Giorno di mercato ad Ankober. Lo capiamo subito dal numero di persone che percorrono l’ultima parte della pista cariche di ogni genere di merci. Lungo la strada ci siamo chiesti più volte se… ci sembra di essere già stati lì… ma molte zone si somigliano allontanandosi da Addis Abeba in direzione nord. Procediamo pensando di essere in errore, fino a quando non arriviamo alla piazza centrale. Lì non abbiamo più dubbi. La folla accalcata intorno al mercato degli animali e, in fondo, la distesa dei cammelli, accoccolati nella loro strana posizione di riposo, ancora con il basto sulla gobba: è il mercato, che ci toglie ogni dubbio, più degli edifici e della strada. Gli edifici e le strade si somigliano. L’ordine rigoroso con cui viene organizzato lo spazio degli animali, invece, nella piazza delimitata dalle costruzioni in legno porticate, è distintivo. Una gita con amici dopo pochi giorni che eravamo arrivati in Etiopia. Non avevamo nessun progetto allora, eppure, superato il mercato, seguendo la strada acciottolata che scende dentro all’antico cratere, qualcuno ci aveva detto che laggiù… solo una mano protesa… verso la chiesa poligonale dal tetto di lamiera che si vedeva in lontananza, c’erano stati gli italiani. Ma era tardi; non c’era tempo per divagare.
Oggi è diverso; oggi siamo venuti per questo. Iniziamo a chiedere e a ricevere informazioni nel modo in cui si fa in tutta l’Africa. La prima persona che incontri non è mai informata, ma non ti lascerà mai andare. È sicura di conoscere qualcun altro che ha più informazioni e perciò sale in macchina con noi. Trova la seconda persona e questa a volte sa e a volte non sa; ma conosce comunque una terza persona che è perfettamente informata. Non contiamo il numero di passaggi, ma infine c’è sempre la persona giusta che sa tutto, ti dà tutte le informazioni e spesso ti accompagna esattamente dove vuoi andare. Oggi è una donna che viaggia in fuoristrada con un uomo e casualmente va nella direzione che a noi interessa.
La seguiamo lungo la pista che abbiamo già fatto e riporta a Debre Berhan, ma si ferma dopo circa 10 chilometri da Ankober, nel punto che avevamo ammirato perché la strada corre quasi sul ciglio del cratere. Ci mostra la mulattiera… impossibile andare con la Toyota… e la direzione. Proprio lì dove abbiamo parcheggiato sorge una costruzione in legno e fango per dare ristoro ai viaggiatori. Salutiamo la signora in fuoristrada ed iniziamo a chiedere informazioni. Circa due ore per andare, altrettanto, forse più, per tornare. La direzione che ci indicano con la mano fa pensare che dobbiamo scendere nella caldera e risalirla dall’altro lato. Calcoliamo a mente che le nostre condizioni fisiche sono peggiori di quelle di chi ci dà le informazioni. Oggi è impossibile, è già troppo tardi. Torneremo domani, di buon’ora. Un ragazzo promette che ci accompagnerà.
Da Ankober a Debre Berhan è circa un’ora di pista in Toyota. Nella Guida dell’Africa Orientale Italiana del 1938 si parla di 8 ore, ma la strada era classificata come carovaniera. Trovate le stanze, ci rimane il tempo per un giro della città e per una sosta in un locale dove si vende arakè… “Il migliore di tutta l’Etiopia!”, ci garantiscono i nostri amici etiopici, e dopo averlo assaggiato e riassaggiato non abbiamo più dubbi. La donna che gestisce il piccolo locale ci porta anche nel retro, per vedere la piccola distilleria con cui lo produce. Torniamo alle stanze che è già notte e non abbiamo problemi ad addormentarci.
Ci svegliamo presto. Solo il tempo per bere un caffè. La strada è pesante e non vogliamo farla con il sole a picco. Ma qualcosa trama… forse per aiutarci, forse per ostacolarci… il cielo è limpido nella direzione in cui andiamo, ma una parte dell’orizzonte è buia di nubi pesanti. Non ci stupiamo… è febbraio; in questo periodo dell’anno ci sono le piccole piogge, ma ieri il cielo era limpido e speravamo che il tempo si mantenesse. Comunque per ora la minaccia è solo teorica. Sopra il cratere il cielo è pulito. Il ragazzo è là, ma c’è un gruppo di uomini che sta per partire… vanno esattamente dove vogliamo andare noi, debbono portare del carburante al villaggio. Andremo con loro.
Iniziamo la discesa lungo un sentiero degno delle Dolomiti che rovina a valle come una successione di frane. Le nostre guide trasportano le loro taniche blu piene di carburante. Noi i nostri zaini con acqua, cibo, macchina fotografica e poco altro. Dopo la prima mezzora cominciamo ad avere una precisa percezione dei nostri alluci, schiacciati contro la punta degli scarponi. Le nostre guide non hanno questo problema, portano i soliti sandali fatti con fettucce ottenute tagliando pneumatici di automobili.
Passata la prima mezzora il pendio diventa più dolce e le nostre guide cominciano ad additarci la nostra destinazione. Non dobbiamo risalire la caldera. Il punto che sembrano indicare non è troppo distante dalla chiesa con il tetto in lamiera. Dovremo scendere ancora verso un vallone, risalire una collinetta all’interno del cratere e poi scendere ancora dall’altro lato. Tiro fuori la guida degli anni ’30 ed inizio a leggere… come posso, non conosco l’amarico… i nomi delle località di riferimento: bosco di Aferbàini, valletta di Mahaluònz, contrafforte di Ascaléna. All’inizio mi guardano interrogativi, poi qualcuno inizia a capire un nome. Infine ce li additano. La strada che stiamo seguendo non è quella riportata nella guida degli anni ’30. Si può andare anche di lì, ci dicono, ma è più lunga. È un sentiero che inizia molto più vicino ad Ankober. Del resto, se negli anni ’30 occorrevano otto ore per andare da Debre Berhan ad Ankober, non è pensabile che prima di arrivare ad Ankober prendessero scorciatoie per Let Marefià, senza fermarsi per la notte.
Proseguiamo. L’ultimo tratto di discesa somiglia ad un fondovalle alpino. Ormai siamo almeno 200 o 300 metri più in basso (secondo la guida Ankober è a 2.815 metri s.l.m. e Let Marefià a 2.408) e le pareti della caldera proteggono dai venti. Il paesaggio diventa verde e il sentiero punta diretto verso la collinetta che abbiamo visto da lontano, che ha ai piedi un villaggio di poche case. Continuiamo… una breve salita e poi di nuovo a tuffo verso le parti più profonde della caldera.
Lungo il cammino abbiamo provato più volte a spiegare cosa cerchiamo, tramite i nostri amici etiopici. Le nostre guide hanno sempre assentito. Sanno bene di cosa stiamo parlando. Questa intesa ci rallegra… se sanno cosa cerchiamo, allora qualcosa è rimasto. Durante una sosta rileggo la guida degli anni 30:
“Nel 1876 la Soc. Geografica inviò nello Sciòa una spedizione capitanata dal march. Orazio Antinori con l’incarico di fondarvi una stazione geografica ospitaliera secondo gli accordi di Bruxelles, stazione che avrebbe dovuto servire quale base per l’esplorazione dei laghi equatoriali. Menelic aveva promesso una concessione, ma non mantenne la promessa. Mons. Massaia cedette allora, col permesso del re, il terreno che aveva in godimento a Let Marefià. La stazione, fondata nel gennaio 1877, comprendeva varie capanne circondate da fiorenti coltivazioni; essa fu per molti anni luogo di riposo e d’incontro di viaggiatori italiani e stranieri e un focolare di civiltà e di scienza. L’Antinori vi moriva il 26 ag. 1882. Gli successe nella direzione il co. Antonelli, poi il Dr. Ragazzi e finalm. Il Dr. L. Traversi. Quando, nel 1894, il Traversi tornò in Italia con il Col. Piano, ne resse le sorti l’Ing. Capucci, che, accusato di spionaggio, fu condannato a morte, poi graziato. Il peggiorare dei rapporti tra l’Italia e Menelic fecero sì che Let Marefià venisse completam. abbandonato nel 1895.
A un centinaio di passi dal luogo della stazione geografica è un grande sicomoro che ombreggia un piccolo tucul sormontato da una croce, la tomba del march. Orazio Antinori, venerata anche dagli indigeni, che la rispettarono anche nei periodi più infausti per l’Italia”.
Le nostre guide ci lasciano per consegnare le taniche di carburante, ma ritornano dopo pochi minuti. Chiedo se vogliono venire con noi o preferiscono tornare subito indietro. “Siamo quasi arrivati!”, ci dicono, e riprendono il cammino.
Mentre scendiamo, attraversiamo un altro villaggio, altre case. Le nostre guide chiamano a voce alta per segnalare la loro presenza. A momenti attraversiamo pezzi di terra coltivati, percorriamo sentieri che sfiorano abitazioni. È come entrare nei sogni di un’altra persona. Riceviamo saluti, strette di mano; qualcuno, dopo aver parlato in amarico con le nostre guide, decide di seguirci.
Il tempo sta cambiando. Il sole è ormai coperto dalle nuvole. A momenti mi sembra che la nebbia risalga il pendio e ci raggiunga dalla valle dell’Awash (Auàsc nella guida degli anni ’30); in altri momenti mi sembra che scenda lungo le pendici della caldera. La strada che abbiamo fatto per arrivare è ormai immersa nel bianco.
Attraversato il villaggio, seguiamo un ruscello, coltivi… poi le guide puntano dritto verso uno shola immenso. “È lui!”, penso, il sicomoro di cui parla la guida degli anni ’30. Non ce ne sono altri intorno. Deve avere almeno 300 anni. Abbiamo impiegato circa un’ora e mezza, per scendere. Ma il ritorno sarà più duro. Ci avviciniamo all’enorme tronco contorto, al centro di un grande appezzamento coltivato. Intorno alle radici, spesse come membra umane, un sottobosco di spini di forse 50 metri quadrati.
Inizia una pioggia sottile che imperla gli occhiali… ma ormai siamo in mezzo alle nuvole. Non so più se sia pioggia o semplicemente vapore che ci si condensa addosso. Mi avvicino ancora… ormai siamo a circa 10 metri. Non si vede nulla. Inizio a girargli intorno. Subito al di là dello shola riprende il pendio più forte. Sembra che sia quell’albero a impedire alla vallata di franare completamente verso l’Awash. Girando risalgo ancora, fino a ritrovarmi dove gli altri sono rimasti; ormai siamo circa in venti, il villaggio è alle spalle, di fronte lo shola e l’ammasso di spine. La mia vista si affanna oltre la superficie dell’incolto, dentro la siepe. Taglio qualche ramo con il coltello. Pietre. Un ammasso di pietre, uno scavo che sembra più lungo e profondo. Una delle nostre guide mi mostra un sarmento di rosa. “L’hanno piantata gli italiani”.
Parlo con gli amici etiopici. Gli chiedo di domandare. Se sono sicuri che sia quello il posto. Se sanno chi è sepolto lì. Come mai non c’è più il tucul. Insisto a chiedere.
Nessuno ha mai visto il tucul in piedi. Chi vive qui sa che sotto il sicomoro c’è gente sepolta… Gente? Ma c’è solo Orazio Antinori! No. Qui dicono che ci sono tre o quattro persone sepolte lì. È questo il motivo per cui nessuno lavora la terra sotto lo shola.
La gente del villaggio e gli altri che sono venuti con noi parlano bisbigliando, forse perché rispettano quel luogo o forse perché siamo ferenji e pensano che è meglio se non sentiamo quello che dicono. Il silenzio, la nebbia, le pietre ammassate e l’assenza di qualsiasi certezza, o reperto, mi ricordano qualcosa lontano. Avrei dovuto capirlo prima. L’occidente cerca evidenze, prove, solide sicurezze, fatti, oggetti… in assenza di lapidi alla memoria. Qualcuno ci dice che se portassimo via i resti che sono lì sotto, la gente del villaggio potrebbe lavorare quella terra incolta.
Mi chiedo cosa sono venuto a cercare fin quaggiù. Ancora una prova della presenza italiana in Etiopia? Qualcosa che risale a prima della nascita di Addis Abeba? La traccia di una presenza? Non ho trovato nulla di tutto questo… o forse sì, una rosa, non ne ho viste altre lungo il nostro cammino, spero che almeno, pur nella sua nobiltà, abbia la forza suggestiva della ginestra di Leopardi… e una memoria africana, orale, tramandata di padre in figlio, che ha reso tabù lo spazio sotto lo shola. Un segno di rispetto che accomuna i morti etiopici ai morti ferenji, come in Italia si rispettavano le aie sante, i luoghi nei quali l’aratro aveva portato alla superficie ossa umane. Non si sapeva cosa fossero, né di chi fossero quelle ossa, ma si lasciavano incolti.
Qui è qualcosa del genere. La gente intorno a noi non sa che siamo italiani, o forse lo sa perché qualcuno lo ha detto e stavano ascoltando; ma è solo una notizia in più, che non li interessa. Siamo ferenji, bianchi, occidentali… questo è più importante, perché significa qualcosa di diverso. Forse regaleremo loro qualcosa, forse li pagheremo per averci portato a quello shola o per qualche altro servizio. La retorica della presenza italiana in Etiopia, con le strade costruite, le stragi perpetrate e l’obelisco ancora eretto davanti al Circo Massimo, appartiene ai governi. La gente comune, coloro che vivono del proprio lavoro non pensano che gli italiani siano diversi dagli altri ferenji.
Sono pochi a mantenere la memoria della guerra coloniale. Invece il confronto dei modelli di vita è ormai quotidiano; tramite la televisione, il turismo, le testimonianze di chi ha viaggiato e l’ha visto, quel mondo là, quello dei ferenji, dove non esiste la fame e tutte le case hanno l’acqua e la luce elettrica; e la gente cambia vestito tutti i giorni; quel mondo dove tutti lavorano negli uffici e i negozi traboccano di prodotti della terra; quel mondo dove le donne sono libere, si fanno vedere nude e rifiutano solo gli straccioni.
Se mi accendessi la pipa, di nuovo qualcuno, come ieri sera, mi indicherebbe a un amico e direbbe: “Non l’avevo mai visto… solo in televisione!”; ma la pioggia si sta facendo più forte. Riprendiamo il nostro cammino in salita, verso il villaggio. Mentre lo attraversiamo, le nostre guide si fermano di nuovo davanti a una capanna sulla sinistra (la pioggia sta di nuovo diminuendo).
“La casa degli italiani era qui”.
“Era questa?”, chiedo indicando la costruzione che ora sorge in quello spazio.
“No. Non esiste più”.
Risaliamo il pendio che porta in cima alla collinetta. La nebbia pian piano si dirada. In cima alla gobba c’è di nuovo il sole. Le persone che ci seguivano, prima l’una, poi l’altra, ci hanno lasciato, hanno ripreso il proprio lavoro, sono tornate a casa.
Ai piedi della collina, in fondo alla breve discesa, le nostre guide decidono di fare una sosta. Una capanna circolare di legno e fango. Lungo il perimetro interno, un gradino di quaranta centimetri coperto di pelli di mucca. In un angolo, al di là del pilastro centrale, una donna accudisce il fuoco. Ci sediamo tutti. La tella scorre nelle zucche come la fonte della ricchezza e sembra che non voglia finire mai. Solo il ricordo delle quasi due ore di salita, che ancora aspettano, ci fa alzare di nuovo, con il rimpianto che questi, dopo il cammino insieme, la stanchezza, il mistero che rimane mistero, il caldo, il breve refrigerio… questi sono gli unici momenti in cui, in Etiopia, si riesce a dimenticare di appartenere a mondi diversi.
Poi riprende il cammino, la stanchezza, il respiro affannato. Le nuvole risalgono il pendio insieme a noi. In cima ancora un breve ristoro e la gente che ci chiede un passaggio. È ormai l’una passata ed è da stamattina che aspettano un taxi. Da Debre Berhan non vengono a causa della nebbia.
Di ritorno ad Addis Abeba, parlo con un amico. È l’unico occidentale che conosco che sia stato, come me, a Let Marefià, un paio d’anni prima.
“Cosa avete trovato?”.
“Nulla. Soltanto lo shola”.
“Neanche il tucul? Una scritta?”.
“No. Nulla. Ma c’era con noi una persona che ha fatto parecchie foto al paesaggio, allo shola”.
“Perché?”.
“Voleva cercare di venderle alla ditta Antinori come etichetta per il vino”.
[L’immagine che illustra questo testo è di Mirella Daniell]