La cosa più bella che ti possa capitare dopo tre giorni di pioggia battente è svegliarti in un mattino di domenica, che sai di non dover andare a scuola e puoi uscire e andare dove ti pare. Giulia, appena le ho proposto di andare a visitare i laghetti che si erano formati nelle campagne qui intorno, con gli occhi ancora chiusi ha detto che si sarebbe vestita in un battibaleno, e così è stato. Nella sua mente si deve essere verificata come una inondazione che l’ha svegliata di colpo, lei che ogni mattina deve essere tirata giù dal letto con mille stratagemmi e precauzioni.
Il sole c’era e non c’era, entrava e usciva dalle nubi ancora nere in una indecisione meteorologica più apparente che reale: lo scirocco teneva duro. Ma come avrebbe potuto continuare a piovere dopo tre giorni di pioggia battente, senza far sorgere il sospetto che si stesse preparando un nuovo diluvio? Tuttavia abbiamo optato per l’auto, spinti anche dalle insistenze di Ornella, che non avrebbe lasciato partire in scooter Giulia con un tempo così incerto. In un canto del garage, lo scooter si sarebbe rassegnato ad attendere tempi migliori.
Era come dicevo io. Appena fuori dell’abitato, i campi di cicorie, di rape e di finocchi erano completamente sommersi dalle acque che lasciavano vedere solo le cime più alte d’un verde smorto sopra una distesa di fanghiglia grigia. Le vigne ancora frondose, sebbene ormai private del loro frutto, erano allagate; gli olivi, perso il loro carico strappato dal vento e sommerso dalle acque, sembravano simili a salici piangenti sul greto di un lago; tutta la campagna costituiva uno spettacolo ch’io ricordavo, per averlo visto tante volte da piccolo, e che ora mi piaceva riproporre a Giulia, per vedere l’effetto nei suoi occhi di bambina vissuta altrove. E Giulia era veramente stupita da quel mare venuto giù dal cielo in pochi giorni, portato dal vento umido di scirocco, e giurava di non aver mai visto nulla di simile in via sua, lei che pure aveva spesso passeggiato sulle rive dei laghi del Nord.
Fa uno strano effetto rivedere i luoghi che si sono percorsi a piedi o dove lo sguardo si è posato sulla terra arida dell’estate, rivederli in autunno, nel tempo delle piogge; lo stesso effetto straniante di una foto ritoccata al computer, da cui siano scomparsi tutti i particolari, tutti gli “errori”, che la rendevano caratteristica e unica. Nel paesaggio della campagna era venuto a mancare soprattutto il colore della terra annullato da un pittore scrupoloso, che avesse passato pennellate d’un grigio indistinto tra i filari degli alberi e degli ortaggi.
Il luogo dove la massa d’acqua aveva costituito un vero e proprio laghetto era quello dove meno mi sarei aspettato di trovare un simile sconvolgimento della campagna: la vora di Noha. Ci siamo fermati sul ciglio della strada su cui si frangevano senza forza le increspature dell’acqua sollevata dal vento di scirocco, attirati da uno stuolo di persone intente a commentare il fenomeno nuovo. Ma come, la vora di Noha, che aveva sempre inghiottito mari interi d’acqua piovana, portando verso luoghi lontani e sconosciuti tutto quello che le precipitava in gola, come era possibile che si fosse all’improvviso saziata e avesse smesso di fare il suo lavoro? In lontananza, il luogo preciso dove la vora un tempo si apriva era solo visibile per alcuni pilastri di cemento che la delimitano, cinti da una rete metallica che ne impedisce l’accesso. Giulia voleva sapere tutto della vora di Noha, soprattutto voleva sapere dove andava a finire la massa d’acqua che la vora inghiottiva; ma io non potevo accontentarla, perché non lo sapevo; e allora abbiamo interrogato un uomo anziano, che era lì, insieme agli altri, stupito anche lui per quel mare di acqua e fango, ed anche un po’ indignato. Ci ha detto che abitava lì vicino ed era preoccupato per la sua casa, perché un altro giorno di pioggia e la sua casa sarebbe sommersa; che la vora un tempo era efficacissima nel periodo delle piogge, quando si sentiva un rutto continuo e prolungato, Lu ruttu de la vora – ha detto – che era il segno che tutto andava bene e che se anche l’oceano le si fosse riversato nella gola dal cielo, la vora l’avrebbe ingoiato ed espulso; che forse – anche lui era incerto – la vora sfociava come un fiume sotterraneo dalle parti di Galatone, a dieci chilometri di distanza, o forse anche direttamente in mare, sotto qualche scoglio sommerso; ora l’avevano chiusa, ovvero ne avevano rimpicciolito la bocca con colate di cemento a tal punto che le frasche avevano fatto il resto, come accade nei fiumi, che i castori sono capaci con i rami degli alberi di costruire una diga che ne devia il corso; insomma, – concludeva – bisogna stare attenti a chi si vota, la prossima volta, perché non si può votare per chi non sa cosa sia una vora e non ne ha mai sentito il rutto.
Giulia voleva subito andare a vedere il luogo dove sfocia la vora, ma io le ho fatto notare che se la vora non inghiottiva più nulla, era chiaro che neppure sfociava in nessun luogo. Allora, siamo risaliti in macchina e ci siamo avviati verso il Canale dell’Asso, che ancora avrebbe dovuto essere pieno d’acqua. Gliel’ho indicato dalla strada, da dove è facile vederlo mentre si snoda tra i poderi, accompagnato da un corteggio di alte canne. Le hanno piantate apposta sul terrapieno che fa da argine, perché le radici della canne trattengono la terra e non lasciano che le acque la portino via. Ogni tanto la strada asfaltata incrocia il canale, e gli passa sopra. Basta, dunque, fermarsi su un piccolo viadotto per vedere il corso del canale. Siamo scesi dalla macchina e ci siamo affacciati al guardrail: nel fondo oscuro del canale, dove le fronde delle canne non lasciano passare la luce, si vedevano a malapena trenta centimetri d’acqua corrente, non di più. Le acque, dunque, si stavano ritirando. Ma si vedeva bene che in qualche punto l’acqua aveva superato l’argine e si era diffusa nella campagna, mentre altrove, all’interno del canale, l’erba schiacciata dalla furia delle acque segnava l’alto livello raggiunto dalla corrente. Giulia voleva sapere che fine avessero fatto gli animali del Canale. Non è affatto un luogo comune che i bambini ci mettono spesso davanti alla nostra ignoranza. Infatti, che cosa ne sapevo della fauna del luogo? Ho inventato, cercando di attenermi ad una certa verosimiglianza: ho detto che nel Canale vivono rane e rospi, che certamente si erano salvati nelle loro case acquatiche, protetti dietro un anfratto di pietra; che uccelli acquatici non ce n’erano neanche a pagarli, come più volte ci aveva spiegato nonno Nino, che era stato cacciatore e se ne intendeva, e che tutt’al più ci poteva essere qualche tana di volpe, che si era certamente messa in salvo coi piccoli nell’imminenza dei temporali; e poi piccoli roditori, topolini e talpe, anche loro, come tutti gli animali, capaci di trovare un riparo contro la pioggia e le inondazioni. A un certo punto, mentre mi diffondevo in queste considerazioni, Giulia ha fatto un’osservazione molto veritiera. “Ci hai fatto caso, papà, che nel cielo non ci sono più uccelli!”. Di sicuro stava ripetendo una frase pronunciata spesso da suo nonno Nino che si lamenta sempre di questa assenza nei cieli della sua campagna (dove ha un piccolo fondo che ha piantato ad alberi da frutto), accompagnando le sue querimonie con tutto un repertorio di affermazione contro coloro che accusano i cacciatori di aver fatto strage di uccelli, e dando, invece, la colpa ai diserbanti e ai pesticidi che non solo hanno ucciso gli animali, ma hanno anche avvelenato le falde acquifere, tanto che i pozzi ai quali bevevano bestie e cristiani quando lui era giovane ora raccolgono solo acqua imbevibile.
In effetti, sul pantano della campagna allagata, non fosse stato per le nuvole in movimento, il cielo sarebbe apparso privo di vita. Solo qualche gazza ferma su un cavo della luce o sul ramo di un albero, col suo cra-cra richiamava la nostra attenzione, prima di spiccare il volo lontano dalla strada.
All’improvviso, ecco lo scoppio d’un fucile, a poca distanza da noi. “Hai visto, papà, non si è sollevato neppure un uccello!”. Giulia parlava come chi avesse trovato la prova del suo ragionamento, quando invece, anche stavolta, non faceva che ripetere una frase con cui nonno Nino giustificava la sua rinuncia alla caccia, a cui si era rassegnato già molti anni fa. Così, quando meno te l’aspetti, i bambini dimostrano di essere molto attenti alle parole dei più anziani, con gli occhi dei quali guardano più degli adulti alla realtà delle cose. Era vero, solo alcune gazze si erano levate in volo allo scoppio del fucile; e si sa che nessun cacciatore ha mai sparato alle gazze, se non per provare l’efficacia di una cartuccia.
Ricominciava a piovere, a ’nziddhacare, come diciamo noi, ed era opportuno rientrare in macchina e portarsi verso casa. Sulla via del ritorno, alle prime case del paese, Giulia mi ha indicato la cupola del circo che da qualche giorno si era attendato in periferia. Allora, abbiamo fatto una piccola sosta davanti al campo, dove erano parcheggiati i camion delle bestie feroci e Giulia ha potuto sgranare gli occhi alla vista di due tigri dietro spesse sbarre di ferro. Una se ne stava immobile, distesa, e sembrava dormire, l’altra era un po’ inquieta e girava su se stessa come un cane che si morde la coda. “E se scappassero?” ha detto Giulia. “Speriamo proprio di no!” le ho risposto, considerando la loro mole. Intanto cominciava a piovere più intensamente e un clown si dava da fare per chiudere le imposte del camion perché le bestie non si bagnassero. Sarebbero rimaste al buio, almeno nel tempo della pioggia. Anche a noi non rimaneva che tapparci in casa e aspettare l’arrivo della tramontana.