Davvero mi è capitato per alcuni attimi di trovarmi a passeggiare con Kafka. Era una bella giornata di primavera a Merano, Maia Bassa, in una strada, fra orti e giardini, luminosa e deserta che portava alla pensione Ottoburg… Ma è meglio forse procedere con ordine.
Kafka mi ha sempre attirato e respinto per quel mondo arido, implacabile, distante, ma non al punto di non sentirtelo a tratti sopra di te, pronto ad inghiottirti. Sul letto di morte pare avesse supplicato l’amico fedele (non ricordo se fosse Max Brod) di distruggere tutte le sue carte. Quasi volesse sgravare un mondo già così cupamente minaccioso dalle sua opera letteraria che lieve ed aerea certo non è. Kafka, premonitore, portava su di sé l’ombra, l’immane fardello della tragedia che di lì a non molti anni avrebbe colpito gli ebrei e l’Europa tutta. Quello che restava della sua famiglia, la maggior parte dei suoi amici, scrittori e non, sarebbero tutti scomparsi nell’olocausto. Persino la bella, impavida Milena, colei alla quale siamo debitori di uno degli epistolari d’amore (o dell’impossibilità dell’amore, che è la stessa cosa) più belli, Milena che nemmeno era ebrea, morì in un campo di concentramento tedesco a pochi giorni dalla liberazione.
Quel passaggio dalle atmosfere dei racconti o de ‘Il processo’ alle ‘Lettere a Milena’, ero ancora un ragazzo allora, servì ad avvicinarmi allo scrittore praghese. Anche la biografia dell’amico Max Brod, intensa e umanissima, mi aveva rivelato lo spessore e l’intensità di una personalità unica e singolare. Ma, allora come ora, intendevo saggiare e valutare gli scrittori unicamente dai loro scritti e non dalle loro biografie che sono dei meri accidenti. E così continuavo a portarmi appresso questo enigma Kafka finché, in quel di Firenze dove ho vissuto la maggior parte della mia vita, su una bancarella di libri usati, trovai una quindicina di copie di un libretto di un tal Gustav Janouch dal titolo: ‘Conversazioni con Kafka’. Non ricordo se avvenne subito occhieggiandolo qua e là oppure se lessi prima il libro a casa, per ritornare l’indomani. So solo che tale fu l’entusiasmo della lettura e così basso era il prezzo del libretto di un’edizione dei primi anni cinquanta che comprai tutte le copie col proposito, puntualmente rispettato, di regalarle via via a chi lo meritasse. E l’entusiasmo si conservò così grande che feci l’errore (quante volte ahimé ripetuto) di imprestare, con le solite inutili raccomandazioni, l’ultima copia in mio possesso, la quale ultima copia, naturalmente, non ritornò più al suo legittimo proprietario. Anni dopo mentre mi accingevo a lasciare l’Italia, e il proposito sembrava per sempre, per trasferirmi in un paese dell’America Latina, trovai in libreria la riedizione (forse Adelphi) di queste conversazioni e la portai con me assieme a pochi altri libri. Quelle conversazioni con Kafka mi accompagnarono per quei cinque anni di vita tropical-rivoluzionaria. Ricordo qui solo l’ultima, conclusiva confessione di questo santo posseduto dalla verità,come lo definì il giovane amico Janouch: “La vita è smisuratamente grande e profonda, così come l’abisso delle stelle sopra di noi. Vi si può gettare uno sguardo solo attraverso quella minuscola apertura che è la nostra esistenza personale. Per questo bisogna che questa apertura sia sempre pulita”.
La nuova edizione ampliata curata da Guanda, nella frettolosa introduzione, non accenna a un dettaglio di fondamentale importanza. Il giovane Janouch (17 anni) alle cui domande e alle cui istanze Kafka rispondeva con pazienza e comprensione infinite e spesso da quella partecipe distanza che hanno, anzi, che possono avere i grandi saggi interpellati nelle loro grotte sull’Himalaya, tornato a casa compitamente e religiosamente trascriveva parola per parola risposte e osservazioni di Kafka. A volte uscivano insieme per passeggiare nelle vie della vecchia Praga, città dove non sono mai stato, ma che saprò riconoscere un giorno perché Praga, l’atmosfera di Praga porta oramai indelebile l’alone, l’aura di questo straordinario scrittore. Così come una certa Firenze ha l’impronta di Dante e una certa Verona quella di uno Shakespeare che nemmeno conobbe Verona. Ma come ha scritto un grande poeta nicaraguese: ‘si vede quello che non si tocca’. Le conversazioni, le visite e le passeggiate col giovane Janouch durano mezzo anno poco più. Poi Kafka, per il peggiorare delle sue condizioni di salute, chiese il prepensionamento e lasciò l’ufficio. Janouch non lo rivide più mentre i suoi genitori intanto, dopo mesi di litigi e incomprensioni, con suo grande strazio finivano per separarsi. Due anni dopo gli giungeva la notizia della fine di Kafka e 21 giorni appresso quella del suicidio di suo padre collega e amico dello scrittore alle Assicurazioni Generali. I taccuini dove erano state registrate quelle conversazioni erano rimasti sepolti e dimenticati chissà dove nella casa restata alla madre, poi venne la guerra a cancellare la Praga ebraica. Gustav Janouch riuscì a salvarsi dall’olocausto fuggendo e, negli anni dell’esilio, nel cuore, oltre che nella memoria, gli ritornò più volte l’eco di quelle conversazioni. Verso la fine degli anni quaranta potette finalmente ritornare all’amata città perduta e al suo popolo di fantasmi. Nella vecchia, vuota, abbandonata casa di famiglia ritrovò quei taccuini. Questa è la storia. E forse nessuno scrittore ha potuto essere riscattato dalla sua scomparsa fisica in una forma così viva e profonda come il Kafka conservato in queste pagine. E con lui mi sono accompagnato in quegli anni di lontananza dall’Europa. Mentre mi occupavo a scrivere di quella rivoluzione in atto (la rivoluzione sandinista) mi trovavo davanti le parole di Kafka nel libro di Janouch: “La guerra, la rivoluzione in Russia e la miseria del mondo intero mi sembrano una marea di male. È un’inondazione. La guerra ha aperto le dighe del caos. I contrafforti dell’esistenza umana crollano. Gli avvenimenti storici non paiono più determinati dagli individui ma dalle masse. Veniamo spinti, pigiati, spazzati via. Subiamo la storia”.
Sul finire di quella rivoluzione tropicale che spegneva le ultime speranze di un popolo derelitto, mi ritrovavo di nuovo in Italia, nella mia città natale, Trento, città mitteleuropea che qualcosa ha dell’atmosfera di Praga. Così in una bella giornata di primavera, spinto da un impulso improvviso, prendevo il treno per Merano, recandomi subito al municipio per chiedere dove fosse ubicata quella che negli anni venti si chiamava Pensione Ottoburg, dove Kafka aveva iniziato a scrivere alla sua Milena. Nessuno lì all’anagrafe ne aveva nozione ma ebbi il coraggio di insistere finché andarono a chiamare l’impiegato più anziano e competente. Questi mi ascoltò, poi, alzando gli occhi, riandò negli archivi della memoria e ricordò anni addietro che un’analoga richiesta gli era stata rivolta da alcuni studiosi dell’Università di Monaco (e nell’edizione delle ‘Lettere a Milena’ che avevo lasciato in Nicaragua vi era una foto sbiadita di quella pensione). Sì, esisteva ancora, non si chiamava più così, ma dovevo affrettarmi perché erano stati già presentati i piani per la ristrutturazione e la proprietà era già picchettata (ero quindi il secondo ad arrivare sul luogo e il primo italiano). Vi giunsi e trovai tutto nell’abbandono. Vidi il giardino inselvatichito, il balconcino della stanza di Kafka, entrai e mi affacciai su una vecchia sala da pranzo, demodé, in penombra. ‘Chi è lei, chi cerca?’ – mi apostrofò una voce. Spiegai, balbettai delle scuse, chiesi. Sì, mi fu risposto, tutto era intatto da come era prima della guerra. Non ebbi il coraggio di chiedere che mi venisse mostrata la stanza dello scrittore, di questo Kafka; del resto la persona che mi aveva risposto nulla sapeva. Chiusi quelle poche, carpite immagini nel mio cuore e ritornai sui miei passi su quella piccola strada deserta e luminosa che portava al ponte sul Passirio, oltrepassato il quale ha inizio la bellissima Winter Promenade. E fu lì, camminando, che avvertii un’ombra accanto a me, che mi accompagnava con lenti, lunghi passi fino al ponte, amichevole, fraterna – era lui, Franz Kakfa.