Come arte letteraria, il saggio a malapena esiste. Voglio dire che non sappiamo né di cosa si tratti di preciso, né a quali opere questa denominazione potrebbe o meno applicarsi. Del resto, questi aspetti sono tra loro collegati.
I teorici dei “generi” e gli altri distillatori di quintessenze hanno buon gioco a moltiplicare i loro tentativi di definire il saggio 1 e Dio sa se ne fanno a meno (nel Québec in particolare, dove il cosiddetto lavoro teorico è tanto più frenetico quanto sono invece rare le grandi opere, le quali oppongono dunque ben pochi ostacoli a quelle vaste costruzioni astratte); tuttavia, l’assenza di un accordo sulle opere che sarebbero le più degne di rappresentare concretamente quest’arte e di metterne in mostra, allo stesso tempo, i limiti e i poteri vota necessariamente i loro sforzi allo scacco. Come si potrebbe definire una categoria di opere se quasi nessuno sa esattamente quali debbano rientrare o meno nella suddetta categoria ?
Questo perché, mentre la poesia, il romanzo o il teatro si manifestano attraverso quel che si può chiamare un corpus, nel senso che un insieme di grandi opere relativamente omogenee (nonostante l’originalità di ciascuna) costituiscono, allo stesso tempo, un territorio estetico e una storia autonomi, niente di tutto ciò caratterizza il saggio.
Certo, c’è Montaigne, modello assoluto – forse insuperabile – che starebbe all’arte del saggio come Cervantes o Rabelais stanno all’arte del romanzo, ammesso che si possa dire che Montaigne ha “fatto scuola”, che a partire da lui è nata una tradizione artistica nuova, la quale non avrebbe smesso in seguito di arricchirsi e diversificarsi. Ora, i Saggi restano un monumento solitario, da tutti venerato, ma senza progenie estetica identificabile. Come se, in quelle poche centinaia di pagine scritte all’alba dei Tempi Moderni, l’arte del saggio avesse espresso in un colpo solo tutto ciò che poteva esprimere, scoperto tutto ciò che poteva scoprire; come se già nel momento della sua nascita, insomma, avesse sondato tutte le sue possibilità.
Di saggi, certo, ne sono stati scritti e pubblicati molti nei secoli che hanno seguito quello di Montaigne; se è vero che si tende ad attribuire alla parola «saggio» una definizione abbastanza flessibile, resta il fatto che questo insieme supera probabilmente, e di molto, quello dei romanzi, dei drammi teatrali e dei libri di poesia.
Ma la storia di un’arte non si riduce ad un problema di quantità; sono necessari un po’ di ordine, un minimo di coerenza e di continuità, e almeno qualche punto fermo su cui tutti possano intendersi, in particolare coloro che quell’arte la praticano.
Ora, nel caso del saggio, non è rispettata quasi nessuna di queste condizioni. A parte Montaigne – già ricordato -, quali autori, quali opere possono esser considerate, d’emblée, non solo appartenenti al territorio del saggio, ma appartenenti ad esso in maniera esclusiva, incondizionata, esemplare, alla maniera in cui La principessa di Clèves, Tom Jones, Madame Bovary, Guerra e pace o Alla ricerca del tempo perduto fanno parte dello stesso mondo, della stessa storia di Don Chisciotte ? Nell’ambito della letteratura francese, potremmo citare a piacimento La Bruyère, Diderot, Chateaubriand, Péguy, Valéry, Alain, Cioran, Camus, qualche altro nome, il Descartes del Discorso sul metodo o il Rousseau delle Fantasticherie, e ancora Buffon, Claude Bernard o Roland Barthes.
Ma questo elenco – che potrebbe moltiplicarsi e continuare ad libitum – è troppo eteroclito e troppo provvisorio per permettere di evocare, anche solo approssimativamente, un qualche «canone», ossia un insieme di opere che risultino connesse organicamente o “genealogicamente”, sulle quali tutti i saggisti si trovino d’accordo, che ognuno di loro dovrebbe conoscere e in riferimento alle quali ciascuno sarebbe tenuto a situare il proprio lavoro.
Quando un romanziere esercita la sua arte, anche se si tratta, come si suol dire, di un’arte senza regole, ha comunque a sua disposizione una serie di modelli, che costituiscono quel che Thomas Pavel chiama una «giurisprudenza» o un «costume», in rapporto a cui può essere in grado di orientarsi e che funge, in un certo senso, da patria estetica. Lo stesso avviene quando un poeta si siede alla scrivania e vede ergersi attorno a lui, come una lunga catena di montagne, le opere maestose di Dante, Goethe, Baudelaire, che lo rassicurano sull’esistenza e la natura della poesia, lo guidano nel suo proprio lavoro e lo fanno tremare di paura davanti alla percezione della sua indegnità. Il saggista invece è figlio di Montaigne, certo, ma la strada che si delinea da Montaigne fino a lui prende così tante direzioni, svolte, vicoli ciechi, che in men che non si dica si perde, facendo di lui un orfano, del tutto libero, ma anche del tutto privo di riferimenti.
Che non esista una reale tradizione saggistica è confermato da un’altra circostanza molto semplice: l’assenza – o l’estrema rarità – di “saggisti puri”, nel passato come oggi. Con questo, non mi riferisco necessariamente ad autori che si dedicherebbero soltanto al saggio, ossia che avrebbero trovato in questa forma il loro unico strumento di espressione e di scoperta, ad esclusione di tutti gli altri, ma anche ad autori che accorderebbero almeno al saggio una specie di privilegio o di preminenza, facendone il luogo essenziale, il luogo per eccellenza della loro avventura artistica, così come lo è il romanzo per Flaubert o Kundera, la poesia per Mallarmé, il teatro per Molière o Ionesco. Al contrario, gli autori che ci piacerebbe far rientrare in un’ipotetica storia del saggio la maggior parte delle volte sono stati saggisti solo per puro caso, a margine o negli intermezzi della loro opera principale, che consiste in tutt’altro. Oppure, è senza saperlo o senza volerlo che hanno scritto quel che noi oggi chiamiamo saggi. Diderot, Voltaire, Renan si vogliono filosofi; Valéry è innanzitutto un poeta; La Bruyère, un moralista; Gide, romanziere e diarista; Sainte-Beuve, critico; etc.
Il saggio, per loro come per la maggior parte, resta un’attività secondaria, intermittente, ossia incosciente, più o meno legata alla casualità delle commissioni o delle circostanze.
E ancora, fin qui ci siamo limitati agli scrittori. Che dire di tutti quei “saggisti” che, in realtà, sono prima di tutto scienziati, storici, ricercatori di quelle scienze dette umane, letteraturologi o più semplicemente ideologi, e per i quali la redazione di uno o più “saggi” non è quasi nulla di più che un modo di divulgare le loro conoscenze ed opinioni, di predicare la buona novella o di riposarsi dalle loro attività “serie”, le sole importanti ai loro occhi ? Questo è quel che Bourdieu (il quale comunque non ne era esente) denunciava giustamente con il nome di «saggismo».
Esistono delle eccezioni, certo, ma si contano sulle dita di una mano: ovviamente Montaigne, Cioran, forse Vialatte, o, nel mio Paese, uno come Pierre Vadeboncoeur. Essi non si richiamano a nient’altro, a nessuna conoscenza, nessuna missione, nessun’altra arte se non al saggio. Non sono né filosofi, né romanzieri, né critici letterari, né sociologi, nient’altro che saggisti. Non dico che questi siano i soli veri saggisti, né che certi saggi firmati da alcuni saggisti “d’occasione”, romanzieri, poeti o filosofi, non lo siano. Ma la rarità dei saggisti puri rivela la fragilità di un’arte che non conosce ancora se stessa, che è sprovvista di una propria coscienza estetica, e di cui i lettori, pertanto, si fanno solo un’idea vaga, ossia troppo generale e approssimativa perché possa influenzare le loro aspettative e i loro giudizi.
Eppure la parola «saggio» fa furore sui giornali e nelle librerie. Esistono anche dei premi letterari dedicati al «saggio». Ma che vuol dire esattamente questa etichetta? Cosa c’è in comune tra tutti i libri che essa designa? Una cosa sola, in realtà: questi libri, scritti in prosa, non sono né romanzi, né drammi teatrali. Essi compongono quell’immenso ripostiglio libresco a cui gli americani danno il nome privativo di non fiction e in cui possono trovare posto cose tanto disparate quanto uno studio sulle donne picchiate, un diario, la biografia di una cantante oppure di un presidente, una tesi di storia o un’inchiesta sociologica; cioè, letteralmente, qualsiasi cosa.
In altre parole, la categoria «saggio» non è più – ammesso che lo sia mai stata – una categoria letteraria, ma una di tipo puramente editoriale (o commerciale).
Essa non raggruppa più opere, ma libri, e in particolare due specie di libri: da una parte gli studi eruditi, dall’altra quei libri detti “impegnati”, che sostengono la tale causa, difendono la tale idea, preconizzano la tale soluzione al tale problema; insomma, libri che sanno come rendersi utili all’individuo o alla società.
In Canada, per esempio, lo Stato accorda ogni anno dei riconoscimenti chiamati Premi letterari del Governatore generale. Ce n’è uno per il romanzo, uno per la poesia, uno per il teatro (pubblicato), due per la cosiddetta letteratura per l’infanzia (eh si !) e uno per il saggio. In quest’ultimo caso, quando si consulta la lista dei finalisti e dei laureati degli ultimi dieci o quindici anni, si resta colpiti dall’assenza quasi sistematica di opere firmate da autori che non siano degli universitari patentati; in sé, questo non è sorprendente, dal momento che non c’è quasi più nessuno scrittore, da noi come altrove, che non appartenga in qualche modo all’università, compresi i poeti e i romanzieri; ma, a differenza dei loro colleghi poeti o romanzieri, gli universitari che ricevono il Premio del Governatore generale per il «saggio» lo ricevono proprio per i loro lavori universitari, ossia per dei libri che in realtà non sono altro che il prodotto di ricerche, spesso molto specialistiche, che essi hanno realizzato nell’ambito delle loro rispettive discipline, le quali vanno dal diritto all’antropologia, dalla storia dell’arte alla linguistica, dalla semiologia alla filosofia, etc. A tal punto che questo premio “letterario” è di fatto un premio riservato alle scienze umane e che, di conseguenza, il saggio invece si ritrova sempre al punto di partenza.
Da tutto ciò deriva la solitudine in cui vive oggi lo scrittore che si crede o vuole essere un saggista, allo stesso modo in cui altri sono poeti, romanzieri o drammaturghi. L’arte che egli pratica, l’arte a cui accorda la sua fiducia e il meglio di se stesso, l’arte tramite cui si esprime l’essenziale del suo rapporto con il mondo, di quest’arte, delle esigenze e la bellezza di quest’arte, egli è praticamente il solo ad avere una visione un po’ chiara e ad esservi attaccato come ad un valore insostituibile. Il solo a capire, ad esempio, che il saggio non è innanzitutto, come dicono i teorici, un «discorso di idee», che il suo scopo non è quello di trasmettere conoscenze od opinioni, né di «contribuire al progresso del sapere», né, ancora meno, di difendere questa o quella ideologia, questo o quel programma di riforma sociale, politica, intellettuale o altro, e neppure, in fin dei conti, quello di avere delle idee o di dimostrare qualcosa. Allo stesso modo, il saggista è l’unico a poter affermare che esiste una particolare forma del pensiero e della sensibilità, una particolare maniera di approcciarsi al mondo (non come un “oggetto” esterno ma come un’esperienza di cui si è al tempo stesso lo sperimentatore e la cavia), che non può nascere se non nel saggio, e che esistono di conseguenza alcuni aspetti del mondo che senza il saggio, senza la «pratica metodicamente non metodica» del saggio, per dirlo con Adorno, per noi resterebbero per sempre sconosciute.
Dunque, solo il saggista sa che la sua vera famiglia non sono né i filosofi, né gli antropologi, né i critici letterari, ma i poeti e i romanzieri, le cui preoccupazioni sono infinitamente più vicine alle sue che quelle dei «ricercatori» e degli «intellettuali» di ogni risma.
Nonostante la sua materia sia molto diversa, dal momento che consta solo di pensieri, il saggio – nel senso di Montaigne, Cioran, Vadeboncoeur, ossia nell’accezione che in questa sede cerco di dare a tale parola e che forse potrebbe essere resa, se non fosse così poco elegante, dall’espressione, banalmente adattata da quella di Kundera, di «saggio specificatamente saggistico» -, il saggio così inteso, dicevo, non è così lontano quanto si crede dalla poesia e dal saggio.
Con la poesia, innanzitutto, esso intrattiene legami di tipo retorico o formale che i critici hanno spesso segnalato e la cui presenza aveva permesso anche al più anziano dei fratelli Schlegel di descrivere il saggio come un «poema intellettuale».
Il primo di questi legami corrisponderebbe alla presenza nelle due arti di una soggettività fortemente marcata. Ma non si deve esasperare questa somiglianza, dal momento che l’«io» saggistico ha poco a che fare con il «soggetto lirico» che si afferma nella poesia (moderna); si tratta di un io – potremmo dire – riservato e timido, che non cerca tanto di manifestare ed edificare la sua unicità o la sua propria singolarità quanto, al contrario, di attenersi alla banalità o all’ ”ordinarietà” che gli permette di sentirsi legato a qualunque sconosciuto.
Questo io non si “esprime”, non si denuda, non celebra né rimpiange la sua presenza nel mondo, ma tenta solo di osservare e interrogare il mondo liberamente, come un essere che, senza mai dimenticare che vi appartiene, cerca 2 allo stesso tempo di guardarlo in maniera diversa. Perciò, lo “stato saggistico”, se così si può dire, mette sì all’opera un soggetto che rappresenta la sua individualità, ma si distingue radicalmente dallo «stato poetico» così come ne parla, ad esempio, Valéry e in cui dominano l’armonia, la consonanza, l’espansione indefinita di una soggettività che si sente in perfetto accordo con se stessa e con quello che la circonda.
Dunque, esiste un io nel saggio, questo è certo; ma si tratta di un io essenzialmente non lirico, o a-lirico, il cui modo d’essere non è il canto, ma il pensiero.
Detto questo, tra gli accostamenti di tipo formale che si possono stabilire tra il saggio e la poesia, ce ne sono altri che appaiono ancora più convincenti.
Entrambe le arti favoriscono il ricorso alla metafora, che in questo caso non svolge la funzione di un semplice ornamento pedagogico (come in filosofia, per esempio), ma proprio quello di un “metodo” di scoperta tanto necessario e potente quanto la riflessione o l’analisi puramente concettuali; è intorno ad alcune metafore-chiave, ad esempio, che sono costruiti i saggi di Philippe Muray o, in un registro completamente diverso, quelli di Vadeboncoeur, presso cui l’invenzione del pensiero non si realizza tanto attraverso una serie di precise idee quanto attraverso la meditazione di certe «immagini-concetto» la cui aurea semantica conduce anche più lontano del loro particolare contenuto.
Altro accostamento possibile della forma poetica e della forma saggistica: il ruolo del ritmo, della ripresa modulata di immagini e temi come espediente per produrre significato e bellezza. Questo perché, in un grande saggio, lo sviluppo del pensiero obbedisce più alla logica della composizione musicale che a quella della deduzione e la concatenazione immediata delle idee conta meno delle corrispondenze ed echi di ogni tipo – tanto verbali che semantici, tanto di opposizione che di convergenza – che ne collegano le diverse parti, alle volte anche molto lontane le une dalle altre, in maniera da formare uno «spazio» invece di una linea; esattamente come si osserva in una poesia o in una raccolta di poesie.
Il saggio, scriveva il caro André Belleau in un testo del 1983 intitolato «Piccola saggistica 3», è «uno sciame di idee-parole». Da cui si può intuire un ulteriore rapporto tra il saggio e la poesia: la tendenza alla frammentazione, il gusto della «piccola forma», che questo gioco di combinazioni e di riverberazioni ritmate favorisce. Già in Montaigne, e molto spesso in seguito, il saggio assume la fisionomia di un assemblaggio o di un collage di pezzi brevi, ciascuno autonomo e allo stesso tempo collegato agli altri. In questo senso, molti grandi saggi assomigliano ad una raccolta, anche se si presentano come testi unitari.
Se è simile al poeta, il saggista tuttavia lo è ancor di più al romanziere, in cui egli trova non solo un compagno, ma un fratello. Nonostante in genere passi inosservata, questa fratellanza in effetti è molto più profonda dei rapporti che legano il saggista al poeta, dal momento che interessa l’essenza stessa, l’ontologia delle rispettive arti, e non più soltanto gli artifici retorici a cui essi ricorrono.
Fratelli, il saggista e il romanziere lo sono in primo luogo, e soprattutto, perché sono l’uno e l’altro artisti della prosa, termine a cui in questo caso bisogna attribuire il senso più ampio. Scrivere in prosa, innanzitutto, significa questo per uno scrittore: fare affidamento sulla lingua comune, per quella che è, senza forzarla né sospettarla di inadeguatezza, nella consapevolezza che essa possiede tutte le risorse necessarie per permettergli non soltanto di trasmettere ma proprio di inventare il suo pensiero, in quella forma al tempo stesso limpida e bella senza la quale esso non potrebbe nascere, né sussistere.
Così la prosa del saggio, come quella del romanzo, rifugge sia il linguaggio più o meno ieratico della poesia (nemica per antonomasia delle “parole della tribù”), sia quello, specialistico, della scienza o della filosofia (che tende sempre in un modo o nell’atro al rigore e all’impersonalità dei matematici); a differenza della poesia, essa si serve delle parole per far loro esprimere il loro significato comune; e a differenza della scienza o della filosofia, sa che quel significato è inseparabile dalle parole e dalle frasi che la fanno esistere.
La prosa non è solo una maniera di scrivere. Più in generale, è una maniera di essere nel mondo e di decifrarlo; o meglio, è uno sguardo, una particolare attitudine mentale (ed etica), di cui il romanzo, certo, resta il principale rifugio, ma che il saggio, anch’esso, illustra a suo modo e di cui non potrebbe privarsi a meno di non sprofondare in un … non so cosa. Dal momento che la prosaicità del saggio, come quella del romanzo, rappresenta la condizione stessa della sua esistenza e del suo valore.
Anti-sistematico, ipotetico, «non serio» (nel senso kunderiano), refrattario al pathos ma ebbro di complessità e incertezza, il pensiero del saggio respira bene solo in quell’aria, al tempo stesso gioiosa e disincantata, che hanno respirato, tanto l’uno che l’altro, Montaigne e Rabelais.
Quest’aria, Lukacs la chiama «humour» e «ironia», i quali non sono che altri nomi della prosa. E «quell’humour particolare» tipico del saggio – scrive – «è così pronunciato che quasi non sarebbe opportuno parlarne, visto che, per colui che non lo avverta in ogni momento spontaneamente, qualsiasi indicazione più precisa sarebbe in ogni caso vana». È per questo che il saggio, come osservava André Belleau, è un’arte della maturità: «A diciotto anni, si può essere Rimbaud, non si può essere un saggista».
Vi è ancora un altro tratto del saggio che, fa notare lo stesso Belleau, lo avvicina al romanzo, ed è la maniera che ha di sviluppare il pensiero.
Una maniera tipicamente “romanzesca”, o in ogni caso molto vicina alla narrazione propria di un romanzo: «Nel saggio si può trovare una storia, o direi anche un intrigo, nel senso che diamo a questi termini quando parliamo della storia o dell’intrigo di un romanzo e di una novella». In un saggio, le idee e gli avvenimenti che interessano lo scrittore sono «come trascinati da un movimento che comporta slanci, sbarramenti, vie d’uscita, divisioni, biforcazioni, attrazioni e repulsioni».
Ed ecco che i pensieri – prosegue Belleau – «si comportano in fondo come i personaggi di una finzione e sono legati da rapporti d’amore, di odio, di opposizione, aiuto, etc.»; in altre parole, l’argomento viene sviluppato non alla maniera di una dimostrazione ma di un’avventura, di una suspense alimentata da episodi e riprese, al termine della quale «ci saranno delle idee vincenti e delle idee perdenti», dei morti e dei sopravvissuti, nell’attesa che tutto ricominci da capo. «Io non insegno – diceva Montaigne – io racconto».
Molto più che delle «affinità elettive», è dunque una profonda complicità, un accordo fondato sul loro stesso essere, che lega il romanzo, lo spirito del romanzo, e lo spirito del saggio. Radicata nel comune ricorso alla prosa, questa complicità, nella letteratura moderna, si concretizza non solo nel fatto che alcuni romanzieri, spesso i più grandi, sono anche dei grandi saggisti; ma anche, e in maniera ancora più sconvolgente, nello spazio sempre più ampio che essi concedono, all’interno dei loro romanzi, alla scrittura saggistica, o comunque di tipo saggistico, come se l’arte romanzesca potesse aprirsi naturalmente, senza che la sua unità ne risulti minacciata, a quell’arte sorella che è il saggio.
Ad un punto tale, d’altronde, che ci si potrebbe domandare se questa incursione nell’atmosfera estetica del romanzo non sarebbe per il saggio, tenuto conto delle avverse circostanze che ho menzionato prima, un’insperata occasione di salvezza. Se mi dessi credito, potrei arrivare a dire una follia: oggi, il saggio, la scrittura specificatamente saggistica, può continuare ad esistere solo nell’orbita o sotto la protezione del romanzo. Questo non vuol dire che tutti i saggisti dovrebbero scrivere romanzi. Ma che dovrebbero, almeno, scrivere i loro saggi come se questi facessero parte di un romanzo.
- Per un panorama, vd. l’antologia preparata da François Dumont, Approches de l’essai, Edizioni Nota Bene, Québec, 2003. ▲
- Nota del traduttore: da notare che nell’originale in francese, il verbo è reso dalla terza persona singolare del verbo «essayer», il cui significato letterale è proprio «saggiare». ▲
- Pubblicato sulla rivista «Liberté», Montréal, n. 150, dicembre 1983; ripreso in André Belleau, Surprendre les voix, Montréal, Éditions du Boréal, 1986. ▲