Come mai non sono stato respinto da quel carcinoma marrone che costituisce la facciata della Natività? Avrei dovuto esserlo. Mentre non c’è nulla di innaturale nell’attrazione esercitata dalla facciata della Passione, con quelle sculture di Subirachs meravigliosamente vere nel loro irrealismo, nel loro straniamento post cubista dislocato equilibratamente in spazi ampi e lineari, puliti. Troppo puliti: Subirachs è dolente laddove Gaudì era “disposto a sacrificare la stessa costruzione, a rompere archi, tagliare colonne, al fine di dare un’idea di come sia cruenta la sofferenza”. Gaudì avrebbe voluto, insomma, qualcosa di simile a una Passione secondo Mel Gibson, tanto che aveva scelto di iniziare dall’altro lato perché se avesse iniziato i lavori con la costruzione di questa facciata “la gente si sarebbe fatta indietro”. C’è una compostezza, in Subirachs (e nel discepolo di Gaudì che ha disposto le quinte), una nobiltà, una limpidezza, una classicità d’intenti nonostante la modernità del lavoro, che ne fanno il meno gaudiano degli artisti. Molto più vicino a noi.
Ed è ovvio che certi interni, candidi e soffici, con nervature solo accennate, disegnate più che scolpite, mi abbiano fatto sentire a mio agio. In quanto alla Cappella del Rosario, per un salentino è un invito a nozze, con quel disteso barocco fiorito – più vicino però al barocchetto di Martina Franca che a quello leccese. Per non parlare di altri edifici: le decorazioni fiabesche, come il mosaico in pasta vitrea sulla facciata di casa Batllò, risultano accattivanti anche per il più gelido razionalista.
Ma la Natività! Anche a non soffermarsi su lumaconi e lucertoloni, l’impressione di una colata che di gotico ha ben poco e ancor meno di barocco (anche se il barocco spagnolo è più opprimente e terrifico di quello italico) e trova ascendenze solo in certe grottesche da nuovi ricchi d’altri secoli, dovrebbe disgustarmi, a pelle, indipendentemente dalla comprensione della filosofia del creatore, della sua peculiare spiritualità, del carattere necessariamente cupo e labirintico di un tempio espiatorio. Per tutto questo c’è apprezzamento – e meraviglia – cerebrale, ma non scatta nessuna rispondenza intima.
Perché quel blob mi risultava familiare, dunque?
La risposta è venuta a casa, al ritorno: è bastata una passeggiata appena fuori dal paese per ritrovarmi circondato dal neogotico catalano. Critici ed esegeti hanno rintracciato decine di corrispondenze tra le forme gaudiane e quelle della natura. Le inorganiche: le schiumose riproduzioni di un moto ondoso. Le animali: le squame, gli interni “da carapace”, la “plasticità callosa e antigeometrica delle strutture ossee sorrette da giunture cartilaginee” (qualcuno mette in rilievo la stupefacente somiglianza non già alle strutture naturali vere e proprie ma alla rappresentazione che se ne fa in alcune tavole della “Morfologia generale degli organismi” di Ernst Haeckel; altri notano l’eccezionalità del riproporsi di forme e cromie del mondo sottomarino, a partire dalle “qualità e le pulsioni della medusa”, invece di quelle degli elementi naturali che l’architetto poteva avere normalmente sott’occhio). Le vegetali: in ogni guida si ricorda l’utilizzo di calchi delle forme vegetali presenti negli immediati dintorni delle costruzioni; e ovviamente, appena ci si volge a considerare la volta delle navate, viene richiamato l’intreccio delle chiome degli alberi. Nell’esposizione “Gaudì, Gioire della natura” si esibiscono molte piante, si parla dei galbuli del cipresso, dei cirri dei rampicanti.
Ma di un accostamento non c’è traccia nei manuali: la derivazione dall’ulivo.
Probabilmente non è l’ulivo il primo albero a cui si associa la Catalogna. Eppure, cosa c’è di più somigliante ai tronchi dei nostri ulivi? Non parlo di ulivi toscani o liguri, ma di quelli che vengono su in Puglia, specie in prossimità del mare. In quei tronchi c’è tutta la facciata della Natività: colore, rugosità, escrescenze, slabbrature della corteccia, gobbe zoomorfe o antropomorfe, polloni, noduli, cordoni che percorrono il tronco, sinuosi come i serpenti-doccioni dell’edificio, e, tra le varietà di squarci, gli “occhi”, le cavità ovali presenti sui nodi. C’è il “senso colante, come di sabbia bagnata e rappresa” di certi mammelloni, abbondano le torsioni e l’inclinazione dei fusti (ma qui il richiamo è alle colonne dell’altra facciata o alla cripta della colonia Guell). E, soprattutto, come in nessun altro fusto, si manifesta il tormento. Come nella costruzione del tempio – volutamente sacrificale – un lavorio sordo, lento ma senza pause, una caparbia, inarrestabile pulsione vitale, una proliferazione inconsulta singolarmente accostata a una rocciosa persistenza, a una pretesa di eternità.
Sono le parole stesse di Gaudì a confermarlo: Mas de la Calderera, il luogo dell’infanzia, dove aveva goduto “delle immagini più pure e più piacevoli della natura, che fu sempre la sua maestra”, era “rodeado de vinas y olives”.