Fadimata la conoscevo da anni. Veniva da una zona nel nord del Mali dove il deserto è bianco, fatto di sabbia e minuscole conchiglie, issenen n’tufush, le chiamano, “i denti del sole”, denti che il sole perse nella sua battaglia contro la luna. Al tempo del mio lavoro con i guaritori dogon, a Bandiagara, una mattina un taxi-brousse aveva fatto il suo ingresso nella corte della casa dove abitavo. Vestita di verde chiaro, alta, esile come un’erba, e stanca del lungo viaggio, arrivava Fadimata. Conosceva la medicina delle donne tuareg, veniva a Bandiagara per lavorare con noi.
Nella sua sacca, tra veli e album di fotografie, c’era una quantità di piccoli involti, polveri vegetali, foglie, con cui preparava le ricette che nel tempo aveva imparato, diceva che un giorno anche lei avrebbe curato la sua gente. “Amo la vecchiaia” affermava decisa, e quando lavorava con le guaritrici sembrava cambiare, prendere il loro stesso aspetto antico e polveroso, e tuttavia il suo fare volitivo, un misto di saggezza e di capriccio, la bellezza berbera e la pelle chiara tra gente di pelle nera, i suoi veli e la nota passione per il ballo per cui a Tombouctou l’avevano soprannominata “Disco”, insieme agli improvvisi momenti di languore, quando era afflitta da emicranie e da indecifrabili dolori, avevano provocato un sotterraneo sommovimento a Bandiagara. Il pomeriggio fuori della sua porta stavano per ore parcheggiati, sonnecchianti su una sedia o seduti a cavallo del motorino, gli inviati dei molti corteggiatori, in attesa di poter consegnare il loro messaggio.
Arrivando sull’altopiano, Fadimata aveva creato un’associazione di ragazze, “Lescharmantes”, di cui lei stessa era la presidentessa. Bisognava pagare un biglietto per partecipare alle serate che organizzavano. Veniva recapitato l’invito scritto a mano su un pezzo di carta di quaderno: le charmantes avevano il piacere di annunciare una soirée al Campement. L’edificio basso di epoca coloniale, fatto come i caravanserragli di un tempo, stava oltre il ponte sullo Yamée, all’uscita dal villaggio e doveva servire per i viaggiatori di passaggio, ma era sempre vuoto. Dopo cena si andava là a ballare nella luce verdastra di un tubo al neon alimentato da un piccolo generatore, con la musica assordante di Alpha Blondy, Salif Keita, del Badema du Mali e della coppia di cantanti ciechi, che allora andavano di moda. C’erano dogon, tuareg, bambara, songhay, la jeunesse di Bandiagara più i gendarmi in servizio sull’altopiano, il medico del piccolo ospedale, le donne con i neonati legati sulla schiena, ognuno che seguiva la musica lasciandosi trasportare a suo modo e creando la danza con il compagno del momento, una mescolanza di movenze sinuose o di ritmati movimenti scatenati, i dogon con i loro rapidi scatti, le tuareg e le songhay con l’ondeggiare del petto e delle spalle e le braccia aperte come ali mosse dal vento. Nell’afa immobile, l’odore della pelle calda e sudata, delle stoffe inamidate e dei profumi stagnavano avvolgendo la notte del Campement.
La “casa dei tuareg”, come i dogon di Bandiagara la chiamavano, con la piccola corte di persone che avevano raggiunto Fadimata per tenerle compagnia, era diventata un punto di attrazione dove succedeva sempre qualcosa. Una volta era stata organizzata una serata di magia.
Erano arrivati per il giorno di mercato i maghi songhay, nella casa era stato organizzato uno spettacolo. Il fuoco, acceso nel centro della corte, creava ombre nette sui muri di terra, gli invitati, seduti in attesa sulle stuoie, si scambiavano racconti terrificanti. Qualcuno diceva di un hausa che aveva staccato la testa a un dogon, poi gliela aveva rimessa sul collo come se niente fosse, altri parlavano della notte in cui una volta l’anno tutti a Bandiagara si chiudevano in casa, quando la gente di Sokolo, nota per la stregoneria, calava dal villaggio verso il fiume e fino all’alba fuochi di vari colori saettavano come fulmini nel cielo. I maghi erano arrivati al secondo bicchierino di tè e la serata si era poi rivelata una serie di maldestri giochi di prestigio con un mangiafuoco, una colomba svolazzante dentro un cartone prima vuoto, cinquecento franchi CFA scomparsi e poi riapparsi sui quali c’era stata anche una mezza lite.
Era stato in quella occasione che avevo sentito parlare di Ibrahim, il mago, zio di Fadimata, che materializzava monete d’oro e confetti colorati, poteva di colpo far spalancare un muro e svelare il tesoro nascosto e poteva levare la parola a qualcuno o impedirgli di urinare. Si raccontava che partendo per un viaggio avesse reso sterile la figlia ancora da maritare e che al ritorno non avesse più potuto ricordare la formula per sciogliere l’impedimento cosicché lei era invecchiata senza matrimonio e senza figli. Fu sempre in quella occasione che sentii parlare per la prima volta dei poteri straordinari di alcune persone della famiglia di Fadimata, una frazione nomade divisa tra il Mali, il Marocco, l’Algeria, la Libia , la Mauritania , la cui genealogia si pretendeva arrivasse indietro fino alla Mecca, agli Ansar, compagni del Profeta Muhammad. Il nome, Kel Antessar, si faceva derivare da quello, richiamando una prestigiosa genealogia segnata dagli inizi stessi dell’Islam. Erano i Kel Antessar che da tempo detenevano l’ettebel, il tamburo di guerra, insegna del potere tra le tribù tuareg. Quando di sera pensava ai suoi trentasei fratelli, alle tre maman spose del padre, all’accampamento nel deserto del Nord, Fadimata prendeva dalla sacca le fotografie, le guardava a lungo piangendo, le baciava, all’improvviso rideva delle lacrime che le scendevano inarrestabili sul viso, poi si avvoltolava nel velo e si addormentava, perfettamente serena. Col tempo, i suoi repentini sbalzi di umore diventarono per tutti normali, come le nuvole che vanno e vengono nel cielo.
L’accampamento del padre stava nei pressi del villaggio di Gargandou nella regione di Tombouctou, i pascoli arrivavano fino alle pendici del Lago Faguibine e a Essakane, dove gli antenati riposavano sotto le sabbie del deserto. Greggi di capre, cammelli e bovini e spostamenti stagionali da una zona all’altra per trovare l’acqua e l’erba per gli animali. Tremaman (ma in seguito se ne aggiunse un’altra), e lei era la prima di “molti fratelli” che si rifiutava, se richiesta, di dire quanti erano perché le persone, o gli anni, o i giorni di viaggio che restano non si devono mai contare. Ma dopo un po’ bisbigliava rapidamente “trentasei!”. Il primo fratello era morto ancora piccolo, si era precipitato di corsa fuori dalla tenda verso le dune vedendo avanzare un uomo a cammello che nessun altro però vide, di colpo era caduto a terra, ilmarabout aveva detto “se non si sveglia morirà”, così era stato e Fadimata piangeva ogni volta che ne parlava perché i kel tenere, gli spiriti dei luoghi vuoti, sotto forma di quell’uomo velato erano venuti a portarselo via.
Era andata a scuola nel villaggio, il maestro terribilmente severo si aggirava col nerbo di cuoio e colpiva chi non sapeva rispondere, continuamente lei schioccava le dita a richiamarlo, “Mshé! Mshé!”, Monsieur! Monsieur!, per essere interrogata e fare bella figura. Un uomo duro, corretto, senza cedimenti, “a lui devo tutto” diceva. Aveva studiato secondo la scuola francese, come si faceva in seguito alla colonizzazione. A volte, durante i nostri lunghi spostamenti con la Toyota per andare a trovare le guaritrici, si sedeva ben dritta sul sedile, e cominciava a recitare a voce piena, oppure a cantare poemi e inni imparati a memoria “Allons enfants de la patrie, le jour de la gloire est arrivé!”. Alla fine scoppiava a ridere.
Una volta, da bambina, studiando di notte alla luce della lampada a petrolio, aveva visto cadere qualcosa sulla pagina che stava leggendo. Era un esserino, piccolo ma perfetto, “une petite sorcière”, una piccola strega, che subito lei aveva imprigionato nel quaderno. Era corsa dal padre che aveva chiuso quaderno e sorcière nella cassa di ferro col lucchetto, la mattina dopo avrebbero guardato di nuovo per controllare, ma poiché con la luce del giorno di quell’essere non rimaneva traccia avevano capito che era davvero una strega. Il padre aveva recitato le benedizioni.
Come tutti i tuareg, Fadimata non poteva stare sola, la malinconia l’avrebbe fatta ammalare, così quando si trovò a Bandiagara, lontana dalla sua gente, si affrettò a chiamare appartenenti alla categoria dei petits frères e delle petites soeurs perché la raggiungessero. Arrivavano da lontano, un rassicurante va e vieni, alcuni si fermarono poi definitivamente per tutto il tempo che lei rimase nel villaggio, come l’amica songhay che veniva dal fiume ed era afflitta da una piccola follia che di quando in quando ricompariva coinvolgendo tutti come un flagello. In quei momenti venivano convulsamente consultati gli indovini e i guaritori, poi le cure facevano qualche effetto e tutto di nuovo si placava. C’era spesso da risolvere un problema o un dramma perché Fadimata, per la sua strana saggezza da anziana nonostante l’età, e per la vocazione ad occuparsi con autorità degli altri, era diventata per molti un punto di riferimento. “Mi fa pena”, diceva del nuovo caso che si presentava, e da quel momento la sua pietà diventava una sorta di gabbia fatta di ordini, di rimproveri e furiosi litigi ma di continui aiuti in cui la persona che a lei si era rivolta si andava a rinchiudere maturando nel tempo sentimenti complessi e contrastanti verso la benefattrice. In certi periodi c’erano le invasioni di ratti e Fadimata mostrava le dita dei piedi che nel sonno le erano state leggermente rosicchiate in punta, “Anche loro hanno fame” commentava, come se anche dei ratti avesse pietà. Nella casa c’era una stanza interna con un portico affacciato sulla corte, dove materassi di gommapiuma ormai cotti dal sole, stuoie e vecchie coperte venivano allineati per terra nelle ore di caldo, e di notte, in una sorta di dormitorio. C’era posto per tutti. Corde tirate in tutte le direzioni e agganciate ai chiodi piantati nei muri sostenevano le zanzariere bordate di gale di merletto e tutte costellate di nodi e di rammendi per chiudere gli innumerevoli strappi, che di sera si facevano calare sui giacigli. Chi non ne aveva si avvoltolava nel lenzuolo o nel velo. Fadimata era in grado di montare una zanzariera dovunque, anche nel vuoto del deserto. Scompariva nel buio della notte, tornava con rami rapidamente strappati agli arbusti, li piantava con energia nella sabbia formando una struttura di archi come quelle delle tende, da qualche parte saltava fuori un pezzo di spago, “voilà!”, il riparo di tulle bianco, tutto rincalzato intorno al sacco a pelo o alla stuoia, era fatto, non c’era che da stendersi e dormire in pace.
Una volta ero stata chiamata nella casa a fotografare le nuove pettinature che da alcuni giorni le ragazze si stavano facendo fare e che erano infine terminate. Era stato un sabato pomeriggio di pose e di ritratti, le dogon con gli abiti “grandmère” che in quel periodo andavano di moda e la striscia del turbante annodata in varie fogge, le tuareg col vestito tradizionale delle grandi occasioni. Una cugina che era appena arrivata dal Nord compare in uno dei ritratti di gruppo. Nella foto, in bianco e nero, sedute contro un muro chiaro, Fadimata e tre amiche dogon guardano concentrate verso l’obiettivo; davanti a loro, stesa sulla stuoia, il capo sostenuto dalla mano, la cugina è avvolta in un velo chiaro col bordo luccicante, il viso calmo e distante, lievemente altero.
Pettinature di treccine in varie fogge: quella della cugina formava una piccola corona intorno al viso che metteva in risalto gli occhi; quella di Fadimata, su cui era poggiato come un rigido cappuccio il velo scuro inamidato, era tutta a curve piatte e concentriche così aderente al capo da sembrarvi disegnata.
A quel tempo Fadimata era così alta e esile che le anziane tuareg la compiangevano, “non è bella”, dicevano, “così magra, gli occhi da cinese”, sebbene in Europa, quando in seguito venne, la gente per strada si fermasse a guardarla; e più di una volta le venne proposto di fare la mannequin. Quando era bambina, vista la sua gracilità che si accompagnava a un’indole scatenata, Wartannog, la madre, una bellezza tuareg dal grande corpo pingue, le braccia tutte percorse da smagliature come da una minuta scrittura, così somigliante a Fadimata da sembrarne l’immagine espansa, aveva dato ordine alle schiave di ingozzarla per farla ingrassare, come tradizionalmente si usava. Un modo, anche, per fermarla, prepararla a quella posizione quasi immobile, seduta, che le nobili devono avere, ai modi calmi delle donne mature, all’incedere lento e posato nello spazio. Come tutte le bambine Fadimata aveva cercato di ribellarsi alla tortura, ma le schiave esperte, per obbligarla a ingoiare col terribile imbuto di legno il latte cagliato, il brodo grasso di carne, il burro sciolto, le torcevano le dita, la pizzicavano con forza, le tiravano i capelli. In un’altra tenda dell’accampamento due cugine venivano ingrassate come lei da una vecchia bellah: cinque litri di latte al mattino, trenta palle di miglio macinato a mezzogiorno, non cotto, da mangiare diluito nell’acqua, nel pomeriggio la stessa quantità di acqua del latte del mattino, al crepuscolo dovevano vomitare per prepararsi al latte della notte, ogni due giorni si aggiungeva un mestolo di burro fuso e brodo di carne con altro burro aggiunto. Quando correre non le era già più possibile perché “le gambe strusciavano tra loro”, era tornato a salvarla il padre, un bravo veterinario incaricato di occuparsi di tutta quella zona del Nord, un uomo di mentalità moderna che aveva definitivamente vietato alle donne di proseguire. Solo più tardi, come per una nostalgia da soddisfare, il corpo di Fadimata diventò come quello della madre: ora era una donna sposata e con figli, una bellezza tuareg anche lei, alta, grande, piena di autorevolezza, ma a differenza delle altre donne, sempre in movimento. Nulla infatti avrebbe potuto fermarla.
Scendevamo da Bandiagara verso Mopti dove gruppi di tuareg si erano trasferiti sul fiume, avevano lasciato il Nord a causa delle siccità e per i continui scontri con i sedentari. Le guaritrici con cui Fadimata lavorava stavano in case di muratura, ma nella corte era a volte montata una tenda e comunque sempre un hangar, come lo si chiama, un riparo a tettoia, con sotto un tappeto o stuoie su cui stendersi e cuscini di pelle a cui poggiarsi, dove tutti passavano la giornata, ricevevano le visite, mangiavano, e di notte dormivano, essendo la casa solo una struttura di appoggio. Le guaritrici erano donne mature e gentili, dicevano che quelle tra loro che avevano una linea ben dritta sul palmo della mano, segno assai raro d’altronde, potevano curare ogni malattia.
Avevano imparato dalle anziane a usare le piante, fin da bambine erano state mandate a raccogliere foglie e radici nel periodo che segue le piogge quando il deserto è tutto fiorito, solo qualcuna aveva imparato la medicina dei marabouts che curano con scritture e talismani i mali dati dagli esseri sovrannaturali. Fadimata si occupava della medicina femminile, ricette per le cure della sterilità, gravidanza e parto, e poi delle cure da rivolgere ai neonati. Accendeva il registratore e si metteva all’ascolto per poi trascrivere tutto nei quaderni.
Andavamo negli accampamenti, ci spingevamo più a Nord, verso il Gourma. Ci fermavamo di notte a dormire lontano dai villaggi, stendevamo le stuoie e le coperte, accendevamo il fuoco per cuocere il riso senza il quale Fadimata si ammalava. Il sonno interrompeva le sue favole, la storia della Tashori, la donna orco, dell’eroe in battaglia, oppure i canti composti lì per lì, ninne-nanne, nostalgiche liste di nomi di persone e di luoghi lontani. A volte si sentivano tam tam e voci che attraversavano, limpide e sonore, l’oscurità e venivano da chissà dove, il vento le trasportava, Fadimata diceva “c’è un accampamento di peul, stanno in quella direzione”. Altre volte stavamo stese sotto le stelle, il silenzio era così totale che sembrava di essere dentro una ignota sostanza, eppure lei aveva sentito che intorno c’era qualcuno che certamente aveva fame e che non osando avvicinarsi aspettava. Andava a mettere un po’ di pane su una pietra, più tardi non ce n’era più traccia.
Per trovare la guaritrice di Inshokmayinen, o Mondò, come anche si chiama, dovemmo cercare al mercato di Douentza qualcuno che sapesse dove l’accampamento si era spostato seguendo gli animali. Il giorno di mercato è la domenica, un grande mercato. Lungo l’asfalto della strada che porta verso Nord sono allineati i “restaurants”, una serie di panche davanti a lunghe tavole coperte di incerato, pannelli dipinti propongono “petit dejeuner”, “macaroni sauce viande”, “riz au gras”. I ristoratori stanno davanti alle baracche con i fuochi accesi, arriva il piatto, si può avere anche il pane , dalle tanniche di plastica versano acqua tiepida per il nescafè. Ma quel giorno era tutto finito, i ristoranti vuoti, i venditori dormicchiavano sui sacchi dentro le botteghe: neppure una scatola di sardine, né un sacchetto di quei biscotti fatti come bottoni, chissà da quanto i rifornimenti mancavano. Un occidentale, seppure abituato, non riesce comunque a immaginare un grande villaggio sulla più importante strada nazionale del paese che sia privo di cibo per il viaggiatore, un mercato dove non si trovi neppure un mango, neppure una cipolla, dove si vendano pecore e capre, legna che è stata raccolta lontano nella brousse e che le donne trasportano in fardelli sulla testa, le zappe e i coltelli lavorati dai fabbri, le corde intrecciate dai cordai, erbe e rimedi per curarsi, noci di cola, ma nulla che soddisfi la fame, un mercato dove non ci siano le donne che friggono le frittelle di fagioli o vendano le piccole focacce di miglio. C’è però un piccolo specchio d’acqua a Douentza e un ragazzo vendeva bulbi di ninfea bolliti che hanno il sapore delle castagne.
Ci inoltrammo verso lo stagno di Mondò, il vecchio tuareg che ci faceva da guida, seduto sul bordo del sedile, indicava il percorso muovendo appena, a scatti, la mano. Un paesaggio uniforme, argilloso, di vegetazione a chiazze su un terreno spaccato e polveroso, si chiama labrousse tigrata, che nel Gourma offre una sorta di campionario, nel paesaggio, di tutte le possibili combinazioni. In certe zone, dopo le piogge, sotto l’azione del sole la fine superficie di depositi che si è formata si spacca tutta dando luogo a un suolo di piccole placche poligonali dai bordi leggermente rialzati che viene poi coltivato a riso, spargendo con grandi scope i grani sul terreno e facendoli penetrare nelle fessure. Dove il fiume si è ritirato, larghe spiagge di sabbia bianca, con una popolazione di piccoli aironi bianchi e rosa. Lievi colline rocciose tutte erose dal vento, con banchi di sabbia.
Cordoni di dune e dune isolate, placche rugose di rocce calcaree, distese di Acacia ehrenbergiana e di Acacia ataxacanta dai rami flessuosi fitti di spine e con le infiorescenze gialle a grappolo, conche fitte di grandi alberi e boschetti di Anogeissus, grandi spazi sabbiosi con euforbie, corsi d’acqua temporanei, i wadi, e un’infinità di termitai di tutti i colori. Altrove, della copertura vegetale su cui sono passati gli animali da pascolo restano solo tracce inutilizzabili mescolate a sterco, i cespugli e gli arbusti sembrano incipriati, tutti coperti dalla finissima polvere sollevata in grandi nubi dalle ruote dei veicoli, solo gli alberi più alti hanno chiome scure.
Incontrammo i cammelli ad un pozzo, sotto grandi alberi, l’acqua che stagnava in piccole pozze rifletteva il verde delle foglie, la terra intorno, morbida e smossa mostrava che il pozzo era regolarmente frequentato. Un gruppo di ragazze, tutte col velo indaco, ci venivano incontro in mezzo alle acacie, avevano sentito il rumore del motore avanzare e si fermarono nel sole ad aspettarci, timide e silenziose, porgevano una ciotola d’acqua. Avevano i capelli chiari, lucidi di olio, con le trecce che attraversavano in orizzontale la fronte.
Le fotografie scattate in quei giorni mostrano un risveglio alla luce dell’alba, qualcuno ancora avvolto nelle coperte stese per terra, qualcun altro sveglio e assonnato, uno sfondo di rocce rosate. Fadimata mangia un resto di riso scaldato su un fuoco di legna, la teiera blu per il tè del mattino sta sulle braci. Del piccolo accampamento di Inshokmayinen si vede un viavai tra le tende che sembra disegnare tracce filanti nello spazio. Escono curve dalla tenda bassa, si muovono dritte nella luce, rientrano chinandosi sotto il telo scuro le donne vestite col velo indaco, la bellah con le trecce avvolte, un vecchio con un mantello bianco. Sullo sfondo, piccoli gruppi di capre, i pastori in corsa col lungo bastone in aria tra svolazzi di tessuto, un cammello che si avvia con i pani di sale guidato per la corda in mezzo alle acacie da un uomo. Leyla, la guaritrice di Mondò, si vede quasi sempre di profilo, tiene il velo con la mano un po’ tirato in avanti a coprire il viso. C’è molta gente nella sua tenda, giovani senza turbante e con le chiome ricce e folte che fumano pipe d’argento, un bambino dorme nella culla di giunchi sospesa agli archi della struttura, ragazze nei veli colorati, e una malata di “vento”. Leyla aveva detto: «Per colui che ha aDu tissamde, la malattia del vento, si pesti cumino, lo si metta nel latte, lo si faccia bollire e si aggiunga burro, poi si dia da bere all’ammalato. Troppo bere quando fa freddo, troppo lavarsi, non mangiare grasso, questo provoca il male del vento». Una donna si era appena sposata, c’è, fotografata, la sua tenda di pelle che è stata tinta per l’occasione con la terra rossa. Lei è elegantemente vestita di bazin azzurro, ha sui capelli decorazioni d’argento e cuspidi di agata, lo sposo sta ricevendo gli ospiti, versa nei bicchierini il tè che forma una lieve schiuma in superficie.
Ibrahim il mago, lo zio di Fadimata, stava ancora più a Nord, a Gossi, dove comincia il deserto di sabbia. Nella stagione secca gli elefanti arrivano nella zona da Est, verso gli stagni e le macchie che li circondano. Per tutto un giorno a piedi ne seguimmo fra gli alberi e l’acqua le tracce e l’odore. Grandi fosse nei pendii delle dune mostravano i punti in cui si erano fermati a dormire, l’impronta che la pelle aveva lasciato sulla sabbia faceva pensare a carte geografiche, o a plastici, fitti di linee e reticoli, rugosità, avvallamenti. Buche profonde, alberi sradicati e capovolti con le chiome calpestate e sconvolte dal loro passaggio segnavano un percorso devastato come da un terremoto che le capre seguivano per brucare i germogli che gli elefanti avevano risparmiato. Di notte i fuochi dovevano rimanere sempre accesi vicino alle tende per tenerli lontani e impedire che saccheggiassero il riso e le granaglie, disse il tuareg che ci accompagnava. Di colpo ce li eravamo trovati davanti, immensi e minacciosi, gli occhi torpidi ma attenti, chissà da quanto ci avevano visto. Immobili avevamo aspettato, lentamente si erano allontanati in fila, coi piccoli al centro. Sulla via del ritorno avevamo chiesto notizie del mago.
Ibrahim viveva ai margini del villaggio di Gossi. Era il periodo che precede le piogge e la sabbia sospesa nell’aria oscurava il sole come stesse per piovere. Al nostro arrivo i Tuareg avevano steso il tappeto sotto l’acacia al centro della corte e era arrivato il grande bacile di alluminio pieno di riso con pollo, riso disposto a piramide, in cima la salsa e la carne. Con gesto automatico e assorto senza smettere di ascoltare le notizie che venivano da lontano gli uomini avevano rialzato lungo il braccio il tessuto della manica, le donne si erano assestate il velo sulla spalla tirandolo indietro, poi come se una riga invisibile avesse tracciato sul riso precise sezioni ognuno aveva messo mano alla sua porzione. Simili a becchi di uccello le dita staccavano filamenti di carne, li sminuzzavano lentamente, li lasciavano cadere sul riso dalla parte dell’ospite e davanti ai bambini, riducevano in minuti frammenti il peperoncino piccante che andava a macchiare impercettibilmente di rosso il bianco del riso. Piccole sfere, rapidamente modellate nella mano venivano portate alla bocca con movimento verticale dal basso verso l’alto, lasciate rotolare dentro. Nel riso c’è sempre la sabbia, che scricchiola sotto i denti, ma il cibo era buono, profumato del sapore di un lichene, “la barba di tuareg”, che si aggiunge alla salsa.
Un bambino era entrato con una scodella in una porta che si apriva sulla corte dove stavamo mangiando. Doveva essere quella la stanza del mago. Era stato solo più tardi, dopo che avevamo bevuto il terzo tè che eravamo stati chiamati, Ibrahi m c i aspettava. Abituatisi gli occhi alla penombra della stanza, mi appariva il viso del mago, su cui il velo del turbante aveva stinto di indaco, un colorito bluastro con riflessi metallici che distingue i tuareg del deserto. Mi aveva fatto segno di avvicinarmi, aveva scritto in arabo su un foglio a quadretti i novantanove “bei nomi” di Allah, l’aveva ripiegato più volte fino a farne un piccolo quadrato: “Confezionalo in amuleto; portalo sempre su di te”. Fadimata, in segno di grande rispetto si era avvolta nel velo, taceva con gli occhi abbassati. Era venuto il momento che il mago mostrasse i suoi poteri. Sollevate le braccia verso l’alto in modo che il tessuto delle maniche scivolando giù le lasciasse scoperte, Ibrahim aveva ordinato di mettere le mani a coppa, e prendendosi una mano con l’altra, come se la spremesse, aveva mostrato un prodigio di cui era capace, facendo sgorgare dalla punta delle dita un getto di acqua continuo e trasparente il cui leggero gorgoglio era stato l’unico suono nel silenzio.
Fadimata è nata in una tenda nel deserto, il suo battesimo di musulmana ha avuto luogo sotto un albero di taboraght, la Balanites aegyptiaca. Non distante dall’accampamento, Gargandou, il villaggio, sta su un’alta duna di sabbia mescolata a conchiglie, minuscoli conus, i denti persi dal sole nella battaglia contro la luna, che luccicano rendendo madreperlacea la sabbia bianca. Il piccolo villaggio sembra la scena di un teatro, di notte ci si stende a dormire qua e là nello spazio ondulato sotto ripari improvvisati, quattro rami con appena un tessuto sopra, nel silenzio si sentono chiaramente i colpi di tosse e le voci, si può riconoscere chi parla assonnato. Dietro la duna, una grande piana, la Daounas , dove stanno i pozzi profondi. Bisogna essere almeno in tre per tirare su l’acqua col secchio fatto di pelle, avere sennò un cammello o un asino, e comunque una corda lunga non meno di ottanta metri.
L’accampamento della famiglia era di una quindicina di tende, quelle dei fratelli e cugini del padre, quelle dei bellah che si occupavano degli animali e quelle dei fabbri che lavoravano il legno, il ferro e la pelle, facevano le spade, le lance, i coltelli, le selle per i cammelli e per i cavalli, le ciotole e i grandi recipienti concavi per il latte e per il riso, i gioielli d’argento. Le donne dei fabbri decoravano con punte infuocate gli oggetti di legno, i pali delle tende, ricoprivano di colori i cuscini e le sacche, le selle, intrecciavano i capelli alle donne. Una vita “fantastica” quella di quando era bambina, racconta Fadimata, che cominciava prima dell’alba quando tutti venivano svegliati perché dormire con la luce che sale porta alla famiglia disgrazie, lo chiamanoedisse walabasane, il sonno cattivo, che impedisce di avere una vita lunga, rende i piccoli golosi, si porta via la fortuna. I fuochi venivano accesi per il primo tè, il latte versato negli otri per batterlo e fare il burro, e ognuno aveva una ciotola piena di latte cagliato mentre le serve levavano dalla tenda la sabbia bagnata dai bambini nel sonno. Gli uomini prendevano i capretti e gli agnelli, li mettevano nel recinto, e partivano con gli animali verso i pascoli mentre le vacche si erano già allontanate con i bellah nella luce dell’alba.