Nata su un transatlantico diretto verso l’America, rimasta orfana di madre quando aveva pochi mesi, riportata in Europa dal padre poco dopo e infine cresciuta a castagne e polenta sulla Senna da una famiglia di sconosciuti, la zia Mane non ebbe quella che normalmente si definisce un’infanzia agiata.
Forse anche per questo divenne una donna allo stesso tempo estremamente rigida ed estremamente generosa. Entrambe qualità che io, il suo ultimo pronipote, ebbi modo di conoscere.
Al contrario di lei, io crebbi non ricco ma, questo sì, con la pancia piena. Quando andavo a trovarla, lei m’insegnava come comporre le parole crociate e mi offriva quella delizia che dalle mie parti chiamano sugo d’uva. Prima che mia mamma venisse a prendermi, arrivava un momento atteso e decisivo per le sorti della settimana a venire: la Mane mi prendeva da parte in segreto e mi passava qualche banconota per comprare il gelato e le figurine. Una donazione furtiva.
Finché venne un pomeriggio in cui quel rito cambiò, di sicuro per colpa mia e non a mio favore, almeno se lo consideriamo in termini finanziari. Fui io, infatti, trascinato da un impeto d’avidità o d’ispirazione letteraria – leggevo storie di pirati allora – a farle una richiesta esplicita e sfacciata: basta banconote, volevo monete d’oro. Solo monete d’oro. Nient’altro che monete d’oro. In cui tuffarmi e annegare nella brama.
La zia Mane non fece una piega. Impilò dieci monete d’oro, le infilò in una busta di plastica, fermò tutto con un elastico e mi consegnò il pacchetto. “Va bene?”, mi disse. “Grazie”, le dissi. Me ne andai a casa impettito e felice come un Rockefeller.
Una parentesi. Era la fine degli anni Ottanta, io avevo poco meno di dieci anni e l’unica moneta completamente ricoperta da una patina color oro tra quelle in corso in Italia erano le duecento lire. Con dieci monete da duecento lire a quel tempo si compravano due gelati e due pacchetti da cinque figurine, più o meno. Ma l’economia marciava e il potere d’acquisto delle duemila lire era destinato a scendere e scendere ancora, fino a coincidere con quattro figurine plastificate del basket. Allo stesso tempo, io smettevo di leggere libri di pirati, acquisendo maggior consapevolezza riguardo al valore dei soldi. I miei bisogni si trasformavano e le figurine e i gelati finivano dimenticati al sopraggiungere di nuove smaniose brame: offrire il cinema a un’amica, procurarmi una giacca di moda, comprare un computer di seconda mano o un motorino scassato.
Una pila di dieci monete d’oro in una busta di plastica. Da quel giorno la donazione si ripeté, uguale a se stessa, a cadenza regolare. Mai vista una banconota. Crudelmente insensibile allo scorrere del tempo, ai progressi dell’economia reale e all’evolversi dei miei gusti,la zia Mane non modificò più le sue abitudini di benefattrice. Forse faceva la finta tonta. Io accettai sempre le monete d’oro ringraziando molto, come si addice a un bravo nipote, mascherando i miei calcoli sul sempre più insignificante potere d’acquisto delle duecento lire.
La zia Mane si è rimpicciolita ed è morta dodici anni fa.
La lira, nel frattempo, è stata sostituita dall’euro.
Dei soldi che mi ha dato e di quelli che non mi ha dato non è rimasta traccia nella mia vita: il denaro nasce, si muove e muore chissà dove, senza aver cambiato granché delle sorti del mondo.
Ho chiara in testa, invece, l’immagine di lei, piegata in due, che mi ficca in mano un sacchetto di monete d’oro senza alcun valore. L’assegno vitalizio e inestimabile che mi stava passando era una storia da raccontare.
Ci sono tante cose nell’universo che valgono molto di più di un fondo d’investimento in una banca svizzera.