Per preparare la marmellata di cotogne secondo la ricetta della bisnonna Cucù ci vuole:
- cotogno grattugiato, chilo uno
- zucchero etti 300/400
e poi si procede così: si sbolliscono i cotogni, non troppo cotti. Quando sono al punto giusto si mettono a raffreddare e si grattugiano, dopo grattugiati si passano nel crivello per venire più fini e si mescolano allo zucchero facendoli bollire ancora quanto basta finché diventano di un rosso dorato. Quando hanno raggiunto il colore giusto si distribuisce la marmellata nelle formelle di latta e si mette al sole coperta con un velo, ritirandola dentro la sera perché l’umidità non la guasti.
Su quel quanto basta e su quel rosso dorato si arenano le tradizioni culinarie familiari e faccio naufragio nel tentativo di ricreare sapori e odori della cucina di casa mia quando ero bambina.
Certo se fossi stata ad osservarle bene la bisnonna e tutte le donne della casa quando la preparavano, o quando preparavano gli scarponi per le feste di natale, o mettevano la pasta dei cannoli a friggere attorno alle canne di bambù, oggi non proverei questo vuoto di esperienza e di memoria che mi porta invece a caramellare questa marmellata o a toglierla dal fuoco quando è troppo liquida. È su una tonalità di colore che s’arena la storia del presente sempre più fiacco ed incolore e mi costringe a relegare a ruolo di documenti storici di un passato quasi archeologico anche quelle torte di mandorla, le cassatine di ricotta, il latte di vecchia e i biscotti al caffè di tale ninuzza annotati in tremolante calligrafia nell’agenda 1940 con per cornice i consigli alle massaie rurali dei fasci femminili, alle raccomandazioni del regime su una corretta esposizione della bandiera nazionale o su come riscaldare le lenzuola del vostro ennesimo bambino senza bruciarle.
Pappalardo Concettina, detta cucù, marchesa di Canicattini Bagni era a quei tempi padrona indiscussa della cucina, una stanza quadrata con grande finestra che s’apriva sul mare e sul porto di Ortigia in una casa rosa che dai bassi alle soffitte era di sua proprietà. In cucina lavorava circondata dalle donne di casa, dalla nuora che da quando aveva sposato il figlio abitava con lei, le cugine, parenti varie e le persone della servitù.
Quando si trasferirono al piano terra con piccolo giardino di un palazzotto giallo, tozzo, a tre piani, costruito da tal ingegnere Sindona, secondo i gusti degli arricchiti cui senza pena si adattavano anche certi nobili in decadenza che abbandonando i palazzi del centro storico si trasferirono a vivere in nuovi e più moderni quartieri nati sulle rovine delle vecchie ville luoghi di villeggiatura, ecco, quando si trasferirono lì, lei si mise a sedere. Ci doveva essere comunque qualcosa nel dna della famiglia che spingeva verso una china discendente, qualcosa nel modo di fare, nella filosofia di vita, nella strada che si stava imboccando. Nel passaggio da una casa ad un’altra gli antichi mobili di famiglia venivano regalati al portinaio o al fattore per comprarne di più nuovi, lo specchio dalla cornice di legno massiccio di una consolle di metà ottocento con intarsi dorati venne regalato al vicino di casa a cui piaceva molto. Comunque sia, ripeto, Cucù, marchesa di Canicattini Bagni si mise a sedere sopra una pedana di legno davanti alla finestra della cucina. La pedana gliela avevano fatta costruire perché non arrivava al davanzale ma si ostinava a voler vedere la strada.
Stava a guardare la strada per giornate intere. Una strada però che dava poca soddisfazione perché a parte il carrettino con le granite e i panini caldi la mattina raramente ci passava qualcuno. E non vedeva neanche il mare.
Su quella sedia ad altezza davanzale ricamava, faceva il crocé e leggeva il giornale. Un figlio le era morto a diciannove anni con l’epidemia di spagnola, e si era messa su il vestito nero; il marito le era morto quando lei aveva cinquant’anni e il vestito nero non se l’era più tolto. Ma non bisognava darsi per vinti diceva e domandava che le si comprasse il giornale per seguire le sorti del re e della regina in esilio, e quelle dei loro figli piccoli, e per sapere chi era morto ammazzato, chi di malattia chi di incidente. Poi tornava al suo ricamo con un sospiro. Quanti briganti e truffaldini ci sono al mondo. Attenti bisogna stare. E io che credevo che i truffaldini fossero finiti… alla ribalderia non c’è una fine, sta troppo dentro l’uomo. Non c’è più guerra ma i briganti imperversano dovunque, così mi pare.
Delle due guerre delle quali s’era trovata ad esser spettatrice raccontava ridendo che quello che ricordava molto bene erano i letti sotto i quali s’infilava ad ogni allarme. Mentre tutti gli altri della casa, compresi vicini di casa e contadini, andavano verso il rifugio della casa padronale, lei spariva per andarsi a rintanare sotto un letto e con la testa avvolta da un cuscino di piume. Era il rumore che le faceva più paura e non lo voleva sentire. Che arrivasse pure la morte, se proprio doveva arrivare, ma senza troppi strepiti e fracasso. Così se ne stava per ore intere e giornate sotto al letto a guardare le assi di legno o di ferro e i piumini di cotone che con regolarità segnavano i materassi. Là sotto per distrarsi dice che pensava ai suoi ricami, ai pizzi a punto chiacchierino, alle fontane e ai putti che se fosse riuscita ad uscire viva da là sotto avrebbe ricamato sul lenzuolo di sua nipote. Passava in rassegna le varietà dei fiori, dai papaveri ai lillà, ai gladioli e alle margherite da posare sopra una tovaglia, e ai grappoli d’uva e alle scritte di buon appetito. Ogni fiore avrebbe dovuto avere le sue foglie, ciascuna con una forma differente. Doveva guardare su un manuale di botanica, chiedere consiglio a qualcuno che se ne intendesse delle forme dei fiori.
Quando andavano ad avvertirla che poteva venir fuori da sotto il letto, che tutto anche quella volta era passato, tirava un sospirone di sollievo che spazzava via petali e foglie.
Ogni tanto raccontava di quando tutti i gioielli erano spariti dal cassetto del comò che stava in camera da letto. Era una domenica mattina, un giorno di maggio poco dopo la liberazione e proprio il lunedì era stato deciso di portarli in banca in una cassetta di sicurezza. Tutto questo non era un segreto per nessuno perché la fiducia accordata a parenti e conoscenti era sconfinata e non si dava peso a certe cose, così, senza volere si stava assecondando una sorte che tramava o forse era la sorte che di fronte a gesti così invitanti non poteva perdere l’occasione. Come fu come non fu fatto sta che quella domenica mentre i più erano andati a messa, mentre i ragazzi erano in giardino e la domestica trafficava in cucina qualcuno era entrato di soppiatto: Vincenzino sei tu? Rispondimi, non fare il deficiente; – Signorina Iole è lei? M’arrispundissi per carità. Di soppiatto ma tranquilla, un’ombra aveva attraversato tutto il corridoio ed era andata dritto al cassetto del comò, aveva preso la scatola con le collane di brillanti e di zaffiri, con le perle e gli anelli di topazio e gli orecchini e tutti i pendantif e se l’era portati via.
Sulle varie ipotesi di colpevolezza si trascinarono le giornate dei mesi e degli anni a venire, i sospetti cadevano ora su uno ora sull’altro dei frequentatori occasionali della casa, su quello che se n’era ripartito il giorno dopo, su quell’altro che non s’era fatto più vedere, ma in sostanza la conclusione cui s’addivenne fu una sola: i fessi siamo noi, e per di più sconsiderati e creduloni.
Comunque fosse andata, dopo i primi istanti sbigottiti, constatato che tanto il fatto è fatto e non ci si poteva fare più nulla, la marchesa Cucù riprese tranquillamente a ricamare dei lillà e dei mazzi di mughetto su del raso rosso fuoco. Di campare abbiamo sempre campato. Ce li avevamo e non ce li abbiamo più.Speriamo che qualcuno se li stia godendo e che ci mandi delle benedizioni. Meglio continuare a ricamare, così la tristezza se ne va. In fondo in fondo la vita che è?
La signora Teresa, nella casa accanto alla loro, aveva ancora tutta la sua roba, gioielli, argenteria e ci aveva la fissa, non la voleva regalare ai nipoti, né ad alcuno che la usasse e lei pur di non fargliela prendere la seppelliva nel giardino, la infilava a destra e a manca e poi non si ricordava dove. E le sue giornate le passava mettendo fuori alla finestra delle piccole ciotole piene di roba da mangiare perché diceva che ogni pomeriggio al calare del sole venivano a trovarla tutti i bambinelli che nella sua casa avevano abitato prima. Tutti i bambinelli che c’erano morti e che non la volevano abbandonare. Per loro lei doveva preparare torte e gelati. Lei ci parlava, li sentiva sempre muoversi e frusciare nelle stanze. Gridava ai vicini di non spaventarli, di non far troppo rumore e di non metter fuori scope o vanghe perché i bambini suoi ne avevano paura. Non volevano essere seppelliti, ma svolazzare liberi giocando nel loro vecchio giardino. E cospargeva il viale d’ingresso della casa di caramelle e dolci e preparava torte che metteva alle finestre e faceva vestitini che appendeva ai rami degli alberi. Dai rami infatti sventolavano piccoli maglioni e pantaloncini e gonne, più pesanti d’inverno e più leggeri d’estate e s’inzuppavano alla pioggia e s’asciugavano al sole.
Sono i vestitini dei picciriddi miei, diceva donna Teresa, quando vengono se li trovano pronti sugli alberi, li usano un po’ poi me li lasciano che io glieli lavo.
Era meglio aver perduto i gioielli piuttosto che il cervello, così pensava la Marchesa Cucù, e continuava a ricamare.
Quella dei gioielli era stata comunque una sorta di prova generale alla perdita totale, di tutto il patrimonio: case, terreni, aranceti e limoneti, carciofaie e contadini che un nipote un po’ ingenuo e con l’amore per il prossimo, come da linea familiare, aveva dato in garanzia per un finanziamento di lavoro. Mentre dall’altra parte della famiglia, quella della moglie di questo suo nipote, che sembra lo avesse istigato alle spese e agli investimenti, chiusero le porte e si rifiutarono di aiutare, la marchesa e i familiari persero tutto. Ma lo fecero, così, come un gesto naturale, senza darsene pensiero. Aiutare era la cosa più naturale che si potesse fare in quel momento di bisogno, che bisogno c’era di starci a pensare sopra, certe volte sono le situazioni che scelgono per te. Questa è la filosofia che imperversava a casa mia, l’ho detto prima, non è detto che sia la migliore, ma come dicevo anche prima quando ce l’hai nel dna ce l’hai e stop, inutile domandarsi, rodersi,arrovellarsi perché gli altri non sono così eccetera, e per questa filosofia a me non sono rimasti che i racconti su gioielli su case e terre al sole diventati aria, parole. La vita ti dà e poi ti prende indietro, a sua discrezione, ma è vero anche che la vita l’assecondi, la inviti, la pungoli e lei non si sottrae. Così va e così sia…Vano cercare di ostacolare ciò che è già segnato.
Concettina Pappalardo in Merendino, detta Cucù, marchesa di Canicattini Bagni nonché mia bisnonna, è morta quasi centenaria, con gli occhi azzurro cenere che ti guardavano dritto fino al cuore e la testa che funzionava più di quelle dell’intera famiglia messe insieme. È morta al terzo piano di un palazzone ricoperto di piastrelline a mosaico azzurre e bianche. Una domenica dopo pranzo è morta, dopo aver mangiato un cannolo di ricotta e gli sfincioni di riso col vino cotto. Ha preso la mano di suo figlio oramai arrivato a veneranda età anche lui e ha detto Mimì, credo proprio che stavolta ci siamo, vedo mio padre lì che mi fa un cenno, mi sta invitando a partire, e attenti a voi che se accennate un pianto vi sculaccio tutti.
A proposito, il vino cotto per chi non lo sapesse si prepara così: mettere a bollire nove litri di mosto per molte ore finché si ritirano tanto da diventare tre litri. A quel punto mettere in un panno la scorza essiccata di un’arancia e di un limone, chiodi di garofano e cannella e nella pentola fate bollire per almeno trenta minuti ancora, poi, quando si raffredda, imbottigliare.