Arianna

di in: Bazar

Casupole bianche intorno, e un cerchio di donne,  in fondo allo stradone il mare, con le sue scaglie di luce che dopo il tramonto perdevano l’oro e si spegnevano. A quell’ora Arianna prendeva a raccontare, vecchia tra le vecchie donne dell’isola. Sulla parte vuota del lastricato fiori dipinti col gesso, e bambini seduti in cerchio che gettavano in aria sassolini bianchi, riprendendoli poi sul dorso della mano. Altri bambini correvano verso la scogliera inseguendosi e gridando. Arianna raccontava, i capelli raccolti sotto il fazzoletto nero, la voce d’aria, leggera.

Il racconto da quelle sere andò verso altre sere, verso altri paesi che guardavano il mare o che giacevano in mezzo alle valli. Entrò in altre voci, e in altre lingue. In certe notti, se ascolti il vento che viene dal mare, puoi sentire le parole di quel racconto.

 

La sera camminarono lungo stradoni impervi, aprendo cespugli che ostruivano il cammino, scostando rami, evitando pietroni e tronchi caduti sul sentiero. Lei lo precedeva con un passo più svelto. Sentiva che l’altro era chiuso nei suoi pensieri. Nei pressi di un bivio gli tendeva la mano per guidarlo. La luna faceva viola le nubi, si districava a tratti dalle loro coltri e subito vi si nascondeva. Sembrava mandare intorno una calura greve e umida. Nei momenti in cui campeggiava gialla nel lembo di cielo liberato, le chiome degli alberi rilucevano, le ombre stesse si facevano lucenti, la monodia dei grilli saliva di intensità, riempiva la sera, la campagna nella sera.

Camminarono tutta la notte. Solo all’alba apparvero, sopra la cima degli alberi, le alte mura: cingevano severe il palazzo. Dopo una radura,  nei pressi di un grande tronco di quercia, fascine di sarmenti chiudevano un cunicolo: le sollevarono per entrare nel sotterraneo. Poi Teseo si curvò per accendere una fiaccola.
Non so, disse,  se è la fama della tua bellezza o l’amore per Atene ad avermi spinto fin qui.

Lei taceva guardando, al lume della fiaccola, le conchiglie sulla pietra, le incrostazioni azzurre e rosse, le zone muschiate, su cui veloci strisciavano grosse lucertole. Taceva sentendo sulla pelle il fuoco d’un amore che aveva vinto ogni altro legame. L’aveva strappata, quell’amore,  alla casa regale.  E aveva soffocato il sospiro d’ansia per il fratellastro che era chiuso nel corpo di un animale.

 

Il cunicolo non era lungo, presto apparve la luce del giorno e in essa una grande porta di basalto, lucente come specchio, austera nella forma. Teseo gettò a terra la fiaccola,  la spense calpestandola.  Di là dalla porta si trovarono in una sala dal soffitto altissimo dove la luce penetrava dall’alto:  un cerchio raccoglieva il cielo spingendolo  con tutto il suo blu nei corridoi. Sulle pareti, cervi dipinti correvano nel fitto di un bosco. Passaggi rettangolari mettevano in comunicazione le sale, sopra i passaggi il cinabro, il porporino e il minio guizzavano nelle forme di pavoni sontuosi, di aquile, di pernici. Teseo seguiva Arianna in quella solitudine di pietre e di luci, la seguiva raccolto nel mantello, la mano stretta intorno al pugnale.

 

Giunse, improvviso, giunse con l’onda di un rimbombo impetuoso, un muggito, si ripeté rimbalzando di sala in sala. Era tuono e squarcio di nube nera.  Era aprirsi di roccia, precipitare di pietre negli abissi. Tornò poi più tenue, quasi si allontanasse oltre le mura del labirinto. Era il segnale che Dedalo aveva descritto: con un abbraccio privo di parole i due si separarono. Arianna tornò verso la porta di basalto, Teseo proseguì nel labirinto, seguendo il filo del gomitolo rosso, il filo dell’ amore silenzioso che gli avrebbe permesso di ritrovare l’uscita. Il sole entrava già spavaldo accendendo le pareti, tagliando ombre che parevano corpi di animali, spettri d’alberi, nuvole di pietra. Passaggi dal sole all’oscurità, angoli umidi poi sale  vuote, androni bassi e sinuosi, raggomitolarsi di pareti. Un grido di nuovo penetrò nei corridoi, poteva essere di dio infuriato e di belva, oppure era  stridore di uccello:  in quel momento corvi neri solcavano l’alto, in cima alle pareti, tra nuvole grigie e spesse. Furono camminamenti, svolte e ritorni, furono improvvisi colonnati e anse dalle pareti di luce, pavimenti di giada, portali di ossidiana. I muggiti ripresero, più frequenti, prossimi. Sul fondo di una stanza lui apparve : lanugine arruffata sulla fronte, le corna piccole e ricurve, sul  dorso pelo nero e ispido, il muso grifagno, la lingua violacea, un vapore bianco usciva dalle froge, le mani erano zampe e dita leggere, gli occhi uno sguardo d’irata meraviglia con lampi improvvisi di quiete.  Giaceva rannicchiato in un angolo, soffiando parole che non erano parole ma squarci di sillabe rotolanti nel rumore di una lingua ignota. Teseo, nascosto dietro una colonna, indossò la maschera, ed ebbe anche lui corna piccole e ricurve, ebbe pelo nero e ispido, ebbe zampe e dita leggere. Mascherato, tremante,  mosse verso il Minotauro. Nel passo mimò una danza, gli occhi nella maschera ardevano, brividi attraversavano il corpo che con balzi armoniosi si approssimava all’altro corpo. Che era corpo di pelo ispido e di occhi profondi, di corna bianche e di bocca scura, e s’era sollevato dal pavimento con un sibilo di meraviglia, e aveva già risposto con un passo di danza al passo di danza dello straniero.

Il Minotauro danzò leggero, con allegria, accerchiando lo straniero con movimenti che erano di festa, con gesti che erano abbracci. Danzò, gridando di dolore, anche quando il sangue cominciò a sgorgare nero dai suoi fianchi, danzò quando il suo passo fu l’ultimo gelido passo. Sul pavimento fu corpo d’ombra, mentre guardava con meraviglia, privo di domande, lo straniero che aveva tolto la maschera di toro e sollevato il pugnale verso l’alto. Guardava il cerchio di luce e il volo di uccelli che era sopra le pareti, e senza domande, senza più voce né pensieri, con i fianchi squartati, piano sprofondava nel buio.

Dia era un’isola di mirti e di allori e sul suo arenile approdarono un giorno i due amanti. Il desiderio era vento impetuoso, bufera di abbracci. Seguiva un tepore di abbandono. Nella notte in cui la luna, bianchissima, chiamava alla riva, una striscia di sabbia fu letto nuziale. Poi Arianna, declinando la luna, il corpo nudo sotto un mantello, fu avvolta in un sonno di pietra e di buia dimenticanza. L’alba accarezzò piano le sue palpebre, poi mostrò un chiarore incerto e la linea della riva, mentre l’ andirivieni dell’onda fece udire il suo ritmo insieme con un mugghiare lontano, perso nell’onda. Le mani di Arianna si stesero verso una carezza e sentirono la sabbia umida tra le dita, gli occhi si volsero verso il corpo di lui e videro  nella rena le orme del passo che s’era mosso verso la riva. La nave di Teseo  apparve già presa dall’orizzonte, le vele dispiegate nella prima brezza. La luce dilagando dissipò  le ultime ombre figlie del sonno. Mostrò la crudeltà della partenza. Al tradimento che separava l’amore dal corpo, il desiderio dalla pelle, Arianna oppose prima il gelo del silenzio, poi un singhiozzo che cercava la via del grido e si ingorgava in se stesso, imprigionato nell’asprezza di una partenza senza addio. Le vesti giacevano su uno scoglio gonfiate dal vento. Finalmente, mentre la vela era già un punto nero nella lontananza, il pianto si fece parola, la parola lamento. Una nube fermò la sua corsa, ombreggiò il corpo nudo di Arianna, la sua bellezza che ora turbava soltanto le piante e il vento.

Così – gridava Arianna, gli occhi rivolti verso il mare già in bufera – così, Teseo, come dono d’amore mi lasci la tua slealtà, dimentico dei giuramenti, così adempi le promesse, dandole al vento che scuote le vele della tua nave. Le speranze che la tua voce accese un giorno nel mio desiderio ora seguono anch’esse la scia della tua nave e si perdono nei flutti. I tuoi abbracci erano frecce velenose, i tuoi sospiri d’amore erano bestemmie.

Mai più – gridava – mai più una donna deve credere ai giuramenti di un uomo. Mai più deve attendersi amore dall’amore, e neppure pietà in cambio dell’amore. Quale leonessa tra rupi impervie ti ha generato, quale mare ti ha concepito tra spume adirate, se per te l’addio è fuga di ladro, e l’amore è strategia d’inganno?

Così gridando Arianna sollevava le braccia verso il cielo, chiedeva alle Eumenidi che la vendicassero trattenendo Teseo nella notte di un’immemore attesa quando fosse giunto in vista del Pireo. Il grido per un poco placò il turbine che infuriava nel cuore della fanciulla di Creta e sopra il mare.  Poi Arianna sollevò dallo scoglio la bianca veste e le bende che cingevano i seni, e coprendosi si avviò verso la roccia che sovrastava la spiaggia. S’avviò accompagnata dal canto degli uccelli che salutavano il sole, s’avviò chiamando presso di sé tutta la sua solitudine e invocando, con lamenti che erano ferite, il nome del fratello tradito. Nessun dio comparve sulla via, nessun carro con ebbre baccanti, con satiri e sileni, si annunciò scampanellando di gioia. Soltanto il vento, divenuto più forte, accompagnava il passo di Arianna, che andava, sola, verso i suoi giorni non più di sovrana ma di donna mortale tra donne mortali, nel cuore un deserto di pietra, e in mezzo la piccola oasi di una  mortalità che era anche fiore, nascita di un fiore.

Nelle sere d’estate, intorno donne col capo coperto da un nero fazzoletto orlato di bianca trina, Arianna raccontava la sua storia. E raccontava, crescendo il vento, altre storie che risalivano al tempo senza tempo in cui gli uomini temendo la morte popolavano la terra di figure immortali. E scoprivano, di racconto in racconto, la fragilità della loro illusione. Scoprivano che la vita era colma di avventure soltanto se accoglieva  la morte, era abitata dall’amore soltanto se lasciava che si dileguassero tutti gli dei e  tutti gli eroi.