Quando si supera la rotonda di via Ucelli di Nemi e si entra in via Rainer Maria Rilke, anche a bassa velocità, si è presi da un certo disagio, si avverte nella testa come una specie di fastidio, come quando si sente il cigolio di una porta o il rumore stridente di un gesso su una lavagna, tutte cose che appena iniziano, in genere, non si vede l’ora che finiscano. E non perché via Rilke sia brutta (anche se lo è, in realtà), o perché Ponte Lambro, il quartiere che la ospita, sia brutto (anche se pure lui lo è, ahimé). È che, anche se la tua conoscenza del poeta Rilke è un po’ approssimativa, ti aspetti comunque, pensando a lui, almeno un bel viale alberato, con delle ville rinascimentali, delle cancellate alte e impenetrabili, un grande parco, con un sacco di panchine e dei giochi per bambini: qualcosa che idealmente ti ricolleghi a una dimensione poetica, alle solitudini dei grandi spazi, ai castelli nei quali Rilke si metteva seduto e componeva le liriche per cui è celebre. In realtà qui, nella via a lui dedicata a Milano, non c’è niente di tutto ciò, per niente. Anzi, ci si trova di fronte all’esatto contrario.
Quando arrivi in via Rilke trovi poche cose, tutte molto minimali, povere, popolari, adatte più alle corde del Pasolini di Ragazzi di vita che a quelle di chi ha scritto le Elegie duinesi. Siamo nella periferia a est di Milano, in un quartiere isolato tra la tangenziale est e Linate, diviso dalla città da strade a lunga percorrenza e piste di atterraggio, che lo rendono un’isola in mezzo al niente, a cui si passa vicino e che nemmeno si degna di uno sguardo, anche perché normalmente qui si viaggia a una certa velocità. Ed è un peccato, perché in realtà qua la gente ci vive, e tanta, anche se magari ci dorme solamente, perché va a lavorare da altre parti, più in centro, oppure in altre periferie, in altri pezzi di hinterland. Così, magari, la gente che vive in via Rilke, così come nelle vie vicine, avrebbe più piacere a sentir parlare del proprio quartiere come di un posto in cui si sta bene, in cui non c’è sempre bisogno di riqualificare e ristrutturare, in cui i servizi, le scuole e i negozi garantiscono uno standard elevato di vita, almeno come nelle altre zone di Milano, a sentire quello che si dice in giro. Invece, se uno fa una piccola ricerca scopre che quando sui giornali si parla di via Rilke lo si fa solo per fatti di una certa efferatezza, legati a criminalità e violenza: nei titoli si parla del silenzio della paura, o di una giornata no, addirittura un virgolettato dice che via Rilke va rasa al suolo, come se fosse un edificio abusivo o una discarica abbandonata. E in effetti anche io, che oggi scrivo qualcosa su via Rilke, lo faccio perché un trafiletto del giornale, nelle pagine locali, parla proprio di via Rilke nella maniera fredda e cinica dei fatti di sangue. Il titolo è chiarissimo: Picchiava moglie e figlia: in manette un egiziano. E nell’articolo si parla di cose che già abbiamo sentito da tante parti, nelle migliaia di via Rilke fintamente poetiche che esistono in ogni città: un egiziano di 53 anni voleva assolutamente fumare, e stare in camera da solo, e allora verso le 18.30 ha impedito a sua moglie, una connazionale di 42 anni, di entrare nella stanza dove la donna voleva accudire e cambiare l’ultimo nato dei loro quattro figli, un bambino di 18 mesi, prendendola a schiaffi e a pugni. E poi se l’è presa anche con la figlia quindicenne, intervenuta in difesa della madre e del fratello. Tutto questo accadeva da tempo, anche se nessuno in famiglia ha mai detto niente per paura di ritorsioni. L’appartamento della famiglia è in via Rainer Maria Rilke, dice alla fine il giornalista, come a precisare con nome e cognome che non ci si può sbagliare, è ancora lì che finiscono per accadere queste cose brutte e disdicevoli, le cose vanno sempre così in quelle vie lì, anche se uno dal nome non se lo aspetterebbe. E quando si gira pagina e si legge dei concerti e degli spettacoli teatrali di Milano, proprio nel periodo che precede la prima alla Scala, tutta lustrini e abiti da sera, ci si allontana con una certa facilità da via Rilke e dai suoi drammi e si capisce che, in effetti, è proprio vero, purtroppo: agli occhi del distratto lettore questo tipo di cose vanno sempre allo stesso modo in quelle vie lì.
Chiedo scusa se la risposta è tardiva, ma le mie capatine nel WEB sono veramente occasionali.
La traduzione è ripresa dalla mia versione del “Libro d’ore”, sperimentalmente impostata sulla stessa metrica dell’originale. Il “Libro d’ore” è il nucleo atomico in cui si concentra tutta l’opera successiva di Rilke: quando, in un percorso di ritorno lo capii, esso mi piacque davvero e ne tentai la resa in italiano.
Grazie per l’ospitalità; Rilke è il poeta mecenate d’incontri.
Grazie, Marmar, giusta e intonata la tua riflessione sulla necessità, a maggior ragione oggi, di “imparare a vedere”. Ci dici di chi è la traduzione di Rilke che hai postato?
Questa riflessione in toni mesti sulla condizione di una via Rainer Maria Rilke nella periferia milanese richiama alla memoria l’esperienza personale di questo giovane sensibilissimo poeta quando, strappato dal destino e dalla necessità agli spazi smisurati della natura, agli spazi dell’aria, dell’acqua e della terra (Russia e Worpswede), si ritrovò buttato nell’anonimità della metropoli (Parigi).
Fu questo “essere gettato”, questa Geworfenheit in senso heideggeriano, che generò in lui quel tumulto interiore che resta tattile nel “Malte”, il suo romanzo autobiografico, così denso oggi ancora di suoni, odori e gusti fin dalla prima pagina. E fu da questo “essere gettato” che egli cercò il proprio scampo attraverso un compito: quello dell’imparare a vedere, del Werk des Gesichts (un simile compito spetta a noi oggi, gettati nel tumulto della cronaca quotidiana, se vogliamo scampare come collettività al nichilismo del senso dell’esistere).
L’inizio di questo compito fu per Rilke difficilissimo: odiò Parigi prima d’imparare lentamente ad amarla; e imparò ad amarla solo quando, ultimata l’opera della vista, ebbe iniziato un’opera del cuore, un Herz-Werk.
Ancora stupisco quando leggo la violenza della sua invettiva contro le metropoli, invettiva feroce perché di un poeta così attento ad ogni sfumatura della parola. Riscrivo qui la trentunesima poesia dal “Libro della povertà e della morte”, il terzo del “Libro d’ore”, poesia scritta il 19 aprile 1903, quando Rilke, in cerca di serenità, era fuggito nella nostra Viareggio.
Ma la città il suo vuol solo avere;
tutto artiglia la sua corsa rapace;
spacca come assi marce bestie intere;
consuma molte genti e ne fa brace.
Ognuno è in essa servo di dottrine,
vi perde ogni equilibrio, ogni misura;
dà nome di progresso a brevi linee
di lumaca, via via alla furia incline;
fa suo il brio e il brillio delle sgualdrine;
con ferro e vetro strepe oltremisura.
Zimbello ormai di quotidiani trucchi,
neppure più sa essere se stesso;
cede le forze sol perché s’ammucchi
denaro, vento poderoso, e in esso,
esile e vacuo, attende, dall’eccesso
di vino e di ferini e umani succhi,
stimoli ai suoi caduchi uffici stucchi.
Grazie e buon cammino da marmar, malato di rilkite.
Sono una pervicace osservatrice delle vie di Milano dedicate agli scrittori. Plaudo a questo articolo che ha saputo parlare delle inclinazioni del letterato e dei contrasti metropolitani, con relativa disillusione. Randaccio tiene in equilibrio oggettività e tenerezza su un registro davvero commovente, che non dà spazio né a rivendicazioni né a facili invettive. E smuove dentro.