La redazione di Canti da Ring risale ai primi anni del duemila in pieno poetico esilio parigino durante un incontro di pugilato con la realtà. Perché il giornalista chiede se i poeti scrivono solo quando sono tristi. (F. F.)
Perché il giornalista chiede se i poeti scrivono solo quando sono tristi
L’avevamo appreso nei manuali o forse solo
sentito dire
che i poeti le parole e il canto
come un atto di dolore – immagino –
soffrendo s’aprono un varco
masticano il cuore della musa
L’avevamo capito così e così era allora
il dolore del piccolo giacomo
appoggiato a visione rupestre
di una piccola città di provincia
che se non vi fosse nato il poeta
ai più resterebbe sconosciuta
O l’impazienza di Catullo i fuochi dentro
era al suo fianco al punto di redigere?
e voglio dire la cera e quanto altro
a portata di mano con la pena
o già le braccia al collo di Lesbia
teneva?
Non so se la mia tristezza sia solo un capriccio
dell’anima
turbata da molti e molti bicchieri
dai pensieri dai conti
di andare restare rifare di vita un unico sistema
coerente e mettere i soldi da parte
o farsi parte discreta assente
L’avevamo appreso dai manuali
che l’amore puro dei poeti solo del corpo
fa astrazione
distratta Laura e Beatrice mai esistita
ma Paolo e Francesca, Iseulte?
L’avevamo ripetuto nei manuali
leggendo a voce alta le braccia conserte
i poeti non hanno due tempi
uno per vivere e l’altro per incominciare
e la tristezza non ha niente del volo
del tuffo della vertigine ma solo
vuoto
E quel vuoto ti ragiona si assottiglia
e vuole farsi oblio anche quando
la memoria nel dormiveglia mormora
ricorda tracce dell’esperienza souvenir
i piedi freddi di lei incollati ai polpacci
raccogli i cocci e quel dolore è tuo
Ecco perché sussurrato da un telefonino
uno spirito tutto moderno da poeSms
un imbuto
ma è forse il vino la bottiglia felice versata
tra commensali in gara il fondo
che lascia intravedere lo sguardo
dall’inclinazione
Sale il bisbiglio e sa di pane e sassi
e sono le poche note conosciute
da lungomare da canzone d’amore
arrugginite dall’aria salmastra
dalla contingenza di venti anni di sinistra
senza coraggio senza di te
Avevamo la certezza che i poeti
alle notti bruciano di cortesia
compromettono parole cambiando l’ordine
il sillabario il neologismo e aggiungono
nuovo al vecchio anche se è antico
il nuovo ed il dolore la pena
guai ad ammalarsi per un raffreddore
Che i poeti sono gelosi e molto
ma solo degli altri poeti
come se una parola data non facesse
testo e men che meno libri di testo
e si piange la mancata assegnazione
del premio letterario di un generoso Nobel
il posto in prima fila come spettatore
del sé
e dello stesso
L’avevamo imparato a memoria
e riaffiora come una preghiera
a metà il poema
in genere la mente non va oltre
la prima quartina
poi diventa un gemito un rumore di fondo
in genere la morte non va oltre
la vita
Ma piace pensare alla stazza della nave
il bastimento carico alla fortezza volante
leggera resistere all’aria all’acqua
sfilare via lasciare scia di pochi e preziosi attimi
l’escoriazione sul mento ed al ginocchio
superficie profonda un arco teso tra la terra e cielo
un punto
di cedimento.
Perché il giornalista chiede se esiste una chiave di volta
A cominciare da una fotografia
con lui che è in piedi con la giacca
e sotto il braccio un libro assai minuto
la macchina veloce con la portiera aperta
e le strutture in ferro a fare croci
i piedi della torre aperti a schiera
tra le più belle gambe della ville lumière
Pablo è sul sedile dietro
e lei sul dorso del suo sguardo
ma non fa finta di niente ed arrossisce
guardiamo i ferri lucenti il clinamen lo sparo
diretto al cielo ed è da terra cielo
come le sedie di vimini intrecciato
a fil di terra solo uno sputo dalle acque del fiume
Una scena ripetuta polaroid di viaggi di nozze
peggio di studio di animoso andare
girovagare attrito scorza di buio
ma è il gelo del vento la maestosa stasi
come la volta che Silvia con la benda sul volto
però è un velo di gente in estasi stavolta
e andiamo avanti
Sai Pablo – viene da dirmi –
tu sei come la struttura portante
capriccio di ferraglia cumulo di viti e lega
matematico corpo calcolo preciso
minuzioso mai arronzato improvvisato mai
ed io sono quel vuoto
tra le dita di acciaio che ti piegano a vita
schiacciano il pieno e solo sono l’aura
che se non vi fossero luci sarei perduto
anche quando mi chiede lei quasi accigliata
se perdo un pezzo al giorno
se diventa voce il vento impulso senza odore
anche quando mi invento la frase ad effetto
l’affetto d’istante e lontananza
e mi recita in russo versi potenti
micro racconti degli eventi le cento carezze
io diminuisco in esperienza e spengo la luce
Perché il giornalista chiede al poeta da dove gli venga l’ispirazione
E ricordo. La sfida dei campi – corri!
e la canzone per l’amica – i primi pianti
come un riverbero della prima infanzia
l’amore dei fratelli ha un nome in comune
un segno d’istinto e senso d’immune presenza
E ricordo. Il pomeriggio breve della spiaggia
la luce come si deve e la sabbia – di Scauri
come pellicola d’istanti, linee di corpi muti
l’amore dei fratelli ha la terra in comune
un’orma resistente al vento e all’acqua, rabbia
E ricordi. Il filo di voce, il coro – guarda!
Dividersi il banco della chiesa – di sant’Antonio
come una banda, tra i pensieri accesi al cero
e senza i fratelli non c’è cielo comune
tenersi la mano ed una volta tanto in pace andare
Con i ricordi
Perché il giornalista chiedeva se i poeti scrivessero solo la notte
Mi sono addormentato come un vecchio
che sale le scale e con il fiato grosso
qui anche respirare è un atto dovuto
un cominciamento a federare il sogno
ammorbidirlo e tesserlo in una fioca luce
rossa purché non faccia male agli occhi
e brucia la cera e brucia il cielo anch’esso
al punto di diventare cenere e imbrunire
spezie segrete all’orlo di ogni sogno
tenebra d’equilibrio come sospesa al corpo
coricato è prima di ogni altro segno
curvo sul fianco coi ginocchi ad arco
non saremo rapiti al sonno domattina
dalla luce del vagone diafana, contratta –
e dalla spalla il gesto di tenere il libro
l’atto dovuto al volume e tenersi la testa
il rigo ripetuto quasi stampato a letto
e le lenzuola da sudario senza un Cristo
Mi sono addormentato ad invocare il nome
e le rughe sospese le parole nuove
vorrei incontrare padre e ritornare figlio
intanto la coperta suggerisce un titolo che vale –
o sorprendersi a fare l’amore in una giornata di mare
e anneghi nella parola versata di Cb e la rete
quella di Esenin e Pasternak, in un fugace ritorno
no, è il profumo dell’alba confuso al fumo
della sigaretta
l’odore del seno assente di lei e la sua corona
di eroina moderna modigliano incontro
e vivere due volte quel mistero
vivere al centro delle palpebre calate
contro
ma non baciare la realtà delle particelle
elementari Houellebecq mediocritas best seller
buco del culo nella verticale intatto
come un arco di trionfo e poi girarci intorno
– Ivan Karamazov la realtà se l’era fatta da solo –
Non ho visto il tempo passare non ti ho vista venire
Perché il giornalista aveva chiesto come si diventa poeti
Mi chiedo allora se di essi esista un albo
a partire da quando e come sia possibile
inserire il titolo sul bigliettino da visita
o il nome in una nuova antologia
se il timbro venga dall’alto e comunque un altro
se a corrente, a tipo di verso, e voglio dire
stridulo, soave, reo confesso, sperimentale,
lirico, saffico, pastiche distratto, piatto,
baciato – con la lingua o senza – crudo
come il prosciutto – tetrattico anzi
se sia di corda o fune, di materia viva, organico
militante, concesso, laborioso quante ore
a cottimo, o a peso d’oro o di copie pagate
a un editore di provincia ignoto ai più e ai pochi.
se basti scriverne una, o come dice massimo una sola
frase – dei poeti si dimentica il resto anche se essi
vendono la vita – e se si smetta di esserlo o si continui
anche pagando a rate con i festival di voce
una modesta partecipazione, une kermesse.
mi chiedo se sia una sola questione di muse e
avere la più bella basti o di musi – solo i più duri –
e fare panorama. che cambia a seconda del critico che cura
mi chiedo se allo stand numero otto della fiera
i novemila e passa volumi siano lumi di senso
o solo spaventapasseri che alla sera
fanno sparire pure l’ultimo stormo e il drang di rondini
Tenendosi avvoltoi distratti per compagni
Perché il giornalista dice a lei che è troppo trendy per essere un’intellettuale
Che il tempo l’esperienza e d’esperienza il tempo
è solo una questione di arte dell’oblio
cioè senza più io o al limite la sua corteccia
che come pelle al sole prima si abbruna e poi diventa
scheggia
e lui mi dice che per portarmi a letto
farebbe volentieri l’uomo oggetto
Che a nulla serve la ginocchiera o il trucco
della matita all’occhio come una guerriera
e la matrice in vena delle cicatrici appena
sfiorate dalle sue dita, e mai toccate, forse
tradite e il lutto che mi porto addosso non è il nero
ma di colori vivi quasi rossi, e poi sfumati in oro
di corpetto, e le caviglie fini per il volo
ed è un distacco quel che mi tiene a terra
e senza un dono
e lui mi dice che per portarmi a letto
per me soltanto giocherebbe all’uomo oggetto
Ripongo in una processione i gesti e il manto
della serena oasi di vuoto del vulcano
ed esperisco cenere sul viso
per riparare il torto e il turbamento
io rido, e al giovane che si vuole cosa
mostro la rosa sul polso e la lama al fianco.
[Poesie tratte da Il peso del Ciao di Francesco Forlani, Edizioni L’Arcolaio 2012]