Sabbioneta

Vita non immaginaria del signore di Sabbioneta, Vespasiano Gonzaga (1531-1591).

di in: Bazar

Progettando la chiesa dell’Incoronata, Vespasiano Gonzaga aveva comunicato con chiarezza agli architetti che voleva uno spazio chiuso e ottagonale, senza divisione in navate. Un unico spazio, una tensione assoluta verso la cupola, che progettò altissima. Per accrescere la vertigine dell’altezza, ordinò che le pareti fossero affrescate: per una sfasatura prospettica i rossi e i bianchi degli affreschi l’avrebbero resa più alta di quanto non fosse realmente. La chiesa fu costruita secondo le sue disposizioni. Di fronte alla bellezza dell’inganno, non appena l’opera fu compiuta,

provò un brivido di piacere, una commozione quasi religiosa.

Ma oggi, immobile all’interno dell’Incoronata, le ginocchia piegate sul marmo dell’altare, non prova né piacere né commozione. Un dolore atroce gli chiude le tempie. Il cuore batte con una potenza che lo spaventa. Per quanto tempo dovrà ancora vivere?

Quando la prima moglie Diana morì, Gonzaga fu felice. Senza il peso della sua voce, senza gli odori del suo corpo, che inutilmente lo abbracciava ogni notte, si sentiva sereno. Diana morì in silenzio, come una regina. Qualcuno disse che egli l’aveva uccisa insieme al suo amante. Calunnie. Si spense in modo naturale, come tanti che aveva conosciuto. Come Luigi, quel giorno, a cavallo. Come Giovanni Villa.

Le emicranie non cessano mai, nonostante il bisturi del chirurgo.

Lo ossessiona la piazza oltre la finestra:  è in discesa rispetto alla massa del palazzo, a un dislivello innaturale, le pietre messe di sbieco, il mosaico obliquo; là, di notte, la pioggia può raccogliersi in angoli oscuri, i corpi scivolare e sparire, la parola, pronunciata con forza, farsi rumore, poi suono fioco, sempre più fioco, quasi inudibile.

In seconde nozze Vespasiano sposò Maria d’Aragona e dal loro matrimonio nacquero due figli. Un anno dopo, lei si ritirò nella solitudine di Rivarolo e non volle più vedere il marito. Due mesi dopo morì di un male sconosciuto. Egli cercò di vederla pochi giorni prima della sua morte. Lo respinse sempre. Gonzaga non dimenticherà mai il cenno della sua mano dalla finestra dell’eremo – un cenno fragile ma duro, di rifiuto assoluto.

Non si diede pace di quella morte. Da allora visse se stesso come silenzioso, inconsapevole assassino degli esseri che amava. Bastava che vivessero accanto a lui per un certo periodo di tempo e accadeva. Una dolorosa conferma fu il suicidio di quel giovane pittore fiammingo dal nome italiano. Lo aveva invitato a corte perché dipingesse un affresco di caccia nel suo studio privato; ma un mattino d’ottobre – erano appena passate due settimane – non lo vide venire.

Poche ore dopo seppe che si era annegato nell’Oglio. Per Vespasiano la sua morte fu più terribile di ogni possibile tragico evento. Era molto affezionato a Villa. Aveva la sensazione che, morendo, il suicida si fosse portato con sé, nel fondo dell’acqua, un segreto intollerabile che riguardava soltanto lui. Qualcosa gli si era rivelato della sua vita, che neppure Gonzaga sapeva. Lo sventurato, non reggendo il peso di questo sapere, si gettò nel fiume. Il suo nome fu inciso nell’autunno del 1562 in una lapide del cimitero di famiglia: Giovanni Villa, di Bruxelles.

Fermo nella chiesa dell’Incoronata, egli non sa pregare. Negli ultimi mesi è dimagrito di sette chili. I cortigiani se ne sono accorti: i loro sguardi sono attenti, quasi spavaldi; onorano, con subdoli inchini, il futuro cadavere, da cui si aspettano lasciti e donazioni.

Sente che la ferita alla spalla, guarita da mesi, si riapre. È la stessa spalla a cui fu ferito il padre, nell’assedio di Vicovaro. Il piombo frantumò l’osso, egli stava morendo, ma la benda impedì al sangue di allagare il polmone e rimandò l’attimo della morte, il trasformarsi della pelle pulsante in involucro livido. La benda – una forma rigida e bianca – circoscrisse, difese. Come le colonne delle navate e gli archi delle tombe, costruiti per reggere anni di passioni e di fedi.

Fanciullo, Vespasiano studiava Vitruvio nelle ore notturne e alla luce del giorno esercitava il braccio all’uso della spada; a mezzanotte digiunava, soffrendo nella tenda i morsi del gelo, e a mezzogiorno partecipava a danze fastose e a nozze galanti; dopo il tramonto parlava di Petrarca al cortigiano più fedele, scrivendo versi e canzoni, e all’alba espugnava con audacia le città, seminava di morti le colline, sottometteva nel sangue le forze nemiche. Ricorda le sale degli specchi e dei mesi, degli arcieri e dello zodiaco, del labirinto e delle metamorfosi: gli affreschi e le statue sopravvivono, con l’immobilità dei simulacri, al persistere della sua presenza. Sono immuni. Come non lo sono gli uomini, che in sua presenza respirano affannosamente, con un oscuro disagio.

Ricorda quando, costruendo il suo teatro, ordinò che la volta fosse affrescata di figure taciturne e tranquille, bambine affacciate ai balconi e donne vestite di bianco, uomini galanti e nobili vecchi. Sarebbero stati là, a simulare le apparenze della vita. Nessuno di loro sarebbe morto.

Vespasiano sorride. Gli uomini sono sostituibili dalla pietra e dal colore. Basta volerlo. Gli scultori e i pittori che parteciparono alla costruzione di Sabbioneta non sapevano di essere, per lui, come il sonno che genera sogni. In quel sogno Sabbioneta era una cittadella fortificata e silenziosa, autonoma dal mondo, circondata da un perimetro di mura inespugnabili. Era luogo di salvezza. Era la sfida alla morte. Sabbioneta sarebbe sopravvissuta al nome dei Gonzaga. Sarebbe rimasta intatta, con le linee perfette dei bastioni e dei viali, della fortezza e delle stanze. Fuori, il mondo poteva frantumarsi. Non importava. Lunghi anni sotto il sole di Spagna gli avevano insegnato a perfezionare le tattiche della difesa, le tecniche della costruzione, il piacere della tana.

Poi se ne saziò.

Un giorno di ottobre, nell’incendio della biblioteca, perse gli amati volumi di Tacito.

Incenerirono fra le fiamme. Vespasiano soffrì un dolore immenso, più che se avesse perso la moglie o il figlio. Urlò, accusò i suoi servi, impartì inique e assurde punizioni. I libri andati in fumo rompevano parte del suo cerchio magico. Avrebbe urlato con la stessa angoscia se un fulmine avesse frantumato i merli della fortezza o la statua di un avo fosse caduta dal piedistallo.

Lo tormentava che un evento selvaggio e inspiegabile –in questo caso il fuoco – potesse espugnare la sua stanza nonostante le difese, nonostante le mura. Allora niente serve a nulla, se…

Non riesce più a pregare. Il suo io sopporta a stento la prigione delle ossa. Quell’ultima difesa – così inutile. Se un uomo potesse sprigionare nell’aria e polverizzarsi…

Un tempo scriveva lettere. Si illudeva di uscire da sé, di andare verso l’altro. Ma ne scrisse pochissime, mantenendosi riservato e prudente. Temeva di essere capito, guardato, ferito. Non si confidò mai. Con le sue frasi corteggiò sempre la verità cercata, attesa, prevista dall’interlocutore.

Ora Vespasiano non sceglie più. Fermo dentro la chiesa dell’Incoronata come il viandante, immobile al bivio, non decide altre strade e resta nel punto del bivio. Dopo la morte di Luigi non ebbe più figli. Quando si sposò per la terza volta non fu sorpreso che sua moglie – una donna pia e fedele – fosse sterile. Non apparteneva più alla sua vita: gli sarebbe sopravvissuta. Il ramo cadetto dei Gonzaga sarebbe morto con lui come il senso di Sabbioneta.

Invecchiando, torna con il pensiero a Maria d’Aragona – alla sua scelta estrema. Esiliata a Rivarolo, la vita limitata alla visione di un ramo, all’ascolto del vento. Gonzaga non crede alla sua scelta, come non crede a se stesso. Elevare torri o rinforzare bastioni è stato vano. Fecero bene, i suoi servi, a bruciare i libri, quel giorno. Fu un indizio che non volle capire. Appiccare il fuoco a Sabbioneta e distruggere la prigione: ecco quanto era necessario. Vivere la morte accettandola come evento. I suoi migliori progetti nacquero nel delirio della febbre, con il polmone che gli bruciava.

Vespasiano guarda la cupola dell’Incoronata. La osserva a lungo, perché vorrebbe volare lassù, rianimare gli affreschi, rompere la cupola, essere un’aquila nell’aria, sopra l’assurda Sabbioneta.

Tende il braccio, come a iniziare il volo, e resta così – nobile statua di bronzo che con solennità porge la mano al suo dio inesistente.