Don Chisciotte è il desiderio che attraversa il mondo, i suoi ostacoli. Un desiderio che si rafforza ad ogni negazione, si conferma in ogni delusione. Don Chisciotte è anche l’imitazione assidua, meticolosa, ossessiva di un modello: la cavalleria, come è stata vissuta da Amadigi di Gaula. Ma si tratta di un’imitazione che rovescia, in ogni gesto, il senso del modello: perfezione che, cercandosi, si sgretola, ideale che, perseguito, si frantuma, sogno che sognato è vinto dalla realtà. Eppure questa perdita dell’ideale, questa sconfitta del sogno, mostra tutta la miseria del reale. Esalta il potere dell’immaginazione. La follia è la sola saggezza in un universo dove la saggezza è ripetizione del sempreguale, cancellazione dell’altro, diffidenza verso l’impossibile. Don Chisciotte è la trasformazione di una biblioteca – i libri di cavalleria letti con passione – in un’avventura, la trasformazione di un sapere in un’esperienza che insieme dà forma visibile a quel sapere e svuota di senso ogni sua pretesa. Viaggiando per la Sierra Morena, tra osterie e castelli, tra boschi e dirupi, Don Chisciotte oppone il modello alla situazione, l’immaginazione alla realtà. In questa opposizione tutto si modifica: la bacinella del barbiere è un elmo, la contadina Aldonza Lorenzo è Madonna Dulcinea del Toboso, i greggi sono eserciti, le dame principesse, i mulini giganti, le osterie castelli. Una trasformazione che è, allo stesso tempo, riscatto e sogno, redenzione fantastica e ospitalità nel regno dell’immaginazione. Lo stesso personaggio nasce da una trasformazione: il tranquillo Alonso Quijana detto el Bueno è trasformato dal suo autore nell’Ingenioso Hidalgo don Quijote de la Mancha. Sottratto al suo mondo – il curato, il barbiere, il baccelliere Sansone Carasco, i pochi amici, i libri di cavalleria – è portato per tre volte fuori dal suo paese, in un’avventura dispiegata che è rischio, incontro e combattimento, esperienza della frugalità, dell’ascesi, della vigilia. E quest’avventura consiste nel leggere dietro la cosa la sua ombra, la sua lingua perduta, il suo alone svanito. Ricostruire nella finzione questa lingua perduta, questo significato invisibile, e mostrare allo stesso tempo la labilità e l’inconsistenza di questa ricostruzione: ecco il movimento che trascina il lettore in un mondo insieme ideale e fragile, ipotetico e effimero, bello e inesistente.
Don Chisciotte è un viandante. Attraversa una natura nella quale è riflessa la natura che circondava gli eroi cavallereschi. Ogni paesaggio ha per l’hidalgo il richiamo dolce dell’arcadia, ma è anche, per il lettore, la fine di ogni arcadia. In queste cose che finiscono e che resistono in quanto finite, in questa sparizione che lascia la traccia di un passaggio – il passaggio dell’impossibile – consiste la bellezza straordinaria del Don Chisciotte.
Contrappunto e parodia dell’hidalgo, abbassamento del sublime e stentata dichiarazione del buon senso è Sancio Panza: carnevalesca controfigura, richiamo di un reale che non si fa credibile, riduzione grottesca dell’utopia (l’isola promessa da governare). Nel romanzo di Cervantes l’umorismo attinge al tragico, il buffonesco sfuma nella metafisica, la saggezza e la follia si scambiano le parti.
Libro di supreme finzioni, il Don Chisciotte è una fantastica meditazione sul libro stesso, sul gioco che annoda libro e verità. Una meditazione sulla biblioteca, sui suoi intrighi, sui suoi rapporti con la vita. Lo stesso autore, Miguel de Cervantes Saavedra, dopo tante avventure di una vita tutt’altro che libresca, scrive il romanzo nascondendo la sua paternità dietro il nome dell’arabo Hamete Benengeli. E don Chisciotte, nella seconda parte, s’imbatterà a un certo punto in alcuni personaggi che stanno leggendo il seguito apocrifo delle sue stesse avventure (seguito veramente pubblicato nel 1614 da Avellaneda e contraddetto dall’uscita nel 1615 della seconda parte autentica dell’opera di Cervantes). Con cognizione di causa il Cavaliere dalla triste Figura mostra le incongruenze del libro apocrifo, anzi, per confutare in modo definitivo la falsità di quel libro, decide di non andare verso Saragozza, come vuole l’apocrifo, ma verso Barcellona. Nella seconda parte frequenti sono gli incontri di personaggi che già conoscono la storia di don Chisciotte. C’è già nel romanzo di Cervantes una parte della ricerca che sarà di Borges e di Calvino, ci sono già le novecentesche narrazioni “libresche”, le scatole cinesi del libro nel libro.
Don Chisciotte, il generoso hidalgo nato dai libri di cavalleria, allevato da essi al desiderio dell’avventura e al sogno, diventa egli stesso un libro, il libro che apre la modernità. Ma l’eroe di una morta cavalleria abbandona presto le pagine del Cervantes, i confini stessi del romanzesco, e diventa una figura che attraversa il tempo della storia, il tempo degli uomini smarriti nel bosco della storia. È interrogato, commentato, proseguito e imitato (da Fielding a Diderot, da Thomas Mann a Borges). Interpretato come emblema di un popolo, delle sue virtù e dei suoi vizi (Unamuno). Osservato come figura cristica, che unisce innocenza e sofferenza, incantamento e smarrimento, umiliazione e leggerezza (Dostoevskij). Letto come il permanere dell’ideale nella “prosa del mondo” (Hegel), come presenza dell’alterità nell’universo dello scambio, nel mondo diventato un immenso mercato (Marx). Visto come segno del differente in un mondo in cui i segni tendono tutti all’equivalenza, all’omologazione, all’adeguazione a un solo significato (Foucault).
Leggere il Don Chisciotte vuol dire interrogarsi sul senso dell’altro in un mondo che si chiude in se stesso, nei suoi pretesi valori, nel grigiore del suo venerato realismo. Vuol dire lasciar passare il vento della finzione nella prigione della concretezza. L’ala dell’impossibile nell’opacità del quotidiano.
(Pubblicato in “Liberazione” del 25 gennaio 2005)