I Gamuna sono filiformi, con la testa ovale e lo sguardo tremolante; i maschi indossano cappellacci tutti schiacciati sul cucuzzolo e camminano in modo ondoso. Le donne sono invece carnose, dotate di seni prosperosi e sguardo fiero, a volte persino voluttuoso, da “civetta losca”, come dicono gli uomini. Abitano in un deserto sabbioso che si può percorrere con molta difficoltà, perché formato da placche d’argilla che appena piove si trasformano in pantani. La loro abituale residenza è una vasta pianura vicino a un massiccio basaltico, la falesia, anche se poi vivono in una città abbandonata da un altro popolo, fatiscente e cadente, luogo incalzato dalla vegetazione, dove ci sono palazzi, alberghi, negozi, caseggiati e molte macchine inutilizzate sui bordi delle strade. I Gamuna sono visitati da sogni e allucinazioni che ne determinano i pensieri, le espressioni, la vita cosciente. Il più famoso è chiamato Fata Morgana, un miraggio del deserto prodotto dalla stratificazione dell’aria con densità crescente verso l’alto, in presenza del riscaldamento dei terreni. Questa apparizione induce i Gamuna, e i rari viaggiatori che li visitano, a vedere cose che non esistono; in modo simile, le donne, ma a volte persino gli uomini, entrano la notte in una realtà di sogno, complessa e intricata, abitata da personaggi mitici e spropositati, dove accadono incontri sessuali.
Il paese dei Gamuna, Gamuna Valley, è il protagonista di un inconsueto romanzo etnografico, Fata Morgana, scritto da Gianni Celati tra 1986 e il 1988, pubblicato solo ora, dopo che lo scrittore in Africa, terra a cui allude il nuovo romanzo, c’è andato davvero, e più volte: gli ha dedicato un libro di viaggio, Avventure in Africa (1998), e ha iniziato da poco a girare un film-documentario in Senegal con un attore locale. Celati vive appartato, in Inghilterra, dove è andato a risiedere parecchi anni fa, dopo aver lasciato l’insegnamento universitario a Bologna, scuotendo la polvere dai propri calzari. Da allora manda rari, ma precisi, segnali: una traduzione, una prefazione, un libro di racconti, un romanzo, ma anche film. Ne ha girati quattro, documentari passati in televisione alla sera tardi, e che purtroppo hanno visto in pochi. In questi giorni compare il suo nuovo racconto utopico che fa corpo con i due precedenti libri, il diario del suo viaggio in Senegal, Mauritania e Mali, uscito nel 1998, e Cinema naturale del 2001, che contiene tra le altre cose un racconto ambientato proprio nelle regioni allora percorse e di cui si parla già in Avventure in Africa.
Come ha detto qualcuno, Celati è uno scrittore che ci “fa guardare un racconto con un altro racconto”. Il che significa che si muove dentro la dimensione narrativa, ne definisce i confini, eppure cerca sempre di uscirne, e in questo modo produce ogni volta un nuovo racconto. Gianni Celati è lo scrittore più letterario che vi è oggi in Italia, e al tempo stesso è quello che ne mette in discussione radicalmente il mito, ne mostra tutti i limiti. Celati aspira a una forma di vita che è al di là della letteratura stessa, o più probabilmente prima di essa, e che cerca di raggiungere attraverso la parola, il racconto; per questa ragione è uno scrittore di culto, molto amato dagli scrittori giovani, ma anche da tanti lettori comuni che intendono molto bene il messaggio contenuto nei suoi libri: la vita e la letteratura hanno uno strano rapporto dal momento che entrambe si nutrono di cerimoniali, di riti, ovvero di racconti; vivere significa intessere racconti e raccontare è il modo migliore per appaesarsi nella nostra sconclusionata vita. Celati ha sempre dato molta importanza alle parole, al linguaggio, alla tonalità del fraseggio. I Gamuna, di cui un misterioso narratore insediato in una cittadina francese racconta la storia in Fata Morgana, ricorrendo ai taccuini di due strani esploratori – Victor Astafali, antico compagno di università in Inghilterra, e sorella Tran, suora vietnamita – è un popolo di parole: ci appare attraverso le parole dell’inattendibile voce narrante e molto della loro vita è costituita da parole, a partire dalla loro misteriosa lingua.
Ogni frase di Fata Morgana è come se fosse preceduta da una sorta di refrain invisibile: “Si dice”. Celati fa il verso agli antropologi europei, a tutti coloro che, a partire da Malinowski, fino ad arrivare a Lévi-Strauss, hanno visitato l’Altrove, le società lontane, – Africa, Asia, America, Oceania – per cercare di capire il vicino: gli Altri come strumento per comprendere il Noi. In questo modo rovescia, tenendone tuttavia conto, il senso stesso dell’operazione etnografica del Novecento: i Gamuna siamo noi stessi, visti dal punto di vista dell’Altro. I luoghi abitati da questa misteriosa e strana popolazione, di cui sappiamo qualcosa attraverso i taccuini, i resoconti e gli appunti di un aspirante etnologo, innamorato perdutamente di una bellissima donna locale, e di una suora, ricoverata in una casa di cura per malattie nervose, non sono altro che le nostre città, le nostre slabbrate e caotiche metropoli. In questo modo Celati si muove sulla lunghezza d’onda di narratori utopici, o distopici, come Swift, di cui egli ha tradotto I viaggi di Gulliver, o Italo Calvino, l’autore delle Città invisibili, con cui s’imparentano i 16 capitoli del libro, divisi ciascuno in 12-15 brevi paragrafi, piccoli poemetti in prosa, il cui modello stilistico prevalente non è però la poesia, bensì il racconto orale, la fiaba dei narratori anonimi che s’immergono nel regno del “sentito dire”.
L’Africa immaginaria e fantasiosa di Celati è il contrario del continente visitato da un altro viaggiatore, Alberto Moravia, in A quale tribù appartieni?, che vedeva nel continente nero il luogo preistorico per eccellenza, alterità e naturalità assoluta. Per Celati non c’è nessun Altrove, non perché il mondo sia tutto omologato, o identico, ma perché ovunque andiamo noi occidentali, portiamo sempre con noi le nostre fissazioni, il nostro razionalismo, il bisogno di spiegare e di possedere ogni cosa. L’eccesso di spiegazioni è la molla segreta che spinge il folle e anonimo narratore del racconto di Fata Morgana a descrivere costumi sessuali inusuali, forme di comunicazione inverosimili, fantastiche genealogie, consuetudini alimentari e forme di parentela bislacche e sbilenche. Nel mondo dei Gamuna tutto appare illusorio, frutto di un miraggio: un’apparizione. Gli abitanti della misteriosa Valle contraddicono ogni nostra certezza, a cominciare da quella di vedere dall’alto, in modo prospettico, il paesaggio; in quanto discendenti di un eroe-zanzara, i Gamuna sono legati al suolo, allo sguardo basso.
Il racconto, vero e proprio “romanzo filosofico”, ha un andamento divertente, comico, ma insieme melanconico; è pervaso da quel sentimento che permette di guardare le cose con partecipazione e allo stesso tempo con estraniazione, nella convinzione che ogni cosa sia perduta, ma che la possiamo sempre far rivivere nella nostra fantasia attraverso il racconto. La malinconia non è intesa da Celati come desiderio dell’oggetto perduto, ma come desiderio di perdere la “cosa” per poterla poi adeguatamente rimpiangere. La malinconia di Celati è imparentata con lo Spleen di Baudelaire, sentimento poetico che riesce a far convivere il bisogno di conoscenza del mondo, e degli uomini, con una tristezza vitale, che è poi la forma di agitazione intima propria di ogni vero viaggiatore.
Nella nostra letteratura di viaggio, in quel piccolo ma sostanzioso scaffale dei viaggi italiani in Africa, questo nuovo racconto fantastico, insieme al precedente taccuino, costituisce un capitolo davvero originale raffrontato con le esplorazioni di Marinetti, Ungaretti, Cecchi, Moravia e Bianciardi. L’occhio del viaggiatore in Fata Morgana non si perde nella malinconia dell’Altro, nell’esotismo del Diverso, ma rivolge lo specchio ustorio della conoscenza verso se stesso, ridendo continuamente delle proprie bruciature.
[Pubblicato in La Stampa il 10 febbraio 2005]