All’ultimo banco ci ho trascorso tutta la carriera, dalle elementari alle medie, fin su, anche l’università, perfino il corso da artificiere sotto l’esercito, quando sarebbe stato meglio occupare le prime file. E adesso che sono sull’altra sponda, durante il collegio docenti continuo a mettermi in fondo. Un impulso automatico in cui forse rivive la nostalgia dell’infanzia, l’epoca in cui la vita sembrava piena di promesse, di aspettative. Ma dalla distanza è vero che si vede meglio, appare tutto in una luce diversa e ci si sottrae alla presa del discorso; si è meno costretti a seguirne il filo, che a volte prende alla gola e stringe come un nodo, se è un discorso troppo conclusivo, e negli spazi chiusi dove l’aria ristagna fa venire mal di testa. All’ultimo banco, magari vicino alla finestra un po’ socchiusa, era più facile divagare; si rischiava la bocciatura ma si guadagnava in salute.
Ecco, lo Spazzavento si presenta come un ambiente dove non c’è bisogno di stare in fondo perché è lecito perdersi nei discorsi. Un ambiente salutare, secondo me. E più i discorsi abbondano meglio è, discorsi malfatti, oppure sconclusionati, che iniziano non si sa come e proseguono senza una direzione, ma germogliano e fanno bene alla salute. Non c’è dubbio, sono discorsi poco pratici: non servirebbero in una tribuna politica; durante il processo si perderebbe la causa. Non stringono, non concludono.C’è anche bisogno di continuarli in trattoria, e poi a tavola s’ingarbugliano ancora di più.
Se mi è permesso sbilanciarmi, li direi discorsi socratici. Sembrano svolgersi come se si parlasse a mezz’aria, su un pallone aerostatico; una cesta appesa alle nuvole, diceva Aristofane, dove il vento che tira scompagina l’ordine. Quale ordine? L’ordine dei discorsi destinati a uno scopo, o meglio preconfezionati; direi così, quelli con la data di scadenza sull’etichetta, discorsi utilizzabili entro un mese, oppure a lunga conservazione, ma pur sempre deteriorabili entro l’anno. Invece allo Spazzavento si sono sentiti discorsi inutili ma eterni, a scadenza illimitata. Certo, privi di un valore di scambio, non commerciabili. Aiuterebbero a superare un esame universitario? un concorso nel pubblico impiego? Non sono vendibili nemmeno nei mercatini Ma a chi per questo ne sminuisse il valore, io farei una semplice domanda: forse che noi veniamo al mondo per l’assunzione all’INPS? È questa l’aspirazione di una vita? Tutta l’evoluzione della specie, e poi la storia a partire dal neolitico, sotto la guida della provvidenza divina, la schiavitù in Egitto, il passaggio del Mar Rosso, la terra promessa, i martiri e la devozione, il vago brusio di campane, diceva Hegel, tutta questa fatica per culminare nell’impiego alla previdenza sociale?
Senza orgoglio, ma diciamolo: quelli dello Spazzavento sono discorsi a elevata eccezione interiore, a spiccata risonanza individuale, tanto che a volte non li capisce nemmeno chi li pronuncia, ma non fa niente; cosa credete, che i discorsi siano attrezzi come le vanghe o le zappe? E tanto meno aiutano nell’impiego privato, questi discorsi. Figurarsi se uno si presentasse alle assicurazioni Generali per un colloquio di lavoro e facesse un discorso alla Spazzavento. L’amore per il malfatto? Me l’immagino la reazione. Il responsabile del personale lo metterebbe alla porta appena possibile; naturalmente con estrema gentilezza, ma solo perché lo prenderebbe per pazzo e avrebbe paura di una reazione scomposta. In effetti, quando torno a casa e mia moglie mi chiede com’è andata allo Spazzavento, io sono in imbarazzo, non so cosa dire. Se dicessi la verità mi darebbe del deficiente. Andare fino a Bologna a sentire uno che subisce un furto e prova ammirazione per il ladro, uno che la volta dopo parla di un bambino che a carnevale vorrebbe vestirsi da forchetta, o da sedia. E poi ascoltare un altro che legge un pezzo su un compositore di nome John Cage che dovrebbe suonare una vasca da bagno. Mia moglie? Direbbe che ci vuole un matto a spendere i soldi della benzina per una cosa del genere. Ma è proprio qui il bello dello Spazzavento, lo sfogo dei pensieri che corrono liberi. Non succede in nessun altro posto. A volte fanno ridere, questi discorsi; il più delle volte. Forse corriamo il rischio di cadere in un canone, è vero. Ma corriamolo pure, questo rischio. In fondo per andare e tornare da Bologna io corro il rischio di un tamponamento, o di rimanere in panne sulla corsia d’emergenza all’una di notte, col tasso alcolico superiore alla norma, a causa della trattoria. Certo, sarebbe bello sentire anche dei pensieri commoventi; ne avrei una gran voglia, purché gratuiti, cioè un po’ inutili, che non servano a innalzare una morale e siano volatili come l’etere, come quei ricordi di una bambina che un tempo passeggiava col nonno.
E se mi è permessa un’altra divagazione, sempre su Socrate, secondo me è per questo che l’hanno fatto fuori, perché non ne potevano più di uno che chiacchierava tutto il santo giorno, e faceva perder tempo. Secondo me stava già prendendo piede quell’altro genere di discorso, quello concludente, che misura l’efficacia, l’effetto, i risultati produttivi: avevano in mente il PIL, gli accusatori di Socrate, altro che l’empietà e la corruzione. Col suo gusto del discorso circolare e inconcludente, Socrate faceva passare la voglia di lavorare, come succede a me, che adesso dovrei correggere dei compiti e invece sto qui a pensare allo Spazzavento. E se qualcuno troncava in fretta il discorso, pur di continuarlo Socrate lo seguiva come fa il tenente Colombo. Si metteva a cavillare cercando la contraddizione nel nome della verità, che però gl’interessava poco, infatti non ha mai detto quale fosse, questa verità. Come mai? Io rispondo così: perché non lo sapeva neanche lui. La verità stava nel gusto del discorso, starci il più a lungo possibile. E se potessi dire due parole a Socrate, gli direi che sarebbe stato bene non usarla, la parola verità, che poi ha dato alla testa al suo allievo, Platone. Meglio dire che il piacere del discorso sta nel discorso stesso, non in ciò a cui è destinato. Come col cibo, il piacere sta nel momento in cui si mangia. E i discorsi che facciamo in uno stato di contentezza sono come gli assaggi a tavola: viene voglia di scambiarli. Sarebbe tristissimo se uno mentre mangia pensasse al ciclo della digestione, al metabolismo, alla secrezione del pancreas, all’assorbimento dell’intestino tenue. Perderebbe il gusto pensando all’evacuazione finale.
Adesso mi è anche venuto in mente un film che ho visto diversi anni fa. Verso la fine c’era un ragazzo che usava una videocamera per fare delle riprese a un sacchetto di plastica mosso dal vento. Prima il sacchetto si sollevava poi ricadeva, e di nuovo il vento faceva alzare il sacchetto con un’accelerazione improvvisa. A volte scendeva lentamente, aperto a paracadute, altre volte velocemente, quando i mulinelli del vento, dopo aver alzato il sacchetto, finivano con l’imprimere una spinta verso il basso. Di quel film non mi ricordo niente, né il titolo né i nomi degli attori e nemmeno la storia. Mi ricordo solo di questo sacchetto mosso dal vento, e mi ricordo che mentre vedevo la scena avrei voluto che continuasse il più a lungo possibile.