chiunque avesse qualcosa da dire; anche cose di poco conto, anzi, meglio aver poco da dire perché i lunghi discorsi non erano graditi, soprattutto quelli di tipo professorale, dai quali emanava un inconfondibile fetore scolastico. Meglio una frase estemporanea pronunciata sul momento, oppure la lettura di un appunto preso distrattamente, brevi annotazioni trascritte sul biglietto dell’autobus o sullo scontrino del bar. E piuttosto che un discorso accademico era preferibile anche solo il biglietto, cioè lo scontrino senza nessun appunto. C’era pur sempre qualche info rmazione utile, mentre i discorsi accademici erano equiparati all’emissione di un alito guasto, come da dente cariato, o da stomaco in fermentazione, discorsi volatili di cui non sarebbe rimasta traccia nella storia umana, privi di anelito all’eternità. Invece, tanto per dire, testi negletti e destinati al cestino, come uno stampato dell’Azienda Trasporti, erano in grado di fornire qualche info rmazione. Contenevano date e cifre utili alla ricostruzione storiografica, e in futuro potevano aiutare a illustrare una fase della civiltà materiale. Ma a cosa sarebbe mai servito un discorso accademico? Meglio gli scontrini, i biglietti, le ricevute fiscali, le fatture, anche l’avviso di scadenza dell’assicurazione o il conto del ristorante – avrebbe detto lo storico del futuro – perfino le etichette dei vestiti valevano molto di più di un discorso accademico. C’era un rimando alla composizione, alle tecnologie dei sistemi di lavaggio e stiratura, alla geografia dei commerci internazionali, dunque al problema della bilancia dei pagamenti, perfino al regime fiscale, perché nell’etichetta è riportata la partita IVA, che allude alla differenza fra imposte dirette e indirette, cioè alla questione dell’equità fiscale, un tema collegato al patto sociale e alla fondazione dello Stato moderno. Invece a cosa rimandava un discorso accademico? A cos’era collegato? E cosa ne avrebbe ricavato l’archeologo del 3010?
Senza contare che questi testi minori potevano tornare utili per altri motivi, ad esempio in caso di controversie giudiziarie. Se nel corso di un’inchiesta capitava di essere inclusi tra gli indiziati, grazie alla ricevuta di una cena in pizzeria si potevano deviare i sospetti dell’autorità inquirente. Era ormai facilissimo trovarsi coinvolti in un’indagine per omicidio. Ci voleva poco per attirare l’attenzione degli investigatori; anche perché ormai chiunque aveva degli ottimi moventi per commettere un delitto. Ormai sono svaniti i freni inibitori, diceva la lettera, dopo la morte di Dio. Ma chi conservava lo scontrino poteva pur sempre cautelarsi, e dimostrare di trovarsi altrove, lontano dal luogo del crimine. Lo scontrino della pizzeria riportava la data e l’ora della registrazione di cassa, anche quello del bar, e valevano come prova d’innocenza. A cosa sarebbe servito, invece, qualche appunto preso a una conferenza accademica? Mancherebbe l’oggettività della prova. Stesso discorso per il biglietto del treno: che lo si conservasse, anziché gettarlo. I delitti erano sempre più all’ordine del giorno, ed erano commessi nei posti più imprevedibili, diceva la lettera, sotto casa, nel tunnel dei garage, sul pianerottolo, davanti all’appartamento del vicino, anche in casa propria, dove un parente poteva ucciderne un altro all’improvviso, anche senza premeditazione. Dunque era consigliabile avere cura di questi piccoli stampati che valevano come alibi, magari inserirli in appositi raccoglitori di plastica, e conservarli al sicuro. E se veniva assassinata la moglie? Magari il marito aveva ottimi moventi ma non aveva mai osato mettere in atto il piano assassino. In fondo non credeva del tutto alla morte di Dio, oppure ci credeva ma potevano esser rimasti dei surrogati in grado di comportarsi come principio divino. E se per caso fossero sopravvissuti gli angeli e gli arcangeli? Se dopo il crollo degl’imperi anche il regno dei cieli fosse passato a un’amministrazione repubblicana? Magari avevano mantenuto la pena di morte, quella eterna; e poi la repubblica angelica poteva essere attraversata da tendenze reazionarie, e comminare come niente fosse pene altrettanto infernali di quelle di un tempo. Ma se il marito non aveva dato corso ai suoi propositi delittuosi, c’era pur sempre il figlio, che poteva averlo attraversato del tutto, il nichilismo. E se non credeva a niente? Non solo a Dio, ma nemmeno allo stato, o alla repubblica democratica, tanto meno al socialismo. Poteva dedicarsi al matricidio organizzando le cose in modo da far ricadere la colpa sul padre, che sarebbe stato l’indiziato numero uno. Ecco perché è meglio poter dimostrare dove ci si trova in ogni momento della giornata. Sono luoghi estremamente insicuri, il condominio e la famiglia, covano odi sordi e distruttivi, ambienti inospitali, in Italia, dove i delitti fra parenti superano in percentuale i delitti di mafia. Chiunque poteva finire sotto inchiesta. Dov’eri alle otto e quaranta di giovedì mattina? chiede il sostituto procuratore. Al bar, risponde chi ha conservato lo scontrino. E al procuratore che pretende il riscontro, ecco che l’uomo previdente ricorre al suo archivio e tira fuori la prova con su scritto cappuccino e brioche.
Senza contare che questi testi minori erano interessanti per rilevare le variazioni dei costi. Cappuccino e brioche, oggi costano 2 euro e 30, equivalenti a 4450 lire, ma dieci anni fa? E se qualcuno aveva conservato uno scontrino emesso prima dell’introduzione dell’euro che lo si portasse, diceva la lettera di convocazione a San Lazzaro, si sarebbe affrontato anche il tema dei prezzi, dell’inflazione. Questa strana lettera spiegava che si potevano fare anche solo delle domande, ma non precisava a chi. Domande che comunque qualcuno avrebbe raccolto. Quanto all’aspetto formale dei testi, se erano malfatti, cioè sgrammaticati e con la sintassi zoppicante, era un’ottima cosa. Ed erano i benvenuti gli ospiti che avessero da allestire piccoli spettacolini, una mazurca suonata col fischietto, una poesia recitata stando sulla verticale, a testa in giù, un esercizio yoga di contorsione, cose del genere.
Riguardo ai contenuti c’era piena libertà tematica, ma come esempio si riportava quello dell’anima. Esiste ancora? si chiedeva la lettera. L’anima era uscita di moda come il bastone da passeggio, e forse se ne stava defilata nell’ombra, vergognosa della sua decadenza, in un ripostiglio o vicino a una pattumiera, senza la speranza di una ripresa nell’avvenire. Ma non si poteva permettere che l’anima svanisse come niente fosse, erano più di duemila anni che se ne parlava, a partire da Pitagora, il grande matematico che aveva scoperto la trasmigrazione in altri viventi, non solo uomini, ma anche animali o vegetali, perfino i fili d’erba. Perché non approfondire il tema della metempsicosi? Perdere di vista l’anima era come rinunciare ai viaggi intercontinentali, ai lunghi spostamenti, era come essere condannati a vivere fra casa e ufficio, senza mai una vacanza lontana. E poi si doveva parlare di cosa succede quando l’anima si trasferisce in altri animali, ad esempio nei parenti stretti dell’uomo, i babbuini. Infatti era stato riscontrato che non appena ne nasceva uno con dentro l’anima arrivata da un esemplare della specie umana, il babbuino mostrava subito la tendenza a emergere dal gruppo, a sgomitare, a farsi notare per il comportavano poco educato. Babbuini che alzavano la voce per niente, o per spaventare e sopraffare gli altri con gesti di prepotenza. In certi casi il babbuino lasciava affiorare un comportamento mafioso, se l’anima proveniva dall’Italia. Viceversa i babbuini che avevano ricevuto l’anima transitata da altri animali erano più educati, più miti; quelli con l’anima arrivata dal cardellino o dalla sogliola erano individui capaci di esprimersi a voce bassa, che non urlavano, non si mettevano le dita nel naso, non ruttavano in faccia a nessuno. E non avevano il bisogno di gesticolare per farsi capire. Se poi dovevano spulciarsi, i babbuini dall’anima non umana lo facevano con riservatezza, in luoghi appartati.
L’altro esempio riportato dalla lettera era il PIL, il Prodotto Interno Lordo. La lettera si chiedeva come mai ne parlassero tutti quanti, mentre nessuno parlava più dell’anima. Tutti interessati al PIL, un’eccitazione generale con la speranza di vederlo in crescita. La curva del PIL che s’innalza. Il PIL che si gonfia. Il PIL che si raddrizza. L’impennata del PIL. Mentre invece, se il PIL era calante si diffondeva uno stato d’animo deprimente, ci andava di mezzo l’identità come se fosse colpita la psicologia collettiva. Una nazione intera in preda al lutto. Non c’era qualcosa di strano? Forse c’era di mezzo una ferita narcisistica, sembrava una reazione assimilabile a quella che si produce in caso di impotenza erettile. E affiorava qualcosa di perverso in questo sguardo insistito sul PIL, un pervertimento rispetto alla meta naturale. Anche un risvolto pornografico. E poi tutti a curiosare il PIL degli altri, a osservare con ansia com’era l’incremento, se si allungava troppo, e fin dove arrivava. Un caso evidente di invidia del PIL. E occorreva affrontare questa smania a mantenere il PIL in forzata e prolungata erezione.
Una lettera strana anche nella forma, senza la data di spedizione, senza una firma, priva d’intestazione. Ma chi l’aveva spedita? Sembrava uno scherzo. E poi andare a San Lazzaro? Nella città dove abito io San Lazzaro è il manicomio cittadino. Andare a San Lazzaro significa andare nei matti. Quindi ho cestinato la lettera. Ma però il giorno dopo ne è arrivata un’altra. Veniva ribadita la precedente convocazione e si precisava che forse era stato un errore parlare di anima, perché l’anima era meglio chiamarla in modo diverso, visto che la parola era stata oggetto di violenze e maltrattamenti reiterati. Da due millenni veniva impiegata a sproposito e usata come oggetto di offesa, quindi era normale che l’anima ne avesse risentito e si fosse deperita. A causa dell’abuso che s’era fatto, la parola era ormai inservibile, come l’olio frusto del motore, che a forza di lubrificare le parti meccaniche perde di densità e diventa scuro, meno vischioso. Ecco, l’anima si era annerita per la quantità dei frammenti e delle scorie che aveva raccolto nel corso dei secoli. E può darsi che avesse già iniziato Platone a usarla per ungere degli ingranaggi che facevano un po’ troppo attrito. Perciò, anziché parlare di anima, era meglio dire eccezione interiore. E per concludere, questa seconda lettera precisava che la convocazione era alle nove di sera nel teatro della scuola tecnica di San Lazzaro, il comune che sorge in prossimità del torrente Savena. Dunque non quel San Lazzaro che pensavo io, che è vicino al torrente Rodano.
Quando sono arrivato a San Lazzaro è stato difficile trovare il teatro. Sembrava non lo conoscesse nessuno. Poi un tipo che vendeva le caldarroste m’ha indicato una stradina a destra e un viottolo a sinistra, così ho trovato il posto e appena dentro una signorina che fungeva da maschera m’ha chiesto se ero lì per il convegno. Ho avuto un po’ di esitazione a rispondere perché nelle due lettere non si era parlato di un convegno, comunque sono entrato e quello che ho visto m’è sembrato più uno spettacolo che un convegno. C’era del pubblico in platea, non tanto folto, e sul palco delle persone stavano sedute su due file di sedie disposte a ferro di cavallo. Sembravano attori. Al centro, in fondo, verso le quinte, c’erano due strani tipi; davano l’idea di essere molto alti anche se erano seduti. Sembravano due registi. Era strano come spettacolo, ammesso che lo fosse, perché di quello che si diceva sul palco non si capiva una parola, giù in platea. Forse era una messa in scena d’avanguardia. Uno dei due registi ogni tanto si alzava. Era magro, più smilzo dell’altro, anche più scapigliato, e dava l’impressione di mormorare qualcosa. Dalla platea si vedeva che apriva la bocca ma non si sentiva neanche una parola, solo qualche sillaba, alla lontana. Ho pensato che forse pregava. Ero capitato in un incontro di religiosi? Però di rosari non ne vedevo. Forse si trattava di una setta, i testimoni dell’anima, o dell’eccezione interiore, come aveva precisato la seconda lettera. E io che cosa ci facevo lì dentro?
Dopo un po’ ha cominciato a parlare un attore di quelli che stavano seduti in seconda fila. Aveva una voce più sonora del regista e qualcosa si capiva, ma a tratti. Sembrava raccontare che una volta mentre era in treno aveva subìto un furto. Gli avevano rubato i soldi dal portafoglio e quando se n’era accorto s’era guardato intorno ma nello scompartimento erano in due, e non appena ha incrociato lo sguardo dell’altro viaggiatore quello è diventato rosso in faccia. Si era creato dell’imbarazzo fra loro due, cioè fra lui che era il derubato e l’altro che era il derubante. E intanto lui, il derubato, rifletteva sul fatto che non si era addormentato neanche per un momento, cioè quel furto gli appariva come una specie di magia, e così l’attore diceva che avrebbe voluto parlare col ladro, gli avrebbe fatto piacere rivolgergli delle domande per sapere come si facevano questi giochi di prestigio. Però non voleva importunarlo con la faccenda dei soldi rubati. Cioè l’attore provava una tale ammirazione per il ladro che nonostante fosse la vittima del furto voleva fare amicizia, e si sarebbe fatto derubare una seconda volta.
Io non so se erano proprio vere queste cose che sentivo. Sentivo male e dovevo tendere l’orecchio. Forse era una parte della sceneggiatura che rientrava nello spettacolo. Poi, mano a mano che parlava, anche la sua voce si era fatta bassa. Fra l’altro c’erano dei rumori provenienti dal pubblico. Siccome si sentiva poco o niente, e c’era molto caldo, qualcuno si era lasciato andare in posizione obliqua, con la testa un po’ reclinata all’indietro. Forse era poco abituato agli appuntamenti serali ed era caduto in uno stato di sonnolenza. In effetti alcuni emettevano dei sibili, dei fischi. E comunque, anche se era solo un respiro pesante, copriva la già debole voce dell’attore. Quando poi lui ha smesso il monologo nessuno ha più detto niente. La situazione era che noi del pubblico guardavamo verso il palco e quelli del palco guardavano il pubblico, cioè il pubblico aspettava che succedesse qualcosa sul palco, mentre quelli del palco davano l’impressione di essere loro ad aspettarsi che succedesse qualcosa tra il pubblico. Un intervento di quelli non accademici? Una domanda? Ma intanto nessuno diceva niente e adesso si sentiva bene che tre o quattro ronfavano alla grande. Poteva essere una pausa, ho pensato, la fine del primo tempo. Invece uno dei due registi, sempre lo smilzo, si è rivolto a una donna della platea chiamandola per nome. Ma secondo me era una di quelle assopite perché lei non ha risposto. Poi lui l’ha indicata a dito: quella donna dai capelli rossi, ha detto, e l’ha chiamata con un tono di voce più alto di prima. Ma lei non rispondeva. Allora io non ne ho potuto più, sono scoppiato, e ho alzato la voce per dire che non si sentiva. Noi del pubblico non sentiamo niente.
Il perché non lo so ma si sono messi tutti a ridere. Era un gioco? Uno scherzo? Si erano messi d’accordo per parlare a voce bassa e io che ero arrivato in ritardo non lo sapevo? Comunque mi sono sentito un po’ anomalo lì in mezzo, un eretico, e ho avuto anche paura. Ero l’unico che assisteva con la pretesa di sentire qualche parola, mentre gli altri del pubblico sembravano goderselo così com’era, questo spettacolo di mutismo.
Ma a quel punto è successo qualcosa di ancora più sorprendente, perché il regista m’ha chiamato per nome. Ah Guido, ha detto, ecco, bene, sei arrivato. Io in effetti mi chiamo Guido. Cioè s’è rivolto a me come se mi conoscesse. Non l’avevo mai visto, quel tipo. Poi m’ha invitato a salire sul palco per leggere qualcosa. Vieni Guido, vieni a leggere il tuo esempio di testo malfatto; l’hai portato il tuo saggio venuto male? Venuto male? sta parlando di me? ma leggere cosa? E dopo avermi invitato di nuovo sul palco s’è rivolto agli altri dicendo che io avevo tentato di scrivere un saggio filosofico e invece era venuto fuori uno sfogo contro mio figlio, un pezzo malfatto riuscito benissimo, ha detto. L’hai portato il tuo saggio di filosofia? In effetti io sono uno studioso di filosofia ma non avevo con me nessun saggio e poi non ho figli; non sono neanche sposato. Ma lui insisteva che dovevo salire sul palco a leggere anche perché si vedeva bene che il saggio l’avevo con me. Ti spunta il foglio dalla tasca della giacca, ha detto. E così una forza sconosciuta mi ha sollevato dalla poltrona e mi ha trascinato sul palco. Camminavo senza pensare alle conseguenze e pensavo che se volevano potevo improvvisare un discorso filosofico. È il mio mestiere. Io sono pagato per questo, e quando ci penso mi ritengo l’uomo più fortunato del mondo, ricevere dei soldi per fare dei discorsi filosofici, ma mentre salivo la scaletta per andare sul palco, non so perché, mi sono infilato una mano nella tasca e ho scoperto che c’era per davvero un foglio. Ero sorpreso, e devo avere assunto una posa scomposta, perché gli altri hanno ricominciato a ridere tutti. Ma ridevano per niente, secondo me, come bambini che gli basta guardare il dito indice per cadere nella ridarola. In ogni caso lì sul palco dopo che mi sono messo la mano in tasca ho tirato fuori per davvero due fogli piegati. Li ho aperti e ho visto il titolo. Il figlio di Hegel, c’era scritto, saggio di filosofia dell’avvenire mancato. Be’ vi leggo questo saggio sulla filosofia di Hegel, ma non so chi l’ha scritto, ho detto. E loro, di nuovo tutti a ridere. Poi ho cominciato a leggere.