Ero preoccupata e irritata.
Preoccupata perché il giardino della casa che avevamo appena preso in affitto, trascurato da troppo tempo, era in uno stato semiselvatico rispetto alle altre case del quartiere. Le quali, non avendo recinzioni, facevano ognuna bello sfoggio delle loro siepi scolpite, i fiori delle aiuole in tinta l’uno con l’altro, i canali di scolo dell’acqua scavati di fresco, il terriccio decorativo disposto in soffici mucchi a nascondere ogni minima imperfezione del terreno. La nostra erba era spettinata in ciuffetti irridenti, un po’ più lunghi qua, un po’ più corti là, e punteggiata da erbe selvatiche che avevano attecchito in macchie sparse su tutto il terreno. Le nostre siepi erano cresciute senza limiti e sventrate nel mezzo dal peso della neve. La terra era smossa dalle talpe e solcata dal libero scorrere dell’acqua.
Mi ci ero messa subito con cura e pazienza a potare, rastrellare, piantare e divellere, ma all’erba, all’inizio, non avevo pensato.
A nostri amici che abitavano poco lontano, però, l’erba era cresciuta di qualche centimetro di troppo, durante l’agosto tropicale di queste parti. Si erano appena trasferiti, pensavano a ripulire e ridipingere e il giardino ancora non l’avevano troppo guardato. Allora un giorno si erano sentiti contattare dal padrone di casa dicendo che i vicini tutti si erano lamentati delle pietose condizioni della loro erba, e che se non la tagliavano entro 24 ore li avrebbero denunciati alla polizia.
Perché da queste parti cose come non tagliare l’erba al momento giusto, fumare in una casa dove il contratto non lo prevede o tenere animali domestici dove lo proibisce è un reato vero e proprio e ti porta non a una semplice scaramuccia coi vicini o con i proprietari intolleranti ma a una grossa grana.
Per questo poi, ero anche irritata.
Perché mi sembrava paradossale che qualcuno potesse essere così fissato da non concedere qualche giorno di deroga al taglio del prato e così poco gentile da rovinare l’umore di gente appena arrivata con la minaccia della polizia. O da mandarti gli agenti a beccarti col mozzicone in mano o mentre Fuffi fa le fusa in salotto.
Quando poi la padrona di un giardinetto ha di nuovo minacciato di chiamare la polizia perché mio marito e i nostri figli ci avevano sconfinato cercando riparo dal diluvio sotto un albero per fortuna io non c’ero, perché sennò dalla polizia ci finivo davvero.
In che paese sono capitata…? Mi dicevo col tosaerba in mano, mentre cercavo di domare il mio prato ribelle.
Quando poi finalmente anche noi eravamo puliti e pettinati come gli altri, con l’erba uniformemente verde e corta, da un lato ho tirato un sospiro di sollievo. E anche per questa volta ho scampato la galera, mi son detta. Ma dall’altro mi è entrato un certo fastidio per l’eccessiva cura che mettono gli americani nel rispettare sempre e comunque le regole, senza flessibilità.
Qualche tempo dopo ho avuto il problema di togliere qui negli States i punti di un intervento che avevo subito in Italia. E ho dovuto girare due ospedali e tre specialisti prima di trovare qualcuno disposto a farlo. Perché, secondo la regola, i punti li toglie chi li ha messi, e quando io facevo presente che chi me li aveva messi stava dall’altra parte dell’oceano alzavano le spalle e facevano la faccia neutra.
Ma che c’hanno questi con le regole? Ma sono davvero così più importanti dei loro fratelli esseri umani, davvero annullano ogni briciola di comprensione? Mi ero chiesta lì per lì e però poi, con l’andar del tempo, mi ero dimenticata di pensarci ancora. Solo registravo nuovi episodi di rigidità ma con la coda dell’occhio dell’attenzione e senza cercare di incasellare l’evento.
Poi, un giorno, ho visto in televisione la faccia di uno che ha rifiutato di aiutare una famigliola che lottava contro la furia dell’uragano. E la questione mi è tornata alla mente.
Perché la mamma e i due bambini sono morti, e lui, davanti alle rimostranze del padre e il turbamento del reporter, era stupito ed offeso. Stava a casa sua, quel giorno, aveva il diritto di restarci in pace. E siccome qui non c’è il reato di omissione di soccorso continuerà pure a starci, in pace a casa sua, mentre invece finalmente c’era davvero qualcuno che se lo meritava, di essere portato via dalla polizia. Qui se sei nelle regole hai fatto, sei a posto. Intorno puoi avere anche lo tsunami…
Siccome però mi riesce difficile vivere pensando di stare fra individui fatti di un’altra tempra, nati senza il gene dell’empatia, collaudati per l’efficenza e difettosi di umana pietas, mi sono messa a riflettere sulla questione. Dov’è il discrimine? Qual’è il punto in cui le nostre sensibilità si separano tanto da renderci incomprensibili gli uni agli altri?
Se una vicina di casa avesse scacciato i miei bambini, in Italia, spedendoli sotto il diluvio senza motivo mi sarei infuriata. Ci sarei andata a parlare, avrei voluto chiarire il nostro gesto e farmi spiegare il suo. Se mi avessero lasciata a soffrire con i punti che si incarnivano sotto la pelle avrei protestato, fatto scenate in ospedale, minacciato la denuncia.
Non avrei potuto vivere queste situazioni ed altre simili senza reagire, sarei dovuta in qualche modo scendere a patti con la realtà… e qui? Come straniera osservo e mi adeguo e per non soccombere al fastidio devo cercare di capire.
E chiedendo in giro, a chi abita qui da tanto tempo, piano piano comincio a farlo. Qui non si conta sulla solidarietà spontanea. Non ci si fida della compassione. Non si può dare per scontata la comprensione per i problemi altrui. Quello che invece non ti tradisce mai è il rispetto delle regole. Il seguire una procedura, il comportarsi secondo i dettami della legge. C’è un metodo giusto per fare ogni cosa, dal corteggiamento all’addestramento del cane, i rapporti col vicinato, le festicciole fra bambini, affrontare un lutto, disintossicarsi dalla droga, dimagrire qualche chilo. Niente improvvisazione, niente seguire l’istinto, niente lasciarsi andare a un’esigenza corale.
Se inviti una ragazza fuori per tre volte e lei accetta, alla terza sei autorizzato ad aspettarti del sesso. Se ci provi prima, lei ti può denunciare.
C’è il modo giusto, standardizzato, di fare le cose. Si segue quello e si è a posto.
Il corollario è che chi non lo segue, il modo giusto e standardizzato, deve essere individuato, sanzionato, punito, additato, escluso, corretto. Non si può mica costruire una società sulle regole e lasciare che qualcuno le infranga…
Anche quando vivevo in Germania, a ripensarci, avevo avuto questa sensazione. Nessuno contava sulla comprensione, tutti facevano cieco affidamento solo sulle regole.
E come dargli torto, a questi paesi, se poi sono quelli con l’economia che tira, la società che non deraglia, la certezza di un futuro, la fierezza di sé?
Dove stiamo andando noi col nostro volemose bene ad ogni costo? Con la nostra tolleranza, col nostro strizzarci l’occhio?
Noi che continuiamo a trascinarci verso un baratro di ingovernabilità in ogni campo del vivere civile, come facciamo poi a infastidirci di quegli atteggiamenti che fanno un popolo forte e soddisfatto?
Eppure.
Come mi sentivo più a mio agio fra i sorrisi comprensivi, i “per questa volta passi”, i “visto come stanno le cose…” e ancora non mi ci rassegno, all’idea che sono quelli che poi portano all’imperfezione, in un domino perverso che alla fine sta rovinando il mio paese.
Non ci si potrebbe fermare un momento prima? Vivere la gentilezza fermandosi prima che diventi lassismo. Seguire le regole fermandosi prima della stupidità?
Mi sorge spontaneo un sogno, una visione utopica ma non capisco perché poi così irrealizzabile di un mondo dove le nazioni hanno le strade pulite, il PIL in ordine, i treni che arrivano in orario e dove i vicini, prima di chiamare la polizia, vengono a chiederti con un sorriso se per favore puoi tagliare l’erba, che sta diventando un po’ troppo lunga…