Esiste una “generazione-Tondelli”? Per Enrico Palandri, scrittore, autore venticinque anni fa di un libro fulminante, “Boccalone”, la risposta è positiva. Egli rivendica non solo l’appartenenza a quella generazione, ma se ne fa anche il portabandiera. Il libro che ha scritto, “Pier”, è una sorta di autobiografia che vuole essere nel medesimo tempo una riflessione su Tondelli e sulla sua eredità. È un libro non riuscito scritto con il cuore in mano. Palandri generosamente cerca di mettere insieme i cocci del tempo passato, di spiegare se stesso e gli altri scrittori della sua epoca alla luce di quanto è poi accaduto in seguito: perché i ragazzi del Settantasette sono diventati per la maggior parte i grandi sostenitori del sistema sociale e politico dominante in Italia? Nel libro la risposta non c’è e non potrebbe esserci per il fatto che Palandri non solo ha fatto la scelta opposta – se ne è andato dall’Italia per oltre vent’anni -, ma anche perché il suo non è un libro di sociologia. Vorrebbe invece parlare di letteratura; in realtà non lo fa e si sperde in una serie di annotazioni, riflessioni, lamentazioni e, nonostante la sua sincerità, la sua voglia di mordere la realtà, non approda a nulla, così che le pagine più belle paradossalmente sono quelle dedicate a Londra.
Tondelli rappresenterebbe la generazione che voleva discutere l’idea di normalità: la famiglia, la sessualità, il denaro, il lavoro, il riconoscimento sociale. Una generazione contro, ma non come quella dei fratelli maggiori, i ragazzi del Sessantotto, capace di arrivare sino in fondo nella propria scelta radicale scegliendo la lotta armata. L’esperienza della generazione-Tondelli si riassume, secondo Palandri, in una forma di eresia, di scelta laterale che si compendia in uno slogan di quel periodo: “Né con le Br né con lo Stato”. Palandri non usa queste parole, ma il senso del suo ragionamento è questo. Parla di generazione espulsa, emarginata, che non apparteneva né a un mondo, quello dei Padri, né all’altro, quello dei Fratelli. La definisce una “generazione senza gruppi”. Il nostro, conclude, “è stato un atteggiamento individualistico, marcato non da un’adesione, ma semmai da un rifiuto”. In questo ha ragione, ma il rifiuto non basta a definire una generazione che, come ci spiegano gli storici – Robert Wohl ad esempio -, si forma attraverso un’esperienza che può durare anche pochi mesi, ma cresce nella propria autocoscienza attraverso la pratica della diversità.
La generazione nata tra la metà e la fine degli Anni Cinquanta ha sviluppato consapevolmente una propria diversità? Palandri non si pone questa domanda e probabilmente non può neppure rispondervi. Non spetta a lui. È uno scrittore, non un intellettuale. Il suo libro è costruito su un equivoco che sarebbe ora di dissipare: Tondelli, Palandri e Piersanti, i tre scrittori a cui ci si riferisce per definire letterariamente questa generazione, non solo hanno scritto tre libri molto diversi, ma non sono neppure riducibili alla medesima visione. Tondelli e Palandri possono forse affiancarsi, seppur con grandi differenze di stile e di poetica; Claudio Piersanti ha invece imboccato sin dall’esordio un’altra strada. La generazione-Tondelli non esiste se non nei sogni e nelle fantasie dei suoi contemporanei e dei suoi presunti eredi. Lo scrittore di Correggio ha compiuto un passaggio decisivo sul piano del costume letterario: ha riportato al centro del dibattito la figura dell’autore, staccandola da quella dello scrittore-intellettuale. Ha cercato di imitare due maestri della generazione dei fratelli-maggiori, Celati e Arbasino, ma seguendo il percorso opposto. Ha sostituito il rapporto letteratura-politica con il rapporto letteratura-società. Tuttavia ha sviluppato il lato mondano della faccenda, per dirla con Celati, facendo trionfare la “mania di farsi scrittori”. È stato un abbaglio che Tondelli ha preso e trasmesso alla generazione successiva, quella dei De Carlo e dei Baricco. Né Celati né Arbasino, nonostante tutte le loro mosse, pose o atteggiamenti, hanno infatti mai pensato né scritto che la cosa più importante sia lo scrittore, l’autore, e neppure la letteratura, ma solo lo stile (la scrittura per Celati, la forma per Arbasino). Tondelli con grande consapevolezza e lucidità ha “fatto lo scrittore” che viaggia, va agli spettacoli, ascolta la musica, intervista i gruppi teatrali, scrive di cinema e di linguaggi giovanili: la professione di giovane scrittore, poi imitata da molti. Questo è stato all’inizio Pier Vittorio Tondelli. Poi la sua diversità, l’omosessualità, la malattia, l’Aids, lo hanno portato a una dimensione differente, più accorata, malinconica, dolente. Il suo “narcisismo di vita” si è trasformato in “narcisismo di morte” come mostra il suo ultimo dolente romanzo, “Camere separate”, che è la chiave per leggere anche il suo libro d’esordio, “Altri libertini”, libro bello e importante.
In un appunto sul margine di un volume di Testori, poco prima della morte, scrive: “Quello che il destino mi ha poi riservato non è stato tanto, come avrei creduto, un percorso o, forse, una evoluzione verso l’assoluto della scrittura e della finzione più alta, letteratura, quanto un ritorno rovente al mondo del mio primo libro al punto da dividere, di quelli che hanno in sostanza solo dei personaggi, coerentemente alla mia natura di scrittore la stessa purtroppo vera e ora sì reale, vissuta, sorte tanatologica” (settembre 1991). L’incontro con la morte diventa lo stigma consapevole di Tondelli, il suo punto finale che dissolve la figura dello scrittore giovane e brillante, timido e insieme mondano, piccolo Budda di una intera generazione che si era riconosciuta nel suo esordio, nel tocco magico e nel successo. Ma riconoscersi in uno scrittore non è far generazione. Tanto è vero che questo finale tanatologico è ignorato da Palandri, come da molti che affrontano il nodo-Tondelli. La generazione-Tondelli non esiste né la fa esistere il libretto di Palandri, dolente, malinconico, sincero, ma purtroppo insufficiente. Per farla esistere bisogna sciogliere quei nodi: morte-religione, sessualità-famiglia, normalità-anormalità, ma mi sembra che nessuno scrittore venuto dopo – salvo rare eccezioni – abbia voglia di farlo, né sul piano letterario né su quello intellettuale. È più facile cercarsi un posto al sole che combattere con le Erinni e con le Parche.
(Tratto da TTL, supplemento a “La stampa” del 10 settembre 2005)