“La città è ovunque: dunque, non vi è più città (…). Non abitiamo più città, ma territori (territori da terreo, aver paura, provare terrore!?). La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile, o, meglio, si è ridotta ad un affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo città questa ‘area’ per ragioni assolutamente occasionali. I suoi confini non sono che un mero artificio. Il territorio post-metropolitano è una geografia di eventi, una messa in pratica di connessioni, che attraversano paesaggi ibridi. Il limite dello spazio post-metropolitano non è dato che dal ‘confine’ cui è giunta la rete di comunicazioni; (…) ma è evidente che si tratta di un ‘confine’ sui generis: esso esiste soltanto per essere superato. Esso è in perenne crisi”. (Massimo Cacciari, in La città infinita, Bruno Mondadori 2004).
Sviluppo il pensiero di Cacciari. I “luoghi” non esistono più, si danno ormai solo “territori”: spazi atterriti e terribili. Cacciari non lo dice, ma è facile dedurre che se non esistono più “luoghi”, se non esistono più città (una certa declinazione del “luogo”), non esiste più nemmeno la politica, nel suo senso etimologico pieno di “arte (del governo) della città”. Infatti, se organizzare la vita nei luoghi è diventata una faccenda puramente amministrativa, non si capisce dove sia più lo spazio per la politica, la sua necessità. Oggi, poiché non esistono più città, non esistono più politici, ma solo buoni o cattivi amministratori di territori.
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Questa, per chi ha scelto l’impegno pubblico, è una condizione orribile, che spalanca solo scenari di paura, nessun pensiero diverso, nessuna passione comunitaria. Ho sentito il mio amico Tonino Saporito alla televisione locale qualche mese fa, che, in occasione delle elezioni amministrative, tentava di delineare un discorso politico. Cioè un discorso anacronistico e perciò assurdo per una campagna elettorale moderna. Un discorso straordinariamente fuori luogo perché, appunto, estremamente politico, generale e ideale, non si capisce nemmeno a uso di chi: forse di quelli che ancora “sognano la politica”? Ma costoro sono dei nostalgici, gente che non ha capito dove va il mondo, e in ogni caso costituiscono una sparuta minoranza. A un certo punto del suo discorso, il mio amico Saporito ha detto che, una volta vinte le elezioni (ma poi le elezioni le abbiamo perse), si dovrà metter mano a questo e a quello, per “cambiare” questo paese. Ecco, qui ha leggermente corretto il tiro, parlando finalmente da (futuro) “amministratore di territorio”: si sa, le necessità della propaganda costringono tutti a snaturarsi, anche i più testardi idealisti.
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I “territori”, nel senso di Cacciari, sono luoghi senza voce, luoghi da cui la politica – arte che vien fuori da un’assemblea, quindi arte di orchestrazione di voci – è scomparsa. Nessuno discute di nulla nei “territori”, la vita vi scorre nell’unica preoccupazione che qualcuno amministri le esistenze nel modo migliore: il traffico, i giardini pubblici, le discariche. Nessuno immagina più un altro mondo (magari senza traffico e senza macchine, senza discariche e senza consumi fasulli), nessuno ha da proporre qualcosa che metta in discussione fin dalle radici lo stato di paura arcaico (da terreo!?), la imminente ritornante barbarie. La “politica”, la “democrazia” sono un ostacolo all’affermazione del soggetto immune, che bada solo a sé, che non ha più orecchie per nulla e per nessuno. La paura avvolge tutto ed è la giustificazione soggettivista e sentimentale dell’immunitas imperante. Scomparsa così la città, scomparso il “luogo” per antonomasia, restano il puro stato di paura che avvolge i territori e il vivace amministratore che risponde ai “bisogni della gente” – mentre tutto intorno è un continuo morire, un continuo riprendere a rotolarsi ciascuno nelle proprie “fecce”, accrescendo a dismisura membra e corpi, e sminuendo fino a farli scomparire, prima o poi, l’anima, il cuore e la ragione. Mentre è chiaro che la politica – quella nata nelle poleis in età successive a quelle degli eroi e degli dèi – doveva essere qualcosa che andasse al di là dei bisogni, pur partendo da essi. La politica doveva rassomigliare e sostituire l’uomo a un dio, e quindi costituiva una possibilità di trasformare lo stato infelice di natura in uno stato migliore. Che cosa potrà arginare il processo di degenerazione post-metropolitano che avviluppa e coinvolge sempre più “territori” del mondo? Quali margini ci sono per proposte politiche che vadano al di là dei “bisogni della gente” e della paura di vivere che attanaglia tutto e tutti? È ancora tempo, questo, di opere che sappiano manifestare una volontà civile e divina, e non la solita, stolida volontà di sopravvivenza di chi “vuol continuare a vivere” a tutti i costi? Probabilmente no, perché questo processo storico è irreversibile come tutti i processi umani, che prevedono il circolo e il ricambio degli scenari dei mondi. Quando sempre di più la gente vive per continuare a vivere, e non solo per vivere, e tutte le nazioni badano solo a tirare avanti con una buona amministrazione; quando da nessuna parte più si sogna di metter su una città dove si discuta e si provi anche a essere felici stando insieme agli altri – allora vuol dire che qualcosa sta cambiando, cioè che qualcosa sta facendo ritorno dalle tenebre non troppo arcane della nostra storia umana sempre uguale.
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Derrida pensa (curiosamente?) in termini positivi e progressivi alla questione della “città infinita”: “Penso ad una democrazia futura che vada al di là del concetto classico di cittadinanza e dunque di Stato-nazione, e dunque di luogo. Forse anche al di là di ogni concetto tradizionale di cittadinanza, se la cittadinanza restasse ancora legata ad uno Stato-nazione determinato, esso stesso radicato nella stabilità insostituibile di un territorio e di un idioma”.
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La paura di morire è l’altra faccia dell’istinto di conservazione, quindi del desiderio di vivere. “Si teme la morte perché si vuole sopravvivere. Ma si vuole sopravvivere appunto perché si teme la morte”, scrive Roberto Esposito in Communitas, echeggiando i profondi paradossi sapienziali. La liberazione dalla paura di morire, allora, non può avvenire che attraverso la liberazione dal desiderio di vivere questa vita, di “voler continuare”, diceva Michelstaedter. La persuasione è un modo per intendere un tale processo di liberazione da questa vita che (si) vuol continuare a ogni costo: dai bisogni, dai piaceri, etc. Il persuaso non ha paura di morire perché non ha desiderio di vivere, come il Tristano nell’epilogo delle Operette leopardiane, che, a chi gli offrisse anche il più grande dei beni, la somma gloria, replicherebbe di preferire il morire, anzi l’esser morto. Allo stesso modo, bisognerebbe parlare dei luoghi non come “territori”, cioè come posti in cui si sta per “continuare a vivere” con la paura addosso (da terreo!?), ma come qualcosa di assolutamente diverso, per i quali sia possibile pensare a un altro tipo di vita, in cui sia possibile anche arrischiarla la propria vita, metterla in gioco, sentirla e farla sentire agli altri.
Bisognerebbe, insomma, farla finita con l’ideologia dei “buoni amministratori”. Che le idee servano invece a suggerire una vita che valga la pena vivere, non a far accodare i nostri corpi al treno dei bisogni universali che conducono soltanto alla morte. Spettacolini, festicciole, eventi… Un’opera del genere è un’opera di abbattimento di tantissimi tabù, di fagocitazione di totem e ammennicoli più o meno sacri di ogni tipo. La liberazione dai tabù come liberazione dalla paura della morte.
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Vuoi gloria? Ti do gloria.
Vuoi onori? Ecco gli onori.
Vorresti non volere? Dimmi, caro…
Vuoi amore? Ma io ti amo!
Vuoi altro? Che cos’altro?
Non riesci a non volere? Oh, quanto mi dispiace…
Non pianger, resta qui, io ti accontento:
ti do chi ti amministra
quel poco che ti resta
di umano
nella testa.