Le vetrine delle librerie parigine espongono libri e foto di Jean-Paul Sartre. Commentano la Mostra che la Bibliothèque Nationale ha dedicato al filosofo nel centenario della nascita. Compendiano – per immagini, copertine di libri, foto d’epoca – l’avventura di un intellettuale che ha sempre cercato di essere “in situazione” e ha attraversato il suo tempo mettendosi in stato di ascolto. Ascolto della storia: del suo rumore, delle sue ferite. Al Catalogo della Mostra -in copertina il ritratto del filosofo “liberato” artificiosamente dalla sigaretta- fa riscontro, con sobrietà e correttezza di testi e immagini, il bel volume a cura di Michel Contart, già curatore delle opere letterarie di Sartre per la Pléiade e, insieme con Alexandre Astruc, coautore del film-intervistaSartre par lui-même (1976).
Seguendo la scansione di questo libro, si vedono scorrere le scritture e le polemiche, i viaggi e le posture, gli amori e le prese di posizione di Sartre. Se ci chiediamo quale sia il volto del filosofo che appare più in sintonia con il nostro tempo, più prossimo alle domande del nostro tempo, dovremmo rispondere che è certo difficile individuare tale volto, tanto poliedrica fu l’attività intellettuale di Sartre e tanto diversi tra loro sono stati i lettori e gli interpreti del filosofo. E tuttavia un volto appare per così dire più contemporaneo, forse anche più necessario: il Sartre critico del conformismo delle opinioni, che cerca di congiungere passione politica e scrittura, intelligenza del mondo e invenzione. Mentre cerchiamo di riandare ai passaggi più rilevanti del pensiero di Sartre, si affollano le immagini di una vita tutta dispiegata “in pubblico”, per la quale anche l’intimità poteva trasformarsi nel romanzesco, l’amicizia nella disputa e nella polemica, la passione politica nell’atto scenico, il viaggio nel reportage. Sartre è stato forse l’intellettuale del Novecento europeo che più di altri ha spinto la passione per il sapere – autentica, e persino ascetica – sulla soglia della visibilità, ma ha anche dislocato la ricerca interiore sul piano della narrazione, trasferito la ricerca teoretica e la posizione politica nel teatro. Questo giocarsi in pubblico, costantemente, faceva parte dell’idea di “impegno”, era l’aspetto visibile, e per così dire infaticabile, dell’impegno.
Ricordo che, per me studente, la lettura di Sartre contribuì, insieme alle prime letture dei filosofi francofortesi, alla formazione di alcuni convincimenti intorno alla critica, da intendere come interrogazione inquieta, insieme analitica e appassionata. Ma ricordo anche che, più di Sartre, era Camus ad attirare la mia adesione: per tensione di scrittura, per eleganza di stile, e perché più esposto, meno concluso, più meditativo, separato com’era sia dalla preoccupazione della “posizione” filosofica sia dalla necessità dell’adesione politica a un’istituzione, a un partito, a una causa attuale e gridata. Per questo, anche se, come tanti della mia generazione, ho a lungo indugiato sui libri di Sartre, era piuttosto Camus che annettevo a quel personale cammino, fatto di passaggi e balzi, che chiamiamo formazione.
Da Sartre, certo, emanava il fascino di una vita che tendeva a coincidere con la vita intellettuale, che non separava pensiero ed esistenza, affermazione di libertà ed esperienza di libertà, teoria dell’ “engagement” e gesto, indagine filosofica e scelte di vita. Tutto questo era accompagnato da una mitografia, alimentata dallo stesso autore, affidata a ricordi, a pubbliche situazioni, a un ventaglio di immagini. Il giovane studioso dell’Ecole Normale, grande amico di Nizan, e compagno di studi di Aron, Hyppolite, Canguilhem. Il giovane professore nei licei di provincia che s’affanna, disperandosi, attorno a un romanzo-saggio che gli editori rifiutano. Lo studioso berlinese che segue Husserl bagnandosi nelle acque della fenomenologia e presto se ne allontana accogliendo passaggi importanti della filosofia di Heidegger. Il filosofo assiduo che medita sulla coscienza come coscienza di libertà e, in parallelo, scrive la Nausea. L’uomo che costantemente confronta la sua ricerca, la sua scrittura, con una donna, che è compagna e interlocutrice, Simone de Beauvoir, presenza tanto più attiva quanto più in scarto con i ruoli previsti per una donna e per una scrittrice. E ancora: Sartre soldato e prigioniero nella “drôle de guerre”, poi fondatore, finita la guerra, della rivista “Les temps modernes” (nel primo numero, con lui, Aron, Ponge, Merleau-Ponty). E, qualche anno dopo, Sartre figura centrale della moda esistenzialista, che ha i suoi ritrovi, il suo jazz -tra bee-bop e free-jazz – e ha le sue canzoni (Boris Vian, di quella stagione, andava raccontando una sorta di epica immaginosa e arrischiata). Ogni grande evento successivo avrebbe motivato una nuova congiunzione: Sartre e i fatti di Ungheria, Sartre e la guerra d’Algeria, Sartre e Cuba, Sartre e il ’68 parigino ecc. E c’è, prima ancora di tutto questo, l’autore di opere filosofiche largamente discusse, che cerca di costruire un’ontologia esistenzialista (L’essere e il nulla, 1943) o cerca di integrare l’esistenzialismo nel marxismo (Critica della ragione dialettica, 1960) o scrive saggi fondamentali come L’esistenzialismo è un umanesimo (1946). Come c’è l’autore di belle narrazioni e di un teatro che è insieme inchiesta e racconto, polemica e drammaturgia.
Quel che di Sartre a me, e credo ad altri della mia generazione, poteva apparire se non ambiguo almeno esteriore, era il rapporto con la letteratura, in particolare con la poesia. Certo, la traduzione italiana dei saggi di Che cos’è la letteratura? poteva a suo modo contribuire a dissipare le ultime fiammelle dello storicismo crociano (ma più contribuivano i critici della “nouvelle critique” francese e un loro antesignano come Bachelard). Ma appariva dominante in Sartre la linea di difesa e di distanziamento dal “nuovo”, dalla centralità che andava prendendo lo studio del linguaggio, delle sue forme, della sua vita. Come era evidente l’estraneità di Sartre all’ermeneutica del testo letterario, delle sue forme, del suo ritmo. Insomma Sartre poteva intendere benissimo Genet, il suo personaggio, il suo teatro, la sua narrativa, ma dinanzi a Céline faceva prevalere il giudizio politico. Inoltre dinanzi a classici come Baudelaire ripiegava, con un piglio troppo assertorio, su una lettura “intima”, privilegiando lo scandaglio della psiche, della colpa, della confessione, delle relazioni parentali, piuttosto che l’ascolto della poesia. Preferiva la biografia “interiore” -biografia supposta, e comunque schematica e di esteriore psicanalismo- all’interpretazione della scrittura. Sartre si accostò alla poesia o da filosofo o da politico, chiedendo ad essa conto del suo rapporto -visibile, concreto- con la storia. Tuttavia, nell’orizzonte straordinario del suo impegno, operò perché si potessero mostrare sogni e grida di una poesia della “negritude”, e testi di poeti appartenenti a paesi colonizzati (l’antologia “Orfeo negro” e le relazioni con gli scrittori della rivista “Présence africaine”). Si può dire, insomma, che Sartre osservò con curiosità e interesse il linguaggio della poesia, ma sostando al di qua della forma, della sua complessità: quasi dovesse difendersi dalla possibile seduzione della forma. Infine, la passione del filosofo e dell’interprete, l’attitudine del narratore e dell’analista si misurarono a lungo su Flaubert, lo scrittore che da sempre era stato sentito allo stesso tempo come prossimo e avverso, come alter ego ed estraneo. Ma anche in questa lunga ed estrema ricerca, quel che muoveva l’analisi era la volontà di conoscere l’autore più che la sua arte, l’uomo più che lo stile, l’esistenza individuale più che la forma.
[Questo articolo è comparso in Liberazione del 10 aprile 2005]