Caro Enrico,
mi soffermo brevemente (ma anche: seriamente, tragicamente, al limite dell’addio) sulle implicazioni che riguardano non tanto lo scrivere (il mio men che meno: leggo assaissimo, scrivo pochissimo), quanto l’altro o gli altri per cui si scrive, o meglio quel sentimento dell’altro in sé, lavorante e trasformativo, che lubrifica “a chiacchiere” il motore dell’oblio, l’altro o gli altri per cui si scrive non essendo che l’altro o gli altri in cui sparire, disseminarsi dissolversi andare a morire.
Di tal che un testo pubblicato è la pietra tombale, l’editore il becchino, lo scaffale il cimitero, il critico il prete, i lettori i sopravvissuti, la letteratura, tutta la letteratura, nient’altro che memoria di uno sconvolgimento antico: una specie di maremoto, occorso nel privato miserrimo sud est del caro estinto. E dal funerale che vado seguendo torno al senso che ha (che avrebbe) allora scriverne. Scriverne in assoluto, scriverne ora.
Magari non interessa, visto che tu e Gianluca vi occupate di sopravvissuti (o sì, ché per farsi gli zibaldoni degli altri bisogna per forza aver contezza dei propri), ma è che certe implicazioni, a evocarle, son come sassi che a smuoverli…
Corro ai saluti.
Laura