Una volta c’era un giovane che aveva litigato con la moglie, e io intervenni a metter pace. Non sono cose facili, queste, ma ero quasi riuscito a farli rimettere insieme, e così mi venne di dire al giovane di prendere a vivere con sé la suocera. Non l’avessi mai detto. Il giovane mi rispose infuriato: “Per questo Cristo, mi sono fatto turco!”, che non capii cosa significasse, fino al giorno in cui mi hanno raccontato la storia che segue.
Una volta, ai tempi antichi, forse ai tempi dei re e dei briganti, visse un giovane talmente ribaldo e malandrino, che faceva la collezione di tutti i vizi del mondo, insieme ai difetti, ed era capace di compiere le azioni le più insane e infami, procurandosi guai a non finire. Amava le cose belle della vita, e perciò non amava lavorare o affaticarsi per procurarsi da mangiare. Un giorno questo bravaccio commise addirittura un delitto, e per sfuggire alle guardie entrò in un convento e ne divenne frate zoccolante. Ma divenuto frate, non cambiò indole e comportamenti, anzi si può dire che peggiorò: andava a donne il doppio di prima, giocava a dadi e carte dappertutto, rubava, trafugava, gorgogliava, s’ingozzava, truffava… Non si finirebbe mai a voler elencare tutte le sue malefatte.
In più, si era presa una smodata passione per il gioco del lotto, e non passava settimana che non giocasse i suoi numeri, senza però mai azzeccare una quintina, una quaterna, un terno, e nemmeno un ambo. Capitò così che una notte gli venne in sogno nostro signore Gesù Cristo, che dal crocifisso di legno del suo convento lo implorava addolorato: “Perché non mi dici mai una preghiera? Perché mi oltraggi in continuazione? Perché non mi adori mai?”. E il frate: “E perché dovrei? Hai tu forse mai fatto qualcosa per farmi vincere al lotto?”. E Gesù: “Hai ragione; ascolta allora: domani, dopo aver celebrato la messa, guarda sotto il calice: troverai un polizzino, leggi cosa c’è scritto”.
Frate Stefano (così si chiamava) quando si svegliò sulle prime non diede peso al sogno, poi però recatosi in chiesa si accorse che sotto il calice c’era davvero un polizzino, e dentro c’erano scritti cinque numeri: 6 – 22 – 16 – 28 – 67, ripetuti cinque volte in fila in diverse combinazioni, in modo da formare un quadrato. Non stava nei panni dalla gioia, il nostro frate! Subito corse fuori dalla chiesa in cerca di quanti più denari potesse, per giocarli tutti sui numeri avuti in sogno da Gesù Cristo, al quale nel frattempo andava rivolgendo ringraziamenti di ogni tipo, facendo inchini di continuo e dicendo addirittura una preghiera, forse per la prima volta in vita sua.
Rubò, impegnò, trafugò, chiese in prestito, vendette: tutto fece per procurarsi denari, e tutti i denari giocò poi puntualmente sui numeri del sogno. Finalmente arrivò il giorno dell’estrazione, e Frate Stefano volle recarsi di persona ad assistere allo spettacolo che avrebbe fatto la sua fortuna e gli avrebbe procurato godimenti infiniti nella vita futura. Uno a uno i numeri vennero estratti e declamati: 7 – 23 – 17 – 29 – 68. uno stordimento strano prese il nostro frate. Gli girò la testa, gli sobbalzò lo stomaco, gli venne un tuffo al cuore. Non poteva credere alle sue orecchie: quei numeri erano esattamente ciascuno di una unità più del dovuto, e lui aveva perso tutto! Non riusciva a capacitarsi: invece del 6, era uscito il 7, invece del 22, il 23, invece del 16, il 17, e al posto del 28 e del 67 erano stati estratti il 29 e il 68!
Appena fu tornato in sé, Frate Stefano ridusse in mille pezzi i biglietti con i numeri giocati, e li gettò al vento, quindi si strappò di dosso le vesti di frate e, senza perder tempo, quasi come invasato, illuminato, si diresse verso il porto e si imbarcò su una nave turca. Si fece corsaro e mussulmano, dopo aver bestemmiato tanto forte e profondamente la sua vecchia religione, che solo a pensarci, alle sue bestemmie, si potrebbe meritare la scomunica.
Fece una grande carriera, da corsaro, compiendo tante di quelle ribalderie avventurose, da diventare il capo dei turchi, sempre circondato di ricchezze e belle donne. Tuttavia, cosa umana e bella picciol tempo dura, come dice il poeta, e anche l’avventurosa vita di Alì (così si faceva chiamare l’ex Frate Stefano) un bel giorno ebbe fine. Ci fu un assalto furibondo da parte di due navi nemiche, e Alì fu colpito al capo, rimanendo agonizzante sulla tolda della sua nave. Stava per spirare, quando spuntò, non si sa da dove, un prete, che voleva redimerlo per procurargli il passaggio al regno dei cieli sano e salvo da tutte le nefandezze che aveva commesso. Il prete lavorò di fino con argomenti profondi e prediche ricercate. Alì lo ascoltava mormorando parole indecifrabili perché quasi non aveva più fiato. Poi il prete gli portò l’argomento, a suo parere, più appropriato di tutti, quello che avrebbe commosso perfino un animale quadrupede. Alì sembrò allora veramente sul punto di cedere e di pentirsi delle colpe di cui si era macchiato. Il prete disse, infatti, che anche sua madre sarebbe stata felice di veder redento il proprio figliolo in punto di morte. Alì quasi sorrideva estasiato al dolce ricordo della mamma, quando ecco che il prete, per completare la sua opera, estrasse dalla nera tonaca un crocifisso di legno e glielo offerse da baciare.
Alla vista del crocifisso, si sarebbe detto che Alì fosse sul punto di resuscitare e recuperar tutte le forze, tanto fu repentino il cambio di espressione del suo volto, dall’estatico morituro al rabbioso furente. Si issò su, Alì, in quattro e quattr’otto, con le ultime forze che gli rimanevano, e profferì in faccia al prete allibito queste esatte parole, con tono sicuro e inesorabile: “Per questo Cristo, mi sono fatto turco!”. E, chiusi gli occhi, finalmente spirò.