L’1 e il 2 dicembre del 2000 si è svolto a Bologna, a cura di Renata Adamo e Cristiano Tavassi, un convegno dedicato alla figura e all’opera di Robert Walser. Zibaldoni e altre meraviglie, grazie alla sollecitudine e all’attenzione dei due organizzatori e alla collaborazione degli scrittori intervenuti, è lieta di offrire ai propri lettori gli Atti del convegno bolognese, accompagnati, per l’occasione, da alcuni testi dello scrittore svizzero in una traduzione inedita di Mattia Mantovani.
Gli Atti saranno pubblicati con cadenza settimanale, e infine saranno raccolti tutti insieme in un link a parte. Il programma di pubblicazione è il seguente:
- Il boa di pelliccia di neve dell’Europa di Robert Walser
- Robert Walser, l’invisibile di Mattia Mantovani
- Lettera a Max Rychner di Robert Walser
- Guardando attraverso la lente di Bernhard Echte
- La singolare felicità del metodo della matita di Werner Morlang
- Invito alla lettura dei tardo microgrammi walseriani di Anna Fattori
- Robert Walser e Robert Maechler di Marianne Schneider
- Leggere i Fratelli Tanner di Peter Bichsel
- Accalorarsi in silenzio di Enrico De Vivo
- Sulla carta di Ermanno Cavazzoni
- La chiave di Jörg Steiner
- Il pensiero girovago sulla via del ritorno di Ginevra Bompiani
- Il lungo esilio di Robert Walser di Ferruccio Giacanelli
- Le fate tragiche di Robert Walser di Renata Adamo
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Il boa di pelliccia di neve dell’Europa
Robert Walser tradotto da Mattia Mantovani
Il boa di pelliccia di neve dell’Europa
Piccola e audace, ecco come se ne sta la Svizzera, abbracciata dalle nazioni! Già solo come paese, che immagine sublime e insieme leggiadra che offre! La si potrebbe definire il boa di pelliccia di neve dell’Europa. La sua natura è meravigliosa come la sua storia. Il suo popolo è particolare come la sua postura. Sembra quasi che si rannicchi. Eppure non sembra nemmeno una pantera, perché non ha frontiere delle quali far bottino. La sua sobrietà è anche la sua stabilità, la sua modestia è anche la sua bellezza, i suoi limiti sono anche il suo incomparabile ideale. È come una roccia politica, circondata dal mugghio di politiche onde. Fino a quando rimarrà ciò che è, a quanto pare nulla la danneggerà. Nella misura in cui si sente piccola, può sentirsi forte e particolare e indipendente, e dipendere soltanto dall’accortezza e dall’intrepidezza. La dignità è il suo confine. E fino a quando saprà difendere questo a suo modo sterminato confine, rimarrà a suo modo un paese grande ed importante, grande come pensiero. La sua posizione è incantevole e pericolosa. I suoi abitanti, fondandosi sul proprio passato, sanno vivere a casa propria. I suoi commerci crescono, le sue scienze fioriscono. Ma perché poi lusingarla? A lusingarla maggiormente è il fatto di appartenere a se stessa. All’estero si dice che gli svizzeri sono rozzi. È come se si dicesse che i francesi sono inaffidabili, che i tedeschi sono arroganti, che i turchi sono sporchi, che i russi sono arretrati. La terra è appestata da questi luoghi comuni! La vita viene avvelenata da simili dicerie!
(1911)
Alla Patria
Il sole splende attraverso il piccolo buco nella piccola stanza dove siedo e sogno. Risuonano le campane della patria. E’ domenica, ed è il mattino della domenica, e in questo mattino soffia il vento, e tutte le mie preoccupazioni volano via nel vento come timidi uccelli. Sento troppo la melodiosa vicinanza della patria perché possa lambiccarmi con una preoccupazione. In passato, ho pianto. Ero così lontano dalla mia patria. C’erano così tante montagne, così tanti laghi, boschi, fiumi, campi e forre tra me e lei, l’amata, l’ammirata, l’adorata. In questo mattino lei mi abbraccia, ed io dimentico me stesso nel suo rigoglioso abbraccio. Nessuna donna ha braccia così morbide ed imperiose; nessuna donna, nemmeno la più bella, ha labbra così ricche di sentimento; nessuna donna, nemmeno la più ricca di sentimento, bacia con lo stesso infinito fervore con cui la mia patria mi bacia. Il suono delle campane, il gioco del vento, il mugghio delle foreste, il luccichio dei colori: è tutto contenuto nell’unico, dolce bacio che in questo momento tiene prigioniero il mio linguaggio, nel dolce, infinitamente delizioso bacio della patria, della patria.
(1905)
Circa duecentomila anni fa
Circa duecentomila anni fa pare che in Svizzera abbiano vissuto degli orsi che, come ci racconta la scienza, si ostinavano ad essere forti e grandi il doppio rispetto agli attuali. Compiendo un salto nel medioevo, che si potrà definire come epoca europea, la Svizzera possedeva allora caratteristiche di questo o quest’altro tipo, che hanno contraddistinto quell’epoca anche altrove: si pensi da un lato alla cultura e alla signoria dei monasteri, e dall’altro a quelle dei castelli. Pian piano, vennero fondate città di ogni genere. A questo proposito, pare che da qualche parte in Svizzera ci sia una città di origini egiziane. Queste leggende rappresentano delle particolarità, e il graduale sviluppo della confederazione svizzera rappresenterà sempre qualcosa di particolare. Gli antenati degli svizzeri di oggi erano senza dubbio uomini valorosi, intelligenti e dinamici, perché furono capaci di ritagliarsi una notevole peculiarità. Si tratta di una realizzazione che i discendenti dei suddetti uomini hanno apprezzato non senza un’adeguata dose di riconoscenza. Rivolgo ora la mia attenzione all’acqua: i laghi ed i fiumi svizzeri si segnalano per la loro colorazione chiara e profonda, e per quanto poi riguarda l’arte e la poesia, delle quali avrei forse già dovuto parlare molto più sopra, la Svizzera si vede ornata dal nome di un pittore come Hans Holbein e da un genio poetico come Conrad Ferdinand Meyer. Va da sé che, al proposito, ci sarebbe anche altro da menzionare. In un saggio breve, nel quale forse anche lo humour vuole essere posto in questione più di quanto non voglia essere tirato per i capelli, bisogna rinunciare alla menzione di cose che meritano di essere menzionate. Si potrà insomma velocemente notare il fatto che gli svizzeri, cosa che può forse essere universalmente nota, non sono privi di gelosia quanto alla propria libertà, e nello stesso tempo non sono privi della capacità di renderle giustizia. Si potrebbe dedurne che in questo somigliano alle persone gelose? Non moltissimo tempo fa, in paesi stranieri, voglio dire nei posti adatti allo scopo, c’erano ancora quei reggimenti svizzeri o di legionari che in un certo qual modo erano diventati famosi. Questa istituzione ha cessato di esistere. Ci sono antichi poemi, che oggi non si cantano più e che tuttavia sono da inserire nel novero della letteratura, che hanno a che vedere con la suddetta istituzione storica, dal momento che esprimono con grazia popolaresca il dolore della nostalgia degli antichi soldati svizzeri. Chiunque ami la Svizzera, ha immediatamente l’immagine della montuosità e del risuonare di lunghi corni alpini sopra superfici nevose poste in altitudine. Per quanto riguarda l’anima degli svizzeri, ci sono penne illustri che si compiacciono dell’idea, piuttosto comoda e a buon mercato, secondo la quale quest’anima sarebbe di magnifico umore da mane a sera e sarebbe composta da nient’altro se non bontà e divertimento. In realtà – per fortuna, vorrei dire – le cose stanno in altri termini. Lo svizzero indossa per così dire una maschera nazionale che gli è imposta da necessità di vario genere. Quando sembra allegro, in realtà è serio, quando lo si vede comportarsi da sempliciotto, in realtà è più consapevole di quanto si sia disposti a supporre. Una circostanza non priva di peso è ad ogni modo il fatto che si distinguano questo paese e questo popolo da altri paesi ed altri popoli.
(circa 1928)
Tell
Nella terra di Uri, la quale si trova sulla strada che porta in Italia, il paese dove crescono le arance, visse una volta un uomo che si fece notare per il fatto che non volle salutare un cappello ornato da una piuma, e di conseguenza venne accerchiato, fatto prigioniero e portato via da un gruppo di bravacci.
La faccenda venne portata al cospetto del tribunale distrettuale o del lanfogto, che si chiamava Gessler, aveva il pizzetto ed era magro. Disse che non gliela avrebbe fatta passar liscia, e si mordicchiò le labbra. Certo era un po’ nervoso. Governare è un mestiere logorante.
Rimuginò a lungo, poi all’improvviso proruppe in una risata assolutamente satanica: “Ecco! Te la voglio guastare io la tua rivolta, una volta per tutte!”. E con queste parole diede le necessarie istruzioni. Si arrivò quindi al tiro alla mela, che è stato rappresentato innumerevoli volte sui palcoscenici. L’opera è magistrale, come tutto ciò che Schiller ha scritto.
Tell era pallido. Certo, lo si può ben capire. Chi non verrebbe colto dal tremore se dovesse mirare alla testa del proprio fanciullo? Gessler se ne stava seduto in un’automobile molto signorile e si fumava un Brissago. La moglie del lanfogto assisteva alla scena in sella ad un cavallo. Indossava un elegantissimo vestito da cavallerizza e si interessava straordinariamente al destino di Tell.
Il quale tirò, colpì la mela e in questo modo ferì profondissimamente l’amor proprio del lanfogto. Tutto il pubblico presente applaudì: una circostanza, questa, che naturalmente dovette risultare incresciosa al governatore.
“Vieni un po’ qui, tu”, disse, e quando Tell gli si avvicinò, Gessler gli rivolse diverse domande, al che Tell ebbe la possibilità di sbattere in faccia a Gessler diverse contumelie, in maniera non sufficientemente rapida. Non era propriamente un comportamento assennato, il suo; avrebbe fatto meglio ad evitare una simile uscita. Ma abbiamo un bel parlare, noi. Forse ci saremmo comportati in maniera ugualmente avventata.
La collera di Gessler era enorme: “Legatemelo!”, ordinò. E adesso Tell si trovava nuovamente nei guai. Lo si condusse a forza a bordo di un sommergibile o di un veliero, e lo si legò all’albero. La compagnia veleggiò in direzione di Lucerna, dove l’eroe della libertà doveva essere sistemato in modo tale che non potesse più vedere né il sole, né la luna.
Ma le cose andarono diversamente. Tell aveva davvero poca voglia di finire sepolto vivo. Piuttosto, sarebbe andato a combattere in trincea, oppure si sarebbe messo in contatto con Lenin e Trotzki.
Lucerna era senza dubbio già allora un luogo gradevole ed accogliente. Oggi è una rinomata città turistica, che offre ogni possibile piacevolezza. Io stesso ci sono stato alcuni anni fa. Purtroppo pioveva, ma sono comunque riuscito a vedere il Monte Pilatus che svettava favoloso nella nebbia.
Per tornare alla storia, che forse – cosa che non è poi un gran peccato – potrebbe risultare una fonte di divertimento, bisognerebbe segnalare che sul Lago dei Quattro Cantoni si scatenò una tempesta che fornì al prigioniero la possibilità di liberarsi. Era stato lo stesso Gessler a ritenere opportuno di servirsi del proprio nemico impiegandolo ai remi.
Nei pressi di una roccia, Tell saltò fuori dall’imbarcazione. Questa circostanza ci porta a credere che Tell sia stato non solo un tiratore provetto, ma anche un buon ginnasta. È chiaro che possedeva una grandissima prontezza nel prendere decisioni.
E adesso era libero. In questo modo si arriva alla stretta gola nei pressi di Küssnacht, dove la storia trovò la propria repentina conclusione ed un grande potente incontrò una grande sfortuna. La faccenda si risolse senza dubbio in maniera un po’ brusca, e il modo in cui Tell se ne fece garante non incontrerà certo il gusto di tutti.
Siccome Tell, malgrado il carattere energico, amava la quiete, e siccome aveva svolto il proprio compito, se ne tornò tranquillamente a casa per adempiere alle proprie faccende quotidiane.
(1919/1920)
Lo scrittore e la ragazza
Uno scrittore avanti con gli anni sedeva una sera in società. Intorno a lui c’erano persone di vario genere che parlavano animatamente. Lui non sentiva e non vedeva nulla, era come assente. Gli si avvicinò una ragazza. Lui non la guardò, ma lei non si fece intimorire. Se avesse voluto ricevere gentilezze, le avrebbe cercate altrove. Fu toccata dal fatto che lui se ne stesse seduto lì, quasi irraggiungibile, senza dire una parola. Si sentì quasi tanto più spinta a parlare, e disse: “Io ti conosco, e a vederti seduto così, senza il benché minimo entusiasmo, mi verrebbe da considerarti una persona indurita e indifferente. Felicità e infelicità ti interessano ormai ben poco. Cosa volevo dirti? Ah sì, pensa un po’: io ho letto tutti i tuoi libri, che sono così magnifici, così quieti, così autentici e sinceri e piacevoli, che risuonano come bei canti, e nel cui linguaggio scorre come una corrente che incarna la forza e la leggiadria. Mi osservi in maniera perfino un po’ troppo sorpresa. Ti sorprende la mia serietà? Sono capace anche di ridere e raccontar stupidaggini, se la situazione lo richiede e se ne ho voglia.
Se ci fosse un altro seduto al tuo posto, non vi vedrei nulla di particolare, vedrei in te un barbuto brontolone e non ti prenderei affatto in considerazione, perché di giovani divertenti ce n’è a sufficienza. Ma nessuno di loro ha scritto racconti così belli. È questo che mi commuove e quasi mi colpisce come un fulmine. È il pensiero che tu non sei giovane, e che certo tra breve dovrai morire, e tuttavia hai creato qualcosa di sempreverde che esisterà anche quando tu non ci sarai più, che non invecchia, anche se tu sei vecchio, che rimane giovane anche se tu non sei più giovane.
Vedi, io appartengo alla vita e amo la spensieratezza del presente. Ma non sono anche i tuoi libri un presente? Le persone e i paesaggi, i dialoghi e gli avvenimenti, i sentimenti e la quiete della natura, le azioni vivaci e vigorose: tutto ciò che hai descritto è strettamente compatto, non può separarsi, costituisce un mondo a sé, con una propria vita. Si profila impercettibilmente e poi si sviluppa, ha forma e colore, occhi e labbra, ed è vasto e quieto e grande. Quando ho cominciato a leggere non sono più riuscita a smettere, ho continuato a leggere fino a quando non ho vissuto io stessa tutte le significative vicende che racconti. Come mi ha rinvigorito la conoscenza dei personaggi creati dalla tua fantasia. La vita è diversa da come tu la racconti, ed è giusto che sia così. Talvolta mi sembravi quasi fin troppo gradevole, e mi veniva quasi da essere impaziente. Ma se mi sforzavo di seguirti e di accettare il tuo modo di essere quieto con i quieti e prudente con i prudenti, allora mi piacevi davvero, e io stessa mi piacevo più che mai. Forse queste mie parole ti annoiano. Ma io mi sono augurata che tu potessi continuare a vivere e sentire, e che venissi immediatamente baciato dalla fama”.
Lo scrittore non rispose nulla. Teneva lo sguardo fisso a terra e nel mondo della propria vecchiaia, mentre la ragazza guardava per così dire al di là di lui nella rosea vivacità della giovinezza. Lei pensò: “Che tristezza. Questo celebre scrittore ha un aspetto che non entusiasma, così che si guarda solo alla sua opera, alla quale lui ha sacrificato la propria vita”.
Si allontanò in fretta. Nei suoi begli occhi chiari c’erano quasi delle lacrime.
Non ci volle molto perché venisse presa nel divertimento e abbandonasse la tristezza.
(1919)
La cameriera
Gli scrittori che, grazie alla loro potenza creativa, hanno raggiunto una grande fama, sono sicuramente scrittori che hanno letto di tutto, forse troppo. Ci sono stati autori ai quali magari capitava di vedere una qualsiasi cosa appena un po’ interessante, ed ecco che subito si trovavano nella necessità di rappresentare persone e paesaggi. La musica ha esercitato una benefica influenza sulla creatività di molti artisti. Schiller, se non sbaglio, leggeva con particolare piacere le storie parigine, e se le traduceva a proprio beneficio. Ma qui, se mi è concesso farlo senza scrupoli di sorta, vorrei parlare della Mariellina delle fragole di Jeremias Gotthelf, un libricino della lunghezza di circa ottanta pagine. Da quale genere di riflessioni è nato questo racconto, il più leggiadro forse di tutti i racconti scritti, o comunque ritenuti degni di prender forma, da parte dello scrittore bernese? Questo eminente rappresentante del genere del racconto non ha scritto poesie. Non ne aveva evidentemente il tempo. La sua parrocchia gli dava già sufficientemente da fare.
Si parla di una donna che, con alterna fortuna, lavora come cucitrice. Vive dapprima in una città sul cui selciato sferragliano carrozze che incutono rispetto, dove lavorano calzolai, sarti, falegnami, bottai e rilegatori di libri, e per le cui strade passeggiano intellettuali dall’aria solenne. La donna non riesce a rafforzare la propria posizione, e allora si ritira umilmente in campagna, dove trova un domicilio che le si addice in una casupola. La cosa più cara e preziosa che possiede sono tre bambini che crescono in un’atmosfera di candore e morigeratezza. I bambini si comportano bene, ma a volte, quando gli fa comodo, accade anche che si mostrino disobbedienti. Due bambini, l’uno dopo l’altro, le vengono strappati via dalle fredde, silenziose e possenti mani della morte. La terza, trattata dalla madre con bonario e riguardoso sdegno o lasciata sprezzantemente vivere -quasi che non valga la pena di tenersela in casa- si chiama Mariellina. E’ nei confronti di questa insignificante bambina che Gotthelf adopera tutta la propria maestria, e lo fa con grande pienezza e intensità, in una maniera piacevolissimamente imprevista. Ci comunica che la bambina, di notte, nel suo lettuccio, si è persa più volte in sogni profondi, e che di giorno è andata in cerca di fragole per fare in modo che la madre potesse poi venderle. Non è mai successo, o comunque è successo raramente, che uno scrittore sia stato in grado di scrivere in maniera tanto immediata di questo frutto succulento, che cresce nei boschi sotto foglie di ogni genere.
Spero di essere ben accolto se affermo che, col tempo, fu la stessa Mariellina a vendere direttamente le fragole. Infatti era diventata grande e più indipendente. Un bel giorno, si addormentò in un posticino soffice e discosto. Al risveglio, il suo sguardo incontrò quello di due occhi meravigliosi che la fissavano intensamente. Erano gli occhi di una nobile signorina che viveva nelle vicinanze, in un castello circondato da un parco. La signorina invitò Mariellina a farle visita al più presto. La visita ebbe luogo, e Mariellina entrò in servizio come cameriera. Le cameriere devono essere svelte e insieme accorte. Mariellina lo era.
Passarono gli anni. La signorina -che a volte si mostrava quieta ed indulgente e altre volte, invece, si faceva sopraffare dal malumore e dall’insofferenza- cominciò ad invecchiare e ad ammalarsi. In sé e per sé si trattava di una cosa assolutamente normale, che si è verificata innumerevoli volte nell’epoca della civilizzazione. Nelle sue stanze calò la solitudine. Solo raramente qualcuno veniva a farle visita. Mariellina sapeva tutto dei teneri e delicati dispiaceri che si agitavano nel cuore della sua padrona. Il libro si sta avviando verso la fine, e l’autore riesce a toccare vertici altissimi. La bella anima, che per tutta la vita si era dovuta scontrare con le insoddisfazioni, prende congedo sia dalla cameriera che dal proprio corpo.
Uno che ha molto da dire se la cava anche se ha a disposizione poco materiale, pochi spunti o pochi motivi.
(1931/1932)
La Mariellina delle fragole e Don Giovanni
Sulla mia scrivania, l’una accanto all’altra, in pacifica unione, ciascuna a modo suo un’opera magnifica, ci sono la Mariellina delle fragole di Jeremias Gotthelf, che rinuncia gioiosamente alla vita e serve con entusiasmo la sua signorina del castello, e lo spudorato Don Giovanni di Molière. Gotthelf e Molière? Pourquoi pas? Entrambi furono artisti significativi nell’ambito spirituale. Immagino che la Mariellina delle fragole e Don Giovanni si siano incontrati da qualche parte, e che a quest’ultimo sia piaciuto dire quanto segue alla ragazzina bernese: “Uno strano tipo. Voyons. Così semplice. Ah, la semplicità può essere strana. Ragazza, mi commuovi. Di fronte a te, nella mia coscienza si agita qualcosa come un molto piacevole rispetto. Già il tuo aspetto non ha proprio nulla a che vedere con la morale da salotto. Senza nemmeno lontanamente immaginartelo, tu sei un angelo. Ciò che in te mi attrae particolarmente, voglio dire, non fraintendermi, ciò che mi è simpatico è proprio il fatto, per me così divertente, che tu non hai mai desiderato conoscere e goderti la vita. Se me lo concedi, trovo questo fatto estremamente interessante e, se non te la prendi, mi inchino davanti a te (lo fa). Vedi, io ho una reputazione molto cattiva. Ho reso infatti infelici due o quindici donne. Non posso ricordarmi tutte le donne con le quali me la sono goduta, nelle quali ho risvegliato speranze di delicata natura e che, per così dire, ho ingannato nella peraltro un po’ insolente ma oltremodo sincera sensazione che in fondo esse desideravano essere ingannate. Ci sono infatti donne che lo desiderano, forse senza saperlo. Amano torcersi le mani e trovano che ci sia della bellezza nel prorompere in lamenti. Oh, come sorridi divertita. Che affascinante comprensione. Ecco, è la ragazza che apprezza il gransignore. Perché in un certo senso, non credi?, io sono sia seduttore che vittima. Fai cenno di sì. Ti ringrazio molto, e sono felice di aver fatto una così semplice e piacevole conoscenza. Ciò che si definisce società rimane pur sempre un tale miscuglio di frivolezza e della più meschina grettezza, di eccitamento e di bisbigli di pruderie… Se il mondo colto non ha un Don Giovanni, ecco che sospira e ne prova nostalgia. Ma poi, quando arriva ed è presente, si fugge da lui. Questo, però, non ti deve riguardare. La tua devozione è buona e di primitiva bellezza, e nel tuo cuore c’è un ingenuo desiderio d’amore. So fin troppo bene che ciò che è allettante mi alletta, ciò che è tranquillizzante mi tranquillizza, ciò che è civettuolo mi rende civettuolo, ciò che è serio mi rende serio. Siamo tutti più dipendenti di quanto crediamo. Credo di poter ritenere molto elegante che tu non sia sorpresa, come se in te ci fosse una ragione che conosce le faccende della vita. Vicino a te io sono senza dubbio una persona migliore, e perché, vicino a quelli che mi ritengono malvagio, non sono mai una persona che è migliorata? Perché per loro questa convinzione è ristoratrice. Vado da loro e mi preoccupo inoltre che abbiano qualcosa di cui parlare, e porto con me un’impressione che non mi annoia ma nemmeno mi lusinga. Tu resti quella che sei. Dovrò esserlo anch’io”. Lei lo guarda impassibile, ed entrambi se ne vanno ciascuno per la propria strada. Prego di prendere quanto ho scritto come una piccola fantasia.
(1925)
Un racconto di Jeremias Gotthelf
Mi è capitato tra le mani un racconto di Jeremias Gotthelf, che si intitola La domenica del nonno e rappresenta forse un piccolo teatro del mondo. Da quando mi occupo di libri, non ho mai letto qualcosa di così bello, così piacevole e insieme così grande. La bellezza e la grandezza di questo scritto, che occupa appena quaranta pagine stampate, risiedono nella sua lingua. La scena è una casa colonica. Il nonno, che sente avvicinarsi la fine, giace a letto. Sente il freddo che lo invade. E adesso arriva la descrizione dei bambini che parlano con lui. Da questa vicenda così quotidiana, nella quale non c’è assolutamente nulla di romantico, si potrebbe trarre magari una specie di mistero per il palcoscenico. Ma chi leggerebbe mai questo libricino bello e commovente? E chi mai riuscirebbe a rimodellare per altri scopi un simile gioiello di descrizione dell’ambiente campagnolo? In Gotthelf, ad essere importanti sono le piccole e lievi paroline. Le cose inappariscenti, se anche le si percepisce, sfuggono all’attenzione. La percezione, nei libri come nella vita, è talvolta difficile. Ho letto il libricino a mezza voce tra me e me, e posso parlare di un’autentica gioia che si fondava sull’interesse e sul trasporto. Il figlio e la figlia del vecchio nonno, che seguendo la sua raccomandazione si sono sposati, non sono così felici come dovrebbero essere. Il nonno lo sa, e adesso parla con la donna e se ne lamenta. In questa occasione, lo scrittore si serve di parole che nessun altro ha mai trovato: così particolari, così rischiarate da una luce proveniente da qualche parte, che di quando in quando ci si meraviglia dell’arte dell’autore di essere completamente se stesso nel pensiero e nella sua formulazione. “Potrebbe essere più allegro, più spensierato”, dice alla figlia parlando del figlio, ma bisogna leggere quello che dice. Nessun altro è capace di dirlo con la delicatezza di questo scrittore, che di mestiere faceva il parroco. Il nonno ha poi una conversazione col figlio, parla inoltre con altri abitanti, e dice che le lacrime accompagnate dal pianto altrui sono belle, e deplora le lacrime che si versano mentre intorno si ride. Poi desidera di essere portato fuori, lo si fa, e adesso siede al sole, di fronte alla casa, ed esala l’ultimo respiro con lo sguardo rivolto al paesaggio a lui noto. Mentre il poeta parla in maniera così bella di questo avvenimento, ho l’impressione che tenga tra le proprie mani il vecchio, la casa e il mondo circostante, che osservi tutto così come si osserva un giocattolo, con tenera e bonaria attenzione. Molti non leggeranno forse un libro così “piccolo” con la mia stessa ammirazione. Gli obblighi della vita ci intimidiscono già sufficientemente spesso. Qui c’è uno scrittore di nobile sentire che, con il suo racconto, ci desta e nello stesso tempo ci tranquillizza.
(1926)
(Testi tratti da: Sämtliche Werke, Aus dem Bliestiftgebiet, Feuer (c) Robert Walser Stiftung, Zürich – Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1978-85, 1985-2000, 2003, 2004 – Traduzione di Mattia Mantovani)