Pare che il papiro essiccato, meglio se scritto e antichissimo, fosse particolarmente apprezzato dalle tribù nomadi del deserto, che lo arrotolavano e se lo fumavano alla luce della luna nelle lunghe soste carovaniere. Allo stesso modo prospera tra noi una setta di fanatici, i cui confratelli si riuniscono nei salotti di comode case borghesi e si scambiano pipe e sigarettine odorose, spesso sotto lo sguardo benevolo di un Gran maestro. Sono uomini e donne di ogni età, tutti però direttamente o indirettamente legati alla cosiddetta industria culturale: scrittori, editori, professori universitari, giornalisti, pensatori sparsi, e, a seguire, il vasto gregge del popolo minuto. Il loro dio è l’impasto di cellulosa sbiancata e pressata volgarmente detto carta. Non la carta in generale però, ma quella disposta in fogli rilegati e destinati a ospitare la scrittura, vale a dire nella forma del “libro”.
È piuttosto agevole riconoscere gli appartenenti alla setta degli adoratori della carta. Basta chiedere un parere sul libro digitale: quelli che rispondono che il libro è un’altra cosa sono senz’altro adepti. Se c’è qualcosa di più irritante degli esaltati del silicio che si lanciano in fosche e sempre fallaci profezie sulla fine della carta, sono proprio gli esaltati della carta convinti che il libro sia l’unico modo nel quale il pensiero può incarnarsi e rivelarsi agli uomini, come lo spirito santo si è incarnato in Cristo. Qualche tempo fa Umberto Eco ha fornito su questo aspetto dettagli definitivi (da allora sempre ripresi e variamente modulati dai seguaci): il libro, come il cucchiaio, è un miracolo ispirato direttamente dall’anatomia umana, e in quanto tale è un’invenzione perfetta. Il libro si può sfogliare, si possono prendere appunti, si possono fare gli orecchi, non ha bisogno di batteria, non si rompe se cade e soprattutto ha qualcosa che il suo surrogato elettronico non potrà mai avere: il fascino materiale. Niente è più gratificante dell’odore della carta nelle sue infinite grammature e del godimento del polpastrello che scorre sulla pagina. Tutto il resto deriva da questo assunto implicito o esplicito.
Per gli uomini di cultura, in particolare quelli di una certa età, l’unità di misura della potenza intellettuale è data dalla lunghezza in metri lineari degli scaffali della propria libreria. L’idea che tutto il sapere accumulato negli anni possa stare in una scheda di memoria neppure troppo capiente provoca un senso di spaesamento e di rifiuto. Questi professionisti della cultura, pur essendo spesso abituati a largheggiare nelle prospettive storiche, faticano un po’ a relativizzare loro stessi e a considerarsi a loro volta come immersi nell’incessante flusso del divenire; ragion per cui valutano tutto in relazione all’universo sensoriale nel quale sono cresciuti e si sono guadagnati le loro ambitissime rendite di posizione. L’aroma della carta allora va bene, ma quello del policarbonato caldo no; il fruscio delle pagine è poetico, mentre lo scricchiolio della testina che legge il disco è solo fastidioso, e così via. Anche lo scriba egiziano, o il copista medievale, avranno avuto le loro idiosincrasie.
Mentre però gli adoratori della carta e i loro allievi (molti dei quali sono “nativi digitali” nuovi di zecca) accarezzano commossi la cellulosa, tutto intorno a loro sta cambiando, senza che non dico se ne accorgano, ma che sentano il bisogno di capire un po’ meglio e con maggior uso di logica quello che accade e sta per accadere in relazione a un tema, quello della digitalizzazione dei contenuti, che investe tutta la filiera editoriale, dallo scrittore, al distributore, al libraio, all’ultimo dei lettori. In questo articolato processo di cambiamento, in cui molto si crea e molto si distrugge, mi permetto di dire che il problema dell’odore della carta, ma anche della forma del libro, va messo un po’ in gerarchia, e ridurre tutto a un fenomeno di costume buono per articoletti estivi non fa onore all’acume critico di questi intellettuali, che giustamente tuonano dall’alto dei loro scranni quando vedono trattare i fenomeni storici preferiti con la stessa distratta nonchalanche. Del resto, se la curiosità per gli stipendiati della cultura dovrebbe essere un dovere professionale, non è tuttavia obbligatorio esprimere pareri. Ci sono tantissimi argomenti sui quali si può pontificare inanellando fumo, senza sapere esattamente dove ci si trova e che anno è.