CANTO I
La vicenda eroicomica ha inizio là dove Omero concluse la Batracomiomachia, guerra di topi e rane. I paralipomeni sono la continuazione. – I topi, vinta la guerra contro le rane, sono a loro volta scacciati dai terribili granchi e fuggono lontano. – È il valoroso topo Miratondo a mettere fine alla ritirata: i topi si riorganizzano, ma il problema è che il defunto re Mangiaprosciutti non ha eredi. – Si elegge come capo provvisorio Rubatocchi, che riorganizza l’esercito e decide di mandare un ambasciatore ai granchi; viene scelto per questo il conte Leccafondi. – Una bella serie di divagazioni, nell’ordine: sugli spropositi filologici dei linguisti tedeschi; sullo scarso sentimento nazionale degli italiani che non scelgono nomi gloriosi per i propri figli; sull’odio degli stranieri contro l’Italia, tutta invidia per la grandezza di Roma e del Rinascimento.
I topi avevano vinto, le ranocchie erano circondate. Ma arrivarono i granchi, all’improvviso, per un volere superiore.
Quando arrivarono i granchi per rimpiazzare i plotoni delle ranocchie sconfitte, le quali dei granchi non avevano mai avuto nemmeno lontana idea, ma è così che ha voluto l’iddio padre di noi tutti, i topi vincitori furono dispersi, le loro grandi e belle imprese vanificate, per il campo di battaglia erano sparse ormai berrette, code topesche e baffi; nella campagna fuggivano insanguinati i topi, si disperdevano nella sera galoppando e sul calare del sole tu vedevi già la pianura nera: come spesso vedi su un muro, quando brilla la sfera d’oro del sole autunnale – ricordi quelle luminose ottobrate con il cielo limpido? -, un nuvolo di mosche scuro e brulicante rendere bruno quel bel radiore.
Ecco, c’è una guerra. I topi hanno vinto la loro battaglia finale sulle rane, ma i granchi non hanno perso tempo: hanno sorpreso i topi e li hanno dispersi a loro volta nella campagna, li vedi laggiù che galoppano laceri nella sera.
La storia fino a qui l’ha raccontata Omero, adesso tocca a Giacomo Leopardi.
Il conte Giacomo Leopardi abitava nella città di Napoli, insieme al suo più caro amico Antonio Ranieri. Questa è la sua ultima opera. Ranieri racconta che Leopardi non aveva ancora finito questo poema – che i letterati chiamano eroicomico – e che le ultime ottave gliele ha dettate proprio il giorno prima di morire. Vabbè, c’è Leopardi, vengono subito fuori le disgrazie… ci diciamo che era un tipo sorridente, invece? E che è morto perché ha mangiato troppi confetti di Sulmona, la sera prima? Che non ne poteva più dell’ambiente serioso e noioso degli spiritualisti napoletani, dei patrioti risorgimentali, dei sospirosi romanzieri romantici? E per questo ha scritto questa cosa comica. L’ultima.
Il conte Giacomo Leopardi dettava le strofe – ottave, in termini adeguati – al suo amico Ranieri. Si sente che in certi momenti devono aver riso come i matti.
La storia va avanti così. C’era un tal generale austriaco Michelangelo Alessandro Colli Marchini di cui si parlava ancora verso il 1830: conduceva all’assalto le truppe papali contro i francesi invasori – illuministi, giacobini, rivoluzionari! – dalle parti di Faenza, nel 1797. Le bandiere francesi ridevano nel vento romagnolo. Dicono che il Colli dopo la sconfitta tirò il fiato per la prima volta ad Ancona dov’era volato con la sua carrozza d’oro, neanche Apollo sarebbe stato più rapido.
Era pieno di guerre, a quei tempi: Leopardi cercava paragoni per descrivere la fuga dei topi e non faceva fatica. I belgi – vabbè, il conte detta “fiamminga gente” – dissero: “Non siamo mica napoletani, noi!” perché i napoletani guidati da Gioacchino Murat a Tolentino nel 1815 le avevano prese secche dagli austriaci. Loro affrontavano i cugini olandesi, siamo nel 1831, a Lovanio; aspettavano gli aiuti dei francesi. Ma niente: anche loro, i belgi, via in fuga.
Insomma, mentre cerca di rappresentarci la scena, Giacomo Leopardi ci dice anche: vedete, si vince, si perde, c’è sempre qualcuno da qualche parte che fugge insanguinato nella sera.
E poi dice ai sognatori patrioti italiani: massì, aspettate pure l’aiuto dei francesi, contro questi austriaci invasori, vedrete come arrivano…
C’è chi sostiene che i granchi, in questa storia, assomigliano agli austriaci e i topi un po’ agli italiani.
I topi – continua il poema eroicomico – per più di cento miglia hanno voltato le spalle al loro destino.
Passata era la notte, già il secondo giorno stava sfumando nella sera, ed ecco che un guerriero topo, il Miratondo, arrivò di corsa su un’altura. Forse era coraggioso o forse la stanchezza vale più della paura, si fermò; spiare era la sua passione e si guardò intorno. Il primo topo che ebbe il coraggio di voltare il muso indietro. Guardava più lontano che poteva, di qua, di là, verso i quattro venti, l’acqua e la terra, il monte e il piano, spiò le selve, i laghi e i fiumi, le vaste campagne e l’oceano: stranieri non ce n’erano, solo farfalle e molte vespe giù per la valle. Né granchi né granchietti, nessun segno di armi nemiche. Sussurravano solo i venti della sera, dolci, muovevano i rami e l’erba, accarezzavano fra le orecchie i capelli del buon soldato. Era il cielo senza nubi, la sera rosseggiava, il mare calmo.
Davanti a tanta quieta beltà il Miratondo sentì tornare le forze e riprese coraggio. Quattro volte intorno le pupille girò e capì che l’ora della paura era passata e che era inutile averne ancora, e allora osò rivolgersi ai suoi compagni, tanto si fidava dei suoi occhi.
Qui il conte Leopardi, con tutta la sua leggerezza, dice che è perlomeno da ingenui credere sempre e solo nei propri occhi. La verità non è quello che si vede. Questi topi riflettono poco sulla verità, sono abbastanza pavidi, fanno grandi proclami quando il pericolo è lontano, perdono volentieri le battaglie, si fanno passare altrettanto volentieri da eroi e da martiri. Dicono gli interpreti che assomigliano ai liberali del nostro Ottocento.
In certe altre sue pagine il conte Giacomo Leopardi dà una definizione stupenda della “doppia vista”: non vedi solo quella torre o quel paesaggio, ma hai sotto gli occhi – anche gli occhi della mente – i sentimenti collegati alla torre e al paesaggio, la memoria l’affetto la paura lo stupore l’amore. Vedi quellatorre e anche il suo fantasma.
Il poema eroicomico è fatto anche così: prende a prestito dai serissimi poemi epici certe forme stilistiche, come i paragoni – e poi li mette in ridicolo; pone a confronto grandi esempi dell’eroismo antico con le meschinità del presente. Come più sopra il generale Colli: scappava sì ma lo faceva come se fosse sul cocchio di Apollo.
E anche i topi, qua, sentono tutto il sollievo della fine dei loro travagli, come i diecimila che racconta nell’Anabasi il generale e scrittore greco Senofonte, che con il suo esercito viaggiò per mezza Persia e Siria e Turchia, arrivarono finalmente di fronte al mare e si urlavano uno con l’altro “Thalatta, thalatta” mare mare! finalmente si torna a casa… Anche i topi, dunque, esultarono, anche se erano al limite della loro resistenza, per la fatica e per la paura, quando udirono il grido del buon esploratore, il Miratondo, un grido grandioso che echeggiava nelle caverne marine con le acque mugghianti del mare e annunciava che tutto intorno fino dove si poteva vedere era tranquillo e senza pericoli.
Capiscono i topi che devono riunirsi, fermarsi e rialzare la fronte. Arrivano da tutte le parti, dal poggio e dalla pianura, questi qua che la paura aveva fatto rovesciare qua e là per mille rivoli, ancora smarriti e incerti, spossati e semivivi: non sanno bene cosa fare perché ci sono un presente che preme con le sue necessità e il pericolo dei granchi all’inseguimento.
C’era Venere, lassù, che già brillava prima di tutte le stelle e della luna: taceva tutta la campagna, si udivano solo il mormorare di uno stagno, il ronzio delle zanzare – si sa, no, che la sera la mosca cede alla zanzara? – una musica naturale che veniva dalla foresta a spandersi nell’aria bruna: il sereno riflesso di quella stella che fa sperare riluceva con le sue bellezze nel lago. Invece i topi tacevano, magari temevano di svegliare i granchi, per quanto fossero lontani, discorrevano fitto fitto ma in silenzio, con le zampe e con la coda, ricordandosi uno all’altro con dei gran gesti l’orrore di quell’esercito di bruti ingordi e strani; tentavano di mettere insieme qualche rimedio per questo rovescio disgraziato.
Ve la ricordate, la Batracomiomachia di Omero, quella di cui qui sto continuando la storia? dice il conte Leopardi ai suoi lettori. Ecco, Omero ha raccontato, e voi sicuramente l’avete letto, che Mangiaprosciutti – ehi, Mangiaprosciutti primo, il re dei topi! – nella battaglia era morto. Nelle sue ultime parole non aveva designato nessun successore, nella sua vita non aveva messo insieme uno straccio di erede che gli Dei dovessero riconoscere come nuovo re. C’era bene una sua figliola, chiamata Leccamacine, che aveva sposato un certo Rodipane: era anche la madre di quello che vola sulle bocche di tutti, Rubabriciole il bello, ve lo ricordate, quello per cui è scoppiata la guerra fra i topi e le rane… la sapete, no, la storia? No? Allora “con agio in Omero la leggerete” dice il conte Leopardi.
Ma niente da fare. La legge sàlica afferma che l’erede se è femmina è come se non esistesse.
Qui il conte Leopardi, che per chi non lo sa è stato il più grande linguista e filologo dei suoi tempi e forse anche dopo, si mette a prendere in giro i maestri di tutti i filologi, i tedeschi. E già che c’è prende in giro anche quel vizio che avevano lassù, quei romantici, di ammantare tutto di misteri e di ombre e di fumi. Il conte preferiva la luce. Gli piaceva di più il Settecento con l’Illuminismo che l’Ottocento con il Romanticismo, “secol superbo e sciocco” lo definisce in una sua poesia famosa. A proposito, provate a notare, anche qui in questo povero libro che leggete, quanto i topi si fanno affascinare dalle ombre, mentre avrebbero tanta luce per illuminare la loro vita. Ma ognuno, insomma, fa le sue scelte.
Allora, come si diceva, un filologo tedesco di quelli bravi e famosi, di quelli che dimostrano che il greco e il tedesco anticamente venivano dalla stessa lingua madre, anzi che il latino e il tedesco erano la stessa cosa, e addirittura che Roma fu una città germanica, proprio uno di questi filologi con tanto di documenti e di bei ragionamenti ti può dimostrare che nel popolo dei topi vigeva la legge sàlica. Niente maschi niente eredi. Le femmine: niente.
Diciamoci due cose anche noi sulla questione dei filologi tedeschi: ce n’erano che si erano montati la testa e vedevano origini germaniche dappertutto. Uno, che si chiamava Wilhelm Kuithan, aveva scritto un trattato dal titolo I Germani e i Greci: una lingua, un popolo, una storia risorta. E poi sentite quest’altro, un tale Ernst Jaeckel, ha scritto L’origine germanica della lingua latina. Già nei titoli c’è il delirio nazionalistico. Mah, sono gli stessi anni in cui si comincia a mettere insieme la teoria dell’origine comune dei popoli “indoeuropei”, chissà se il conte autore del nostro poema eroicomico sarebbe stato d’accordo…
Cosa non ti dimostrano questi alemanni? Per loro, dice il conte, un giorno sappiamo tutto delle cose oscure e l’altro invece no; sulle cose chiare, ecco che creano dubbi e paure e cortine fumogene: una cosa però è accettata da tutti, il mondo è frutto del seme tedesco. Ecco: spiritualismo, idealismo, astrazioni, religione, mitologie del mistero, nazionalismo popolare senza eroismo, queste nebbie che nel Romanticismo tedesco piacevano tanto il nostro conte le manda gambe all’aria con una risata bella e un po’ amara.
Dunque i topi afflitti dovevano in questa situazione difficile occuparsi della salvezza comune e impegnare tutti i loro pensieri soprattutto a provvedersi di un nuovo capo. Darsi un capo: crudele necessità è questa, che sottomette uomini e animali, e priva tutti, in cambio della vita, del maggior bene per cui la vita è viva, la libertà.
Decisero di non scegliere un re in via definitiva. E poi, non potevano. Era meglio allora differire tutto a quando fossero tornati nella loro città capitale Topaia, la cara patria dove non hanno asilo la paura le rane e l’acqua e i granchi barbari e nefandi; e il momento del ritorno, per fortuna, non era lontano. Una volta là, avrebbero sicuramente dimenticato tutto.
Si accontentarono, intanto, di affidare a una autorità militare il comando dell’esercito, di fargli curare il ritorno e di conferirgli il potere delle decisioni e delle azioni. Ecco, si comportarono come quando il mare si fa scuro e i marinai battuti dalla tempesta seguono gli ordini del capitano che governa la nave. Nell’epica, lettore, questa similitudine fra governo dello Stato e della nave la fanno sempre.
Fu eletto Rubatocchi e mille e mille topi si misero al suo comando: Rubatocchi, lui, che fu, come strombazza Omero, l’Achille dei topi. Aveva combattuto da dio: a lungo, per causa sua, tante rane vedove hanno pianto amaro e si dice ancora oggi che fra i ranocchi sia terribile il nome di Rubatocchi.
Figurarsi se una madre rana chiamerebbe Rubatocchi suo figlio… invece qui da noi – si rammarica il conte Leopardi – senti la voci dolci delle mamme italiane chiamare i figli Annibale ed Ermanno (Michael e Jennifer): così è cancellata la gloria, madre di tutte le lodi, chissà se per colpa e destino, almeno dai tempi del Rinascimento. Mancano Giuli e Pompei, Camilli e Germanici e Pii, bei nomi nobili con cui chiamare i bambini, quando il prete gli slavazza il ciuffo? Si potrebbe provare, così per vedere se qualche giorno il ricordo dei grandi gli instilla un po’ di valore, se mai saranno sconfitte le voglie indegne dal riso che infanga questi grandi nomi, quando li sentono in giro? Intanto, i turisti fanno apposta a farsi dei bagni nel Trasimeno, dove Annibale le ha suonate per bene ai Romani, e si ricordano con piacere di quella strage: una vittoria che non ha consolato i Cartaginesi, a dire il vero, che ci hanno rimesso Zama e Cartagine: quel turista là, che ama così poco questo bel paese, vada a nuotare anche nel Metauro e passi anche da Spoleto, già che c’è, dove sono stati i Romani a suonarle ai Cartaginesi.
Qua occorre spiegare: questo turista che amava le bellezze d’Italia e disprezzava l’Italia è Harold, il protagonista di un poema di lord Byron. Leopardi tutto sommato il suo amor di patria ce l’aveva,e poi, come abbiamo capito, non perde occasione per dare contro a un romantico. Byron aveva proprio detto così, che gli piaceva nuotare ricordando le vittorie di Annibale e i torrenti di sangue.
Ma come! Insiste il conte. Se anche noi italiani ci mettessimo a fare lo stesso gioco, potremmo andare e divertirci su molte spiagge, e anche riscaldarci con la legna di parecchi boschi e anche ammirare i tramonti su tante pianure e intanto ripeterci a memoria più di un alloro sia nelle nostre sia nelle terre loro.
Occorre spiegare anche qualcosa che hai già capito, lettore: il poema eroicomico è fatto di divagazioni continue, ogni argomento è buono per aprire una via secondaria del discorso. L’epica sì, quella è ordinata, compatta, serrata; la nostra povera storia è un guazzabuglio svagato di digressioni, di invettive, di libero sbracciarsi dell’umore.
Riprendiamo il conte, che ci sta spiegando come gli stranieri sentono l’odio nel petto quando viene fuori l’Italia e si fanno lieti di quelle antiche sconfitte, cosa peraltro che a loro non dà gloria. Molti popoli hanno sopportato dure vicende e si sono corrotti in tanto lunghe sofferenze, ma nessun’altra nazione come la nostra è tanto odiata. E questo avviene perché l’Italia invasa, serva, lacera è sì in una condizione sventurata, ma ciò che di più alto c’è nel mondo è comunque italiano, la gloria di Roma risplende tanto che oscura tutte le altre glorie possibili, e la superba Europa in realtà porta in sé l’orma dei nostri antenati romani. Non solo Roma classica ha resistito alla barbarie, con il suo lume mentale, ma l’Italia è tornata un’altra volta regina, vestita degnamente, ed è stato con il Rinascimento. E fu superiore al goffo straniero che oggi ride di lei, e i figli di questa regina sentivano di stare in terra straniera come in un esilio. Gli altri sentono che il loro passato e la loro memoria sono un nulla rispetto alla nostra, sentono che ogni patria è fanciulla rispetto a quella che eccede ogni grandezza e sanno bene che se non fossero strozzate nella culla le doti che le sono state concesse, se l’Italia non fosse serva, allora tornerebbe regina per la terza volta. Ecco il perché dell’odio implacabile, dell’ironico riso con cui offendono questa donna incatenata, abbandonata nella polvere, che non può difendersi né a parole né con le mani. E chi è più pietoso degli altri e accende qualche speranza fra i più illusi di noi, comunque non aiuterebbe l’onore italico, piuttosto difenderebbe i giudei. Eccolo lì il turista: sotto gli eccelsi monumenti romani, un pigmeo che guarda in su levando la fronte spensierata, dà delle bacchettate con il suo bastone da passeggio a rovine uniche al mondo, dondolando qua e là; si consola con lo scherno, lui che ha antenati che hanno servito quegli stessi che hanno costruito queste meraviglie. È logico che tutta questa grandezza generi in certa gente solo avversione.
Ma torniamo a Rubatocchi. Scese in campo di persona per prendersi cura dei suoi compagni e fece fortificare l’accampamento, in modo che la notte fosse sicura dagli assalti inaspettati e dal terrore; poi fece nutrire i corpi tremuli e languenti. Questo secondo fu un compito facile, i topi si accontentano di tutto.
Poi pensò bene di spedire un delegato per farsi spiegare dagli odiati granchi perché fossero intervenuti nella battaglia, se l’avessero concordato con le rane o no, se fosse un caso oppure una volontà espressa, se volessero avanzare o tornarsene in patria, se volessero dai topi la pace o la guerra.
Lettore, qui entra in scena uno dei personaggi chiave.
C’era nel campo il conte Leccafondi, signore di Pesafumo e Stacciavento, un topo raro, un portento di pensieri profondi e di sapienza: un gran giurista e un politologo esperto, uno che leggeva più di duecento giornali e che per studiarli aveva fondato nella sua città una sala di lettura apposita.
Gli interpreti, lettore, qui dicono che Leccafondi è il modello del liberale italiano – pensiero profondo, azioni utili e nobili, senti come lo testimoniano i nomi e i titoli patrizi – e che Leopardi qui prende in giro il gruppo del Gabinetto Viesseux e della rivista “Antologia” di Firenze. Un po’ lo deride un po’ lo ammira, questo topo-liberale. Può anche darsi, credo io, che nel Leccafondi ci sia anche un po’ del conte Leopardi, o almeno di quello che sarebbe potuto diventare, se avesse ceduto alle lusinghe di quei suoi amici fiorentini che l’avrebbero voluto dei loro. Questi fiorentini erano degli idealisti, degli illusi che credevano nella bontà delle loro idee più che alla realtà, e durante le rivoluzioni del 1831 nel Granducato le presero di santa ragione – anzi di santa alleanza.
Nella sala di pubblica lettura fondata da Leccafondi la regola imponeva che oltre ai giornali non ci fossero libri di più di due pagine, perché Leccafondi credeva che più di così uno scrittore non potesse dilungarsi per trattare come si deve degli universali bisogni politici, economici e morali. Però, indotto dagli amici e convincendosi lui stesso da sé, concedette asilo anche ai romanzi storici, e anche di otto o dieci volumi; e poi perfino alla poesia tedesca. Quest’ultima, come si è già dimostrato, è più antica di tutte le letteratura semitiche e sanscrite e Leccafondi sapeva che la via della modernità è questa, altro che Orazio, altro che le solite cose, si deve uscire dalla via trita e ritrita, le menti rare sanno come mettere tonni in campagna, maiali in mare. Innamorato delle arti tedesche, il conte Leccafondi, di questi antichi più antichi degli obelischi e delle piramidi, con un senso del bello più fino dei greci e dei romani. Bellissimi i libri della sua biblioteca, facevano un figurone, con certe copertinone ornate d’oro e di nastri: giusto così, perché nella copertina stava l’utilità, mica nelle pagine. E il museo, l’archivio, lo zoo, il giardino botanico, il portico dove si ergeva la statua colossale di Lucerniere, l’antico topolino filosofo, baffi enormi e coda gigante, sullo sfondo di un suo affresco: scalpelli e pennelli tedeschi, ovviamente.
Pensoso, filosofo morale, filotopo. Leccafondi lodava la natura per avere dimostrato la sua grandezza creando il topo. Il topo: progresso, genio, condizione gloriosa nel centro dell’universo. Il conte Leccafondi amava il topo e ne esaltava intelligenza e civiltà, e soprattutto trovava conferma della sua grandezza nelle penne rapide dei giornalisti. Che cosa fa grande il topo? Ipotesi, sistemi e sentimento. Che cosa ne spegne e ne turba la coscienza? Analisi, ragione ed esperienza.
Vedi, lettore, il conte Leopardi stava dalla parte dell’analisi, della ragione e dell’esperienza, quegli altri sono i fondamenti dell’idealismo e del Romanticismo e lui ci ride sopra. Pensa, lettore, che a Napoli c’era una rivista che si chiamava “Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti” e tanti Leccafondi che detestavano il materialismo radicale del nostro poeta. Lui ci rideva sopra, ed era anche un po’ malinconico.
Intanto, Manzoni e altri scrivevano i loro lunghi romanzi storici, lui aveva scritto solo le Operette morali: pensa, il romanzo di Manzoni e le Operette sono uscite a Milano nel giugno del 1827, insieme, una gran coincidenza ha avvicinato i due capolavori all’origine della moderna prosa italiana. Renzo alla fine del romanzo diventa un piccolo imprenditore con la sua fabbrichetta lombarda e le sue chiacchiere a vuoto, Tristano/Leopardi alla fine delle Operette capisce che non lo ascolta nessuno, ma non smette di sostenere quanto superbo e sciocco è questo suo secolo illuso.
Buon topo, il Leccafondi, senza ipocrisia, schietto e amante della verità, forse un po’ troppo incline ai maneggi della politica e habitué dei palazzi che contano; democratico, affabile e umano; uno che si cura poco dell’avere e molto dell’onore, generoso e amante della patria.
Era un diplomatico che aveva già servito da ambasciatore presso le rane; durante la guerra era tornato fra i suoi dimorando tra i soldati con loro sotto le tende, alla fine fu uno dei salvatori dell’esercito impegnandosi nella gran fuga.
Chi meglio di lui per l’ambasceria dai granchi?
Lui accettò, ovviamente, per quanto considerasse dentro di sé i rischi di andare in mezzo a quei barbari dei granchi.
Era stanco, prostrato e bisognoso di riposo, ma pretese di partire subito: dormì solo un poco sull’erba molle e a notte fonda con pochi servi lasciò il tacito colle e i topi sonnolenti, e per l’erma campagna il cammin prese.