Sed qui certi esse possunt vidisse omnia?”
G. B. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, III
A quanto pare, oggi l’unico modo di intendere la fantasia è quello insulso e frivolo legato alle suggestioni dell’infanzia o agli stordimenti del cinema: alla saga del Signore degli anelli o a Harry Potter, per intenderci. Dire “fantastico” equivale quasi sempre a evocare barbari signori nordici, fantasmagorie da effetti speciali o sciapiti irrazionalismi, quindi mondi paralleli ed evasivi, estranei deliberatamente (e calcolatamente!) a quello della realtà quotidiana.
La riflessione che ci suggerisce a tale proposito Fata morgana di Gianni Celati (Feltrinelli, 2005) è invece di segno completamente diverso, in quanto, pur mettendo in pratica una concezione radicale della fantasia, riesce a definire in maniera sorprendente le attuali zone d’ombra della nostra vita e della nostra civiltà, senza mai scadere nell’affettazione e nell’evasione. Protagonista del libro è il misterioso popolo dei Gamuna, che abita un imprecisato territorio situato tra un deserto sabbioso e un altopiano basaltico sul quale tutti hanno paura di arrampicarsi. I Gamuna, infatti, temono le altitudini e soffrono di conturbanti vertigini: “la vertigine dell’altezza sembra loro un segno certissimo che tutto quanto sta in basso sia un unico e continuo fenomeno di fata morgana, e che ogni forma di vita sulla terra non sia che un miraggio del genere, ossia la grande allucinazione del mondo (teru-u ta, nella loro lingua)”. La vita è un correre dietro a visioni inenarrabili e instabili, ci suggeriscono i Gamuna nella scia dei grandi racconti sapienziali; anzi, è proprio un tale incanto greve – l’incanto delle apparizioni e delle iridescenze che durano un attimo – a spingere tutto e tutti verso il basso, verso il degrado, il disfacimento, la sparizione.
Pertanto i Gamuna “lasciano decadere tutto”, case oggetti corpi, senza mai alterare nulla negli andamenti naturali delle cose, e la loro esistenza è tanto semplice quanto sconvolgente, essendo fondata su una sorta di pigrizia o stupidità che si oppone fin troppo chiaramente alla dinamica intelligenza dell’uomo moderno. I Gamuna si immalinconiscono soltanto quando sono costretti a fare dei cambiamenti, ancorché minimi – come aggiustare un impianto elettrico -, ma per il resto si abbandonano senza patemi alla vita, come se niente fosse (la vita). O come se fosse tutta qui, nell’eterno presente del “ta”, il deittico fondamentale della loro lingua, che designa il “questo qui ora”. La loro flemma allucinata e il disinteresse assoluto che mostrano nei confronti dell’esistenza, sono tali da suscitare rabbia e nervosismo negli affaristi stranieri che arrivano a volte per sfruttare le risorse del territorio e la manodopera locale, e che, non potendo sopportare a lungo anche solo la vista del disfacimento del mondo, “mettono spesso mano alla pistola con l’idea di sparare a qualcuno, per sfogare il loro malumore di uomini civilizzati”. In effetti, gli usi e costumi dei Gamuna, la loro lingua melodica centrata sui toni piuttosto che sui significati, ci fanno osservare come in uno specchio, come in una favola – quindi con intensa veridicità – i limiti dell'”allucinato” etnocentrismo occidentale, fissato sempre più su se stesso e incapace di scorgere il pur minimo sollievo nei meandri ordinari dell’esistenza.
Leggendo Fata morgana può capitare di avere la sensazione di una confusione incredibile operata dal narratore tra “fantasia” e “realtà”, ma poi, a un ascolto attento, ci si rende conto che questa “confusione” altro non è che la scelta poetica più adeguata per far fluttuare naturalmente il pensiero, per sganciarlo dall’attualità e per lanciarlo verso la ricerca di un punto medio visibile da cui far cominciare ogni discorso e rendere credibili le immagini fantastiche. Dire che i Gamuna siamo noi stessi o che i Gamuna rappresentano l'”altro”, ovvero stabilire se le loro storie sono vere o false, è veramente riduttivo. Forse i Gamuna siamo noi e gli altri insieme in quei particolari momenti di ebbrezza in cui abbiamo dimenticato tutti i nostri “affari”; o forse, come sostengono certi monaci apocalittici, i Gamuna sono semplicemente i protagonisti dell’ultima favola raccontabile sul genere umano – favola che non a caso ci ripete che le illusioni abitano il mondo da sempre e che la loro scomparsa o rimozione allude soltanto alla fine della società, come sosteneva Leopardi. La sorella Tran, uno dei personaggi più incantevoli di Fata morgana, dopo aver vissuto a lungo tra i Gamuna e averne studiato le abitudini, giunge alla sorprendente conclusione che “si possono avere allucinazioni simili a quelle del deserto nella vita quotidiana più normale, sentendole come il normale corso della vita, con le cose familiari che ci circondano e che di solito non prendiamo per miraggi”. Sentire tutte le cose come familiari, avvertire la malìa della vita ordinaria: ecco il segreto custodito dalla popolazione Gamuna, ecco forse l’arcano che si nasconde dietro la loro pigrizia o stupidità, ma anche dietro tutte le visionarietà più strambe e le più inusitate filosofie.
Credo che questi brevi cenni bastino a suggerire alcune delle tante implicazioni dell’etnografia visionaria di Celati, e a chiarire come un particolare uso fantastico del linguaggio, lungi dal mirare a uno svago estemporaneo, sia utile soprattutto per capire come va il mondo, questo mondo.
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Eppure, fantasticare sui popoli non è una novità nella cultura moderna. Già ai primi del Settecento, Giambattista Vico, riprendendo le definizioni classiche della memoria, “madre delle Muse”, e riabilitando con vigore la retorica, attribuiva alla fantasia un ruolo prioritario nel processo dell’intelligenza umana, arrivando a definirla “memoria dilatata”. Il principio del “verum factum”, secondo il quale, se si sa osservare con umiltà e senza boria, si può riconoscere come veritiero tutto ciò che è stato fatto o pensato dagli uomini più diversi in epoche anche lontanissime, metteva le basi per un nuovo modo di intendere le scienze umane. È proprio seguendo il “verum factum” nelle sue manifestazioni più peculiari, a cominciare dal linguaggio (ogni parola nasconde una piccola favola, dice Vico) fino ai miti e alle leggende più curiosi, che il filosofo napoletano scrive le pagine più ardite della sua Scienza nuova, “fantasticando” sulle meravigliose nazioni gentili e dando vita ad alcune immagini genialmente anticipatrici delle moderne ricerche linguistiche, antropologiche e psicanalitiche: si pensi ai giganti “empi e vagabondi” – che tra l’altro fanno venire in mente gli antenati dei Gamuna, oltre al Totem e tabù freudiano -, o alle felicissime intuizioni sulla nascita delle lingue.
In Fata morgana di Celati c’è un’analoga disposizione curiosa e immaginativa nei confronti della conoscenza, sebbene sia diverso l’oggetto del racconto: in Vico il linguaggio, i miti e le leggende della tradizione umanistica; in Celati i “frammenti” e le storie delle moderne etnologia, psicanalisi, filosofia – sebbene oggi, come dice il narratore di Fata morgana, le parole per raccontare e fantasticare “siano sempre più scarse”. Bisogna poi aggiungere che in Celati le scelte narrative vanno sempre molto al di là di qualsiasi posizione predeterminata e intellettualistica, e la sua scrittura si mostra sempre particolarmente attenta al superamento dell’atteggiamento “critico” (e moderno) che ha bisogno di separare ovunque l’oggettività dalla soggettività, il vero dal fatto, il pensiero dalla realtà. In questo senso, in Fata morgana la scienza antropologica – e filosofica e psicanalitica – viene rivisitata e rinarrata da un punto di vista anche liberatorio, quasi incosciente.
Ma forse fantasticare sui popoli ai più apparirà come una timida follia anacronistica. D’altro canto, giornali, libri, tv parlano ormai tutti di un unico popolo mondiale, fatto di consumatori o di aspiranti tali, ed è strabiliante notare come non si registrino più popolazioni e casi particolari, comportamenti diversi o costumi ignoti, ma solo “anomalie”. Non c’è più niente da inventare o da scoprire, ci dicono, tutto deve semplicemente essere amministrato o corretto. A volte nasce il sospetto che il genere umano, con tutte le sue sconclusionatezze e stranezze, sia defunto; ma per fortuna libri come quello di Celati ci suggeriscono esattamente il contrario, alludendo a mondi in continuo movimento e stravolgimento, e a modi ben più avventurosi e seri di intendere la conoscenza.
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A partire dagli anni Ottanta nelle opere di Celati si sente molto l’eco di esplorazioni e viaggi in Italia e all’estero. Qualcuno ha sostenuto che Celati, con questi viaggi, voleva realizzare “reportage” o “fotografie” della realtà. Ma le cose stanno forse diversamente. È pur vero che in Narratori delle pianure, in Verso la foce, come anche in Avventure in Africa e in documentari come Strada provinciale delle anime o Visioni di case che crollano, il mondo esterno è al centro delle visioni: ma questa centralità non serve a ricavare verità oggettive o anodini referti sui luoghi, bensì a farci spostare l’attenzione da noi stessi verso un punto di fuga sempre più distante e improbabile, in una lontananza e rarefazione di significati molto simile a quella ricercata da Luigi Ghirri nelle sue ultime foto di certi corsi d’acqua nella nebbia. D’altronde, soltanto rimanendo estranei a noi stessi possiamo disporci ad ascoltare le minime intensità emotive che riguardano l’esistenza – intensità che provengono sempre da un altro mondo, fantasticato o supposto. Come dicono gli anziani Gamuna: “Tutto quello che ti attraversa non sei tu, eppure tu sei solo quello”.
In Fata morgana ci troviamo di fronte piuttosto a una variazione sul medesimo tema, in quanto le visioni di Gamuna Valley corrispondono perfettamente ai racconti orali e alle fantasticherie padane, e anzi ne costituiscono il complemento, soprattutto perché sono l’occasione più felice per filosofare poeticamente, cioè per utilizzare il pensiero non come strumento proprietario di separazione intellettuale dal mondo, ma con il fine di liberarci dall’angosciosa consapevolezza dell’essere noi. Perciò il racconto, in Celati, è sempre in sintonia con il pensiero, e anzi ha una rara densità e icasticità, una scolpitezza decisa: perché il pensiero è niente altro che un semplice barbaglio, una figura, una quisquilia, questo che diciamo, ossia il resoconto di qualcosa di strano e profondo che abbiamo saputo cogliere al volo.
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Per concludere, si dovrebbe citare Gulliver, che è un po’ il riferimento generale di tutte le opere di fantasticazione sui popoli, anche perché dei Viaggi di Gulliver, come di altre opere di Swift, Gianni Celati ha curato un’edizione e una traduzione italiana importanti, facendo notare le parentele con alcuni testi della letteratura fantastica occidentale, a cominciare dalle parodie di Luciano di Samosata fino all’Utopia di Thomas More. Gulliver è il primo antropologo, osserva Celati, il primo uomo occidentale a trovarsi spaesato e smarrito in mezzo ad altri popoli. Ma è anche l’unico, forse, che dopo aver incoscientemente fantasticato, preferirà la diminuzione di sé alla boria delle “magnifiche sorti e progressive” che purtroppo ancora oggi accompagnano tanti, troppi discorsi di dominio.
Inoltre, come in Gulliver tutti i popoli descritti si caratterizzano istantaneamente per una pratica politica direttamente collegata alla loro estraniante e specifica visione del mondo, così i Gamuna si distinguono per una sorta di indifferenza nei confronti della morale e delle leggi. Si veda il capitolo di Fata morgana sull’allucinazione comunitaria, dove tutto quanto è contrattabile, invece che essere sottoposto a regolamentazione, va a finire in un “grande sonno”, riconosciuto dai Gamuna come “dimensione più autentica, più reale… della vita da svegli”. Allo stesso tempo, tutto quello che riguarda la normatività e la legalità ricade sotto il dominio delle donne, a loro volta sottomesse come materassi a un comico e titanico essere onirico, Boro Trai, che pare una via di mezzo tra il Leviatano e il Buddha. “Boro incarna l’arbitrio della legge che incombe sulla testa di tutti, a cui bisogna obbedire anche nei sogni, e che un giorno o l’altro ci soffocherà nel sonno con i suoi eccessi”.
Ebbene, non suonano fin troppo veritiere queste ultime parole, alle orecchie dei cittadini della galassia globale, controllati e invasi, nel corpo e nella mente, di notte e di giorno, da qualcosa che “rassomiglia” a un corpo, ma che non è più un corpo; che “rassomiglia” a un capo, ma che non è più un capo (né tanto meno un Leviatano o un Buddha) – ma che pure, forse proprio a causa della sua estrema astrattezza e prevaricazione, ci rende tutti sempre più disorientati e pazzi perché ci priva una volta per tutte dei nostri sogni e delle nostre fantasie?