Ore 15
Se resto in casa quando fuori c’è ancora il sole, mi sento in colpa come se sciupassi il pane.
Bambini in strada si chiamano di rione in rione per una partita da disputare contro la squadra del paese vicino. Saltano sulle panchine, sul sagrato della chiesa. Urlano i nomi dei compagni per completare l’adunata; i volti paonazzi, le gole gonfie e un fuoco negli occhi come se la vita per loro non fosse mai esistita fino a quel momento.
Tutto passa e si perde senza ragione. Oggi ho rivisto la bambina con la quale da piccola giocavo nel giardino sotto casa. Preparavamo la pizza col fango e i pomodori crudi, seppellivamo gli uccellini caduti dai nidi, dipingevamo i bidoni della spazzatura con gli avanzi di vernice del carrozziere, legavamo le lucertole per la coda e le facevamo oscillare come pendoli dall’alto dei nostri balconi. Avevamo giurato l’una all’altra che la prima cosa che avremmo fatto da grandi sarebbe stata comprare insieme un cavallo.
Quella bambina è cresciuta. Anche lei, come me, è rimasta nel paese. Abita a 100 metri dal prato in cui giocavamo. Ha un bambino, un naso tagliente, capelli mesciati, e mi ha guardata come se non mi avesse mai incontrata prima.
Mi siedo e penso. Mi viene in mente mio padre: quando è morto è venuta un sacco di gente, e tutti hanno portato zucchero e caffè, e anche i cornetti alla crema più buoni che abbia mai mangiato in vita mia. Mi vengo in mente io: c’è mai stato qualcosa tra la mia vita e le cose? Se mi si pone una domanda rispondo perché sono gentile, ma di certo non ho capito quello che mi era stato chiesto.
Ore 16,10
Torno a casa. Trovo qualche prova della mia esistenza: la bottiglia d’acqua comprata due giorni fa è finita; le asciugamani si sono sporcate; devo riscrivere il latte sulla lista della spesa. Anche la polvere lungo i bordi del pavimento dimostra che io da lì sono passata, che l’aria si è spostata, e con essa piccole cose che prima erano altrove.
Mi sono stesa sul letto con la testa oltre il bordo. Mi accorgo di come trascorre il mio tempo: resto attaccata ad ogni oggetto che mi circonda come un pelo nel sapone.
Conto i soldi, li sistemo nel portafoglio a seconda del taglio. Passeggio per le stanze in cerca di qualcosa da pulire, riordinare, trasformare o distruggere, ma tutto è irreprensibile. Persino la crema per il viso nel suo vasetto riposa in uno strato perfettamente piano, senza accumuli lungo i bordi. Quindi mi siedo a gambe incrociate aspettando che qualche osso si ribelli.
Il cuore che batte muove appena tutto il corpo. Osservo piccole cellule di pelle che squamano via dai polpacci. Penso a tutto quello che potrei ancora fare, e il pensiero mi basta. Torno indietro; mi vengono in mente le domeniche di fervore per l’arrivo dei parenti: le uova fresche, le crostate di frutta, le conversazioni sul tempo e sul lavoro, il vento tra gli alberi con un brusio di miele caldo. Poi la pioggia sulle stalle e sui fiori, l’argilla azzurra della sera, il tuono dei tamburi nell’aia.
Mia nonna perdeva i lineamenti e diventava la madre di tutti gli uomini.
Pure, non è questo il modo per incontrare la vita. Non mi spiego altrimenti tutto ciò che, in questa pace, resta doloroso e discordante.
I mesi passano veloci. Compio azioni infondate. I miei discorsi sono uno spruzzo di deodorante nella stanza in cui marcisce un cadavere. Una paura strana scompagina ogni mia intenzione. Il mio cuore è piccolo e buio come un seme che non ha attecchito.
Ho paura della vita, del minuto prossimo come degli anni a venire: dolore di vene aperte, di unghie troppo corte.
Un giorno un uomo verrà a bussare alla porta cieca dei miei seni. E io mi dispererò come chi cerca il pane tra le macerie.
Inconsapevole della mia giovinezza, ricordo le ore migliori come aironi morti in una rete di confine.
Penso al patrimonio di spensieratezza dilapidato dagli anni prima del tempo, alle orge di occasioni andate a male, e non potendo fare molto per rimediare, delego ogni mia risorsa al dolore che mi accompagna; il dolore mediocre, il dolore di sempre.
Il silenzio di tutto quello che passando non resta trova in me il suo centro; in me seduta, lenta, nessuno.
Vedo le luci della città, le stagioni che si cavalcano, la scopa appesa dietro la porta del mio paese pietroso.
Il mio desiderio non si impiglia in niente e nessuno, ma cresce al di là, privo di oggetto.
Di città e persone incontrati non ricordo un solo nome. Una volta sul posto, mi sono accovacciata per ore su uno scalino, lungo il ciglio di una strada come sulla soglia di una capanna. Imparavo la grana dei passi, il respiro corto e lungo di tutte le cose. Imparavo la vita con l’estraneità di chi mi passava accanto.
Ora, come allora, chiudo gli occhi e sento la forma del Mondo. Ho nostalgia di una Storia che mi sorprende ogni giorno nel buio di appartenenze incerte.
Presto le mani ad azioni risapute, mentre fuori gli uccelli passano silenziosi come le ore, come gli altri.
Ore 21,30
Invito a cena con amici: poiché il corpo mi occupa interamente, sono piena di me.
Provo orrore per tutte le azioni che compio perché per accadere hanno bisogno dei miei tessuti molli.
Mi inorridiscono gli sfintèri, e pensare che le persone che frequento ne sono provviste. Non riesco a trovare nessuno attraente non foss’altro perché contiene umori e tutto ciò che ne consegue.
Nessuna sensualità: il mio cervello è un faro che illumina senza tregua spiagge dove gli uomini vengono a cercare un po’ di pace.
Ballare è degradante, come pure esultare, prepararsi per uscire. Prepararsi per uscire è come truccare i morti.
Ogni mia ora contiene almeno un buco senza orlo in cui, cadendovi, non percorro luoghi, non dico cose. Non prendo neppure lo spazio che occupa il mio corpo.
Parlo poco, e del niente da dire. Non mi piace dare spiegazioni: parlare di una cosa passata è inutile; annunciarne una futura è poco furbo perché poi, di solito, non capita.
Resto immobile, pronta tuttavia a godere della pienezza del momento sino al punto in cui la gioia diventa finalmente pena. Incredibile e doloroso, invece, come tutto senza dolore passi.
In fondo, mi interessa solo ciò che non mi appartiene: l’aria spostata nella valle dalle ali degli uccelli, una traccia di gesso sul muro, una parola che risuona senza messaggio.
Ore 22
Fuori dalla finestra le nuvole vanno assumendo una tinta chiara. Guardandole vedo una miriade di creature che nuotano dal basso fino alla schiuma di un universo finalmente ripulito dalla carne; senza pensiero, senza cultura, con un senso perfetto del movimento. Tornando a casa, una paura senza oggetto fa l’ululato del vento tra gole di montagna.
Pure, non sapere cosa voglio dalla vita mi riempie di gratitudine.