Persino le rocce che sembrano giacere mute
ed essere oppresse dal sole
lungo la silenziosa spiaggia,
in solenne grandezza palpitano
per i ricordi degli eventi passati
collegati al destino del mio popolo
Capo Seattle
Mani scure, larghe, di carnagione e di sole, come zappe. Piene di asole bianche messe in orizzontale, in obliquo, verticali sul palmo, le dita e il dorso. Le ha viste sul bancone il venditore di cartucce, e la donna da lontano sospese lungo i fianchi, ancora più da lontano il prete la mattina presto e l’ubriaco la sera tardi, le ha viste il gufo, il lupo, la pernice, la marmotta e anche il ragazzo le ha viste in bottega; mani nodose come radici che offrono alla chioma dell’albero la possibilità del movimento.
Sulle mani intrecciate a basamento e offertorio due morbide “esse” successive e rampanti. – Che cos’è? – chiese il ragazzo di città. Un ermellino; guardò meglio: il corpo metallizzato in torsione terminava nel profilo triangolare del musetto prudente, in fondo alla lunga coda un ciuffo nero come un pennellino di precisione. Un’impressione complessiva di svelta fierezza. Alzò gli occhi verso il padre che gli fece un sorriso di incoraggiamento, ma prese poi ad allontanarsi per la bottega, forse contrariato, quando s’accorse dell’indecisione del ragazzo.
L’ermellino: trentacinque centimetri circa. Bianco nella livrea invernale, marrone sul capo e sul dorso durante la bella stagione. Fulmineo nell’attacco alla gola delle prede; roditori, uccelli in qualche caso anche di grosse dimensioni, rettili. Vive nei boschi, tra le rocce, fino a tremila metri d’altitudine. La preziosa pelliccia ha adornato le spalle dei re, dei papi e dei magistrati: vedere per esempio i sontuosi ritratti del Tiziano.
Questo poteva contenere una sintetica cartellina nell’ordinato spazio virtuale del ragazzo. Era contento di non averlo comprato, non gli stava più tanto simpatico, anche se pare possa essere addomesticato.
Il padre guardandosi in giro era rimasto perplesso del luogo: un cancello scrostato, erbacce nel giardino incolto, polvere sui vetri. Nemmeno un cartello a segnalare la vendita degli animali; uno schiaffo alla sua natura commerciale. Avranno voluto dire quello i sorrisini dei coniugi che gestivano l’albergo, quando gli avevano indicato il posto? Una concessione al caratteristico, una carezza al bambino che era tanto innamorato degli animali. Certo il salone delle esposizioni si era mostrato di una pulizia ammirevole. Gli animali, tutti bellissimi, regnavano nel grande rettangolo al pianterreno, probabilmente un tempo una serra e ora simile ad un’unica teca trasparente di luce.
Le mani dell’uomo piuttosto impressionanti con tutti quei tagli e quei graffi. E stranamente inerti se si pensa a tutto il trafficare con gli animali, come due pezzi di legno galleggianti nell’acqua. Però chissà, magari un trucco, capaci di animarsi all’improvviso, al modo delle bestie mimetiche tra le foglie, in mezzo all’erba, quando scattano. Si tratta soltanto dell’istinto anche se per noi civilizzati potrebbe sembrare follia. La spinta che muove senza motivo dal di dentro i folli fin lì in quiete, come una scossa elettrica che si propaga per tutto il corpo. Niente di prevedibile e di spiegabile per noi.
Nel sogno del ragazzo, che sembrava un film, quelle mani emergevano dall’acqua interamente bianche quasi che la cicatrice avesse invaso palme, dita, polsi: il ventre di una biscia o di un pesce, ma per niente morbide, anzi chele di granchio sotto una luce fredda di fari, di ospedale. Non aveva parlato però del suo sogno al padre, che, del resto, non lo aveva fatto partecipe delle proprie speculazioni.
Il capriolo risulta ridicolo quando scarta sulle gambette sottili, simili a quelle degli insetti. E più quando è colpito e gli si spezzano come stecchi. Il capo si inclina di pezza, l’occhio vitreo, l’erba rossa.
L’animalista era uscito prima dell’alba dal cancello sconnesso della sua villetta, in modo che fosse già abbastanza in alto allo spuntar del sole e la luce potesse incrociare la calata di un solo esemplare o del branco. Il suo passo di uomo corpulento è cadenzato e leggero, l’aria taglia in salita e la pietra pare bagnata d’inchiostro. La vista dell’animale da vicino è sempre un’apparizione, conserva qualcosa di sacro; a media distanza, invece, o da lontano, rientra senza rimorso nell’occhio freddo del predatore o addirittura del mirino telescopico.
Chi sa sparare all’impronto imbracciando il fucile, mirando e facendo fuoco in un solo movimento si può chiamare un uomo; questo gli avevano sempre detto i vecchi. Altra cosa è l’appostamento: un gioco di superiorità e di pazienza, buona anche per un’indole da pescatori. La lama comunque segue ed entra nella pelle facilissima come in una sostanza davvero tra le più tenere. Appoggia i polpastrelli sulle ferite, se li tinge, tinge l’aria cristallina, rende calde tutte le cicatrici dei dorsi. Gocce, cera, coriandoli, festa, pacificazione. Tanto vivo ancora il corpo dell’animale e quasi gorgogliante ancora il sangue che si potrebbe credere alle leggende dei cacciatori sepolti dalla neve e abbracciati al pelo, che saltavano fuori ancor vivi la mattina, o addirittura a primavera.
– Qualche volta le guardie forestali hanno trovato delle bestie morte nascoste dentro dei cespugli, delle buche, segno che erano state uccise al mattino e venivano a prenderle di notte… a volte anche nel periodo di caccia. – Il padrone dell’albergo aveva l’abitudine di avvicinare la faccia all’interlocutore per metterci un’intenzione, una sottolineatura delle parole. Anche per aprire un buco con puntini immaginari da far completare all’altro. Il padre del ragazzo, pur capendo quel modo di fare, non sapeva però completare quella stranezza: “anche nel periodo di caccia”. Anzi aveva la sensazione che il padrone dell’albergo sapesse e avrebbe potuto benissimo continuare lui, ma che per qualche suo motivo lasciava in sospeso l’indovinello alla perspicacia del cliente.
Il giorno successivo alla visita della bottega il ragazzo e il padre stavano rientrando in paese da un’escursione tra i boschi; l’animalista li vide da un angolo dell’isolato e fece due passi indietro. Addossato al muro, con la busta della spesa in braccio, finse una qualche occupazione e riprese la strada quando i due avevano già proseguito superandolo. Ma la sua manovra fu notata. Un uomo che se avesse vissuto in un condominio avrebbe ascoltato i rumori dell’ascensore, le serrature degli appartamenti, per fermarsi in mezzo alle scale o affrettare il passo o rientrare di nascosto in casa senza alcun motivo apparente. Un uomo che non avrebbe mai vissuto in un condominio.
Una mattina l’animalista stava seduto su una panchina del sentiero e non aveva potuto tirare via. Nemmeno aveva fatto posto, ma il padre con un gran sospiro e il ragazzo silenziosamente si erano accomodati nella loro metà. Quattro chiacchiere sulla giornata e se il tempo avrebbe retto o le nuvole avrebbero preso il campo. Da sotto, a strapiombo, arrivavano i rumori della strada in costruzione. – Con quest’opera tutta la valle cambierà, vedrete i progressi di tutto il sistema economico. – L’animalista assentiva con la grande testa piena di capelli ormai grigi; intanto aveva tolto un coltello dalla sacca e macchinalmente sbozzava il pezzo di legno che si era finora rigirato tra le mani.
Un vento fresco e leggero faceva ondeggiare le punte dei pini, uno strano uccellino passava e ripassava verticalmente lungo un tronco vicino e anche sui rami, appeso a testa in giù come un pipistrello. L’uomo aveva del sangue secco sulle dita, notò il padre mentre continuava a parlare di quanto la strada fosse la colonna vertebrale per mettere in piedi il futuro della valle, e anche sulla fronte dove forse s’era inavvertitamente toccato. Una testa d’orso si faceva tra le mani suturate dell’uomo o era soltanto una delle tante forme bizzarre che i tronchi possiedono in natura? Intanto la polvere alzata sullo sterrato da un fuoristrada portava via i quarti posteriori di due ruminanti mucche eterne.
Parcheggiata con due ruote sul marciapiedi stava un’auto della polizia. Poi ne incontrarono un’altra nel centro del paese; attorno una strana animazione. Il cestino di funghi che il padre teneva orgogliosamente in mostra forse non sarebbe stato il principale tema di conversazione in albergo. Il padrone gli fece comunque festa e complimenti, ma un po’ come per sostenere fiaccamente, seppure con grande professionalità, un ruolo codificato. Allora il padre non poté fare a meno di chieder notizie su quell’improvviso trambusto e a quel punto gli occhi dell’albergatore si accesero sul serio. Due tecnici della società che costruiva la strada, fors’anche l’ingegnere, non si sapeva ancora bene, erano stati trovati morti proprio ai margini dei lavori. – Morti? – chiese il padre, sgradevolmente colpito che quanto si era lasciato giù in città, con le pistole e gli attentati, arrivasse a sporcare i luoghi intatti della montagna. Guardò l’uomo, il finestrone della hall dietro le cui tendine si delineavano le creste e il bosco verde scuro, il figlio che carezzò involontariamente sulla testa. – Pare che fossero tutti stracciati e… graffiati, come se un animale… –
– Usa tutti colori naturali – aveva detto l’albergatore con la consueta aria piena di sottintesi, sempre in attesa della reazione del cliente per esprimere poi a sua volta un giudizio positivo o negativo. Era in effetti una particolarità notevole di quelle sculture in legno di solito lasciate al naturale: il grande gallo cedrone, impettito all’inverosimile e dominatore dello spazio come l’uccello immaginato dal Leopardi, per esempio. E chissà se l’animalista si atteneva alla realtà o calcava la mano al modo degli artisti di primo Novecento che avevano scoperto la soggettività del colore. Un petto a due placche corazzate color prugna intenso che scivolava sulle ali in sfumature quasi verdognole e acquamarina, una barba appuntita come stalattiti sotto il becco e due sopracciglia rosso fuoco. Il padre stava per domandare, quando, da un cuneo metallico appoggiato sul banco, vide il riflesso concavo dello scultore alle sue spalle, provò un inesplicabile disagio e voltandosi cercò suo figlio.
In quella foresta di legno o zoo immobilizzato il ragazzo si aggirava come prigioniero dentro un sogno angoscioso, ora davanti a una lepre bianchissima, quasi azzurrina, ritta sulle zampe posteriori con fare curioso ed interrogativo, sapienziale, ora soggiogato dal volo d’un nuvoloso predatore dell’aria. – Bene, hai scelto? – chiese con una certa impazienza il padre. Ma quale doveva essere il criterio? La sola bellezza dell’oggetto o piuttosto qualcosa di più profondo, risuonante con il sé? – Hai scelto il tuo animale totemico? – precisò con un sorriso ricevendo in cambio uno sguardo vacuo, insonnolito. Fuori, nel giardinetto incolto, alla luce naturale del pieno pomeriggio di sole, appariva inconcepibile portarsi a casa un pezzo morto, seppur sacrale, come uno di quelli custoditi nello studio dell’animalista.
Nella sala televisione la luce del tramonto, scivolando sui gerani dei balconcini e attraversando le tendine a quadretti, rendeva d’oro lo spazio. L’albergatore s’informò sulle impressioni della visita all’animalista e poi passò a dare le ultime informazioni sui corpi straziati dei tecnici progettisti. Il ragazzo, inchiodato come soprapensiero alla prima parte del discorso, disse che ci mancava l’orso. I due adulti a quell’osservazione bloccarono per un momento il colloquio, aprendo uno strapiombo che subito s’affrettarono a colmare con altre chiacchiere.
Nel buio soffocante dell’atelier qualcosa s’agitava in basso, mentre ieratiche stavano le sculture sulle mensole più alte, avvolte dal lume di luna. Quel qualcosa d’indefinito e malcerto sorse e, goffamente ballonzolando a rischio di rovesciare i banchi, s’avviò verso la porta finestra che dava sul giardino. Nel silenzio freddo del paese imboccò presto un ripido sentiero che s’inoltrava tra i boschi. La pianta larga e gli unghioni seguivano l’istinto verso le baite lontane affittate ai lavoratori della strada. Esso era il tempo che lotta per non morire.
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