A dieci faceva l’aiuto sacrestano a San Michele, lo sguardo svanito di un santo delle figurine, ma con il naso lungo, plebeo, che sembrava appiccato con lo sputo, così come sembravano incollati i capelli, le orecchie e l’anima. Si mangiava pure le parole, a ragione di una fame arretrata, non faceva mai mancare il carbone acceso nell’incensiere, spegneva le candele con la grazia che ci metteva l’Angelo a soffiare sopra le stelle quando faceva giorno, perché non facesse una brutta figura il sole. Quando accompagnava il carro funebre, con la tonaca di chierichetto, i crocciastesi facevano simpatia con la eternità perché la sua faccia spersa di biscotto povero ammusciava i ragli della morte e i silenzi di tutti i cieli. Donato teneva, allora, undici dodici anni e, oltre ad essere l’inserviente del sacrestano, era stato anche “candela”, “cuscino”, “venumerale” e, a maestà della carriera, quello che incensava il Santissimo. Ma quando Cristo Di Pane Poco veniva sollevato per la benedizione e se lo vedeva davanti con il cerogeno in mano, il cuore di pezza soave dello spaventapasseri e la faccia dell’appetito, doveva fare sforzi da Creatore per non scoppiare a ridere. All’età di quattordici anni, Donato si mise a fare l’aiuto macchinista nel cinema San Michele, che spartiva i confini con la sacrestia. Certe sere la pellicola si ingravogliava come una matassa di lampi e tuoni e allora scendeva l’arcangelo Gabriele e lo portava per mano nei misteri delle macchine che sputano figure come i bambini cacano nùzzel d ceras (nocciòli di ciliege) da ngul. Donato diventò capomacchinista. Al momento del Vespro abbandonava la cabina e andava a suonare le campane. La sera tardi metteva i manifesti dei film e si era imparata talmente l’arte che lo voleva il Padreterno perché solo lui sarebbe riuscito a incollare i cartelloni del cinema celeste, visto che nessun altro conosceva l’impasto di colla per tenerli azzeccati alle nuvole, alle nebbie, agli arcobaleni, ai raggi della luna.
Spesso la macchina si impuntava come una ciuccia prena, e Donato se la guardava con la compassione di un bambino che piscia oro nel sonno. Gli spettatori si divertivano a perdere la pazienza e facevano serenate a fischi finché non gli pigliava la malinconia e se ne uscivano piano piano senza neanche desiderare il finale. Quando il cinema San Michele morì, se lo portarono i cavalli neri con la frusta. Donato passò al cinema Fiamma, all’Ariston, al Gloria, all’Eden, al Due Torri: faceva la maschera, il macchinista, e quando usciva per attaccare i manifesti non si vedeva mai in giro con il cappotto, neanche quando si gelava, perché gli piaceva di stare libero con le braccia. Per un certo periodo si era fatto un discepolo che gli portava il secchio della colla mentre lui trasportava la scala: c’erano gli affissi a due, larghi quanto una casa, de “I Dieci comandamenti”, “I cavalieri della tavola rotonda”, “La tunica”, “I gladiatori”; gli affissi a quattro di “Via col vento”, dove la bocca di Vivien Leigh stava per metà su un affisso e metà su un altro, ma Donato era riuscito a accostare quei due pezzi alla perfezione, una sera che menava neve a pulvinio. Donato non ha mai visto un film in vita sua e non ne ha mai nominato uno. Lui vedeva figure, tutte uguali, come la fiamma di una candela. Si è sposato e tiene figli che non ha avuto dalla fiamma di una candela o dalla macchina delle figure, ma da una donna. Quando me lo ha detto e ha visto la mia meraviglia, gli è uscito un sorriso che gli ha allargato la faccia, e ho sentito il cuore della mia città fraterno come quello di un cane dolcissimo e triste.