Non avevo ancora diciotto anni quando un giorno ho deciso di telefonare a Borges. In quel periodo scrivevo poesie dove raramente mancavano labirinti, cortili e qualche esegeta caduto in disgrazia. Mi piacevano questi argomenti, e anche se nelle poesie che scrivevo avevo cominciato a metterci dentro pure del whisky, delle sigarette e delle belle tette, quasi sempre mi prendeva la nostalgia dei labirinti di Borges, e ce li infilavo comunque, in qualche modo. È per questo che una mattina, dopo due notti insonni tra i suoi racconti, gli ho telefonato. Avevo parlato con un mio amico, poeta pure lui ma più piantato a terra e à la page di me, il quale mi aveva riferito di un suo conoscente che aveva invitato Borges per una passeggiata, e Borges aveva accettato volentieri di fare una passeggiata con questo sconosciuto. Volevo fare altrettanto, che per me significava qualcosa di miracoloso. Allora ho cercato il suo nome nell’elenco telefonico e l’ho trovato subito, sotto la lettera “B”: Borges Jorge Luis, via Maipú. La prima volta che ho chiamato mi ha risposto Fani Uveda, la domestica che l’ha seguito nei suo ultimi trentacinque anni di vita: “No, il maestro non c’è, è in viaggio, torna tra una settimana,” mi ha detto Fani. “Vuole lasciargli detto qualcosa?”. “No, gli dica solo che ha telefonato un amico”. “Riferirò,” ha detto. Presumo che Borges, durante quel periodo, stesse compiendo uno di quei viaggi che l’hanno portato a scrivere Atlas, uscito nel 1984, ma non sono sicuro. Dopo dieci giorni ho telefonato di nuovo. Questa volta mi ha risposto María Kodama, un po’ meno accondiscendente di Fani: “In questo momento non può rispondere,” mi ha detto, “provi più tardi”. Fremevo dalla voglia di parlare con lui, anche se non sapevo cosa dirgli. La sera stessa ho riletto El Aleph e al mattino gli ho ritelefonato. Mi ha risposto di nuovo Fani: “Sì,” ha detto, “ora glielo passo”. E mentre aspettavo, e il cuore mi batteva all’impazzata, sentivo sempre più vicino i colpi del bastone di Borges sul pavimento. “Pronto,” mi ha detto Borges con una voce bassa e tremante che scemava quasi fino a scomparire. “Buona sera maestro,” ho detto balbettando, “sono un giovane poeta, lei non mi conosce, volevo invitarla a fare due passi…”. A quel punto il vecchio Borges ha cominciato a parlare ininterrottamente, come se mi dettasse qualcosa: un monologo di due o tre minuti circa in cui non capivo neanche una parola di quanto stava dicendo. Aveva la voce talmente bassa e spenta che era quasi impossibile cavarne qualcosa. A un certo punto, però, s’è interrotto e l’ho sentito respirare sulla cornetta. Ancora non so se si era fermato per i saluti conclusivi o per darmi la possibilità di chiedergli qualcosa. Forse si aspettava che io gli dicessi l’ora in cui andavo a prenderlo, oppure mi aveva semplicemente detto che era stanco o che non se la sentiva di uscire. Non sapevo cosa dire, cosa aggiungere. Stavo lì e basta, e dall’altro lato l’autore della Historia de la eternidad, in silenzio. Siamo rimasti qualche secondo così, lui aspettava me e io aspettavo lui; alla fine non so chi dei due ha attaccato il telefono per primo.
La mia telefonata con Borges
in: Bazar •