A voler scrivere una storia letteraria degli anni Novanta (e di questo principio di anni Zero), un primo appunto dovrebbe riguardare senz’altro la riscoperta del ‘genere’ (terminus post quem: Pulp Fiction di Quentin Tarantino). Cioè il più tenace e pernicioso fra gli equivoci che sostanziano l’‘ambiente letterario’. Una settimana sì e l’altra pure editors e gazzettieri da dozzina – reggicoda degli editors, e anzi direttamente degli uffici commerciali – esaltano a mezzo stampa l’affrancarsi della ‘serie B’ di una volta (il noir, il giallo,la fantascienza), il suo invadere i cataloghi ‘alti’ delle grandi case editrici (se poi ha ancora un senso, la nozione di ‘catalogo’, nel tempo dell’editoria cash and carry). L’equivoco, con i generi, è che una cosa è riproporli tali e quali – con spirito quando va bene ingenuamente affettivo, più spesso rigidamente normativo –, ben altra vampirizzarli, mescidandoli e variamente pervertendoli (come fa Tarantino, appunto): dando vita a forme nuove che simulino il rispetto dei confini e delle norme tradizionali. Per in realtà decostruirle, giocando sui loro interstizî e cesure, denunciando l’arbitrio e la cattiva coscienza: di quelle convenzioni e quelle norme. Si pensi al lavoro di Tommaso Pincio sulle strutture della fantascienza o, da ultimo, sulla quest biografica nell’immaginario collettivo.
Non sono tempi facili, allora, per scritture che non cerchino ossessivamente uno stampino nel quale forgiarsi, una matrice per farsi accettare in maniera irriflessa dal lettore pavloviano. Cioè appunto le scritture o, più chiaramente, le écritures – invece così di moda ai bei tempi di Bataille Barthes Foucault. Il contenitore che più radicalmente si contrapponga al ‘genere’, la non-struttura per eccellenza – con un architesto illustrissimo, però, per noi italiani –, è lo zibaldone. Ce ne ha dato un esempio recente Luigi Meneghello, coi tre grossi volumi delle Carte èditi da Rizzoli. Ma chi ora lo ripropone in chiave ironicamente ‘militante’ sono due curiosi personaggi gravitanti fra Salerno e Lecce, Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio, col primo numero (per il momento solo telematico) di una delle più originali riviste di oggi: Zibaldoni e altre meraviglie.
Alle cure di De Vivo si deve un libro fra i più curiosi usciti negli ultimi anni, quei Racconti impensati di ragazzini che uscirono da Feltrinelli, nel ’99, accompagnati da una magnifica introduzione di Gianni Celati. Della nuova rivista proprio Celati detta la ‘linea’, una linea dell’indefinibile e dell’incollocabile (negli anni di cui sopra si sarebbe sùbito detto, dunque, ‘l’alinea’…): una Linea leopardiana della prosa che cerca proprio nello Zibaldone per antonomasia il suo modello (antimodello o, meglio, non-modello): “mai linea retta, linea sempre erratica e frammentaria, mobile e sospesa […] Si va avanti per squarci, per onde di pensiero, per richiami momentanei e parziali a un orizzonte esterno […] Quello che conta alla fine non sono le mete a cui arriviamo, ma il continuo transito attraverso gli stati di affezione che sorgono”. De Vivo e Virgilio distinguono giustamente questa scrittura da due generi apparentemente simili (e a loro volta oggi di grande fortuna, anche qui con sostanziosi equivoci) come il diario (dove “l’io la fa da protagonista”) e l’aforisma (“pensiero pensato una volta per tutte, […] forma compiuta, immodificabile, pronta per lo scalpello dello scultore di epigrafi”): definendo lo zibaldone “l’antigenere per eccellenza, poiché annulla i confini dei generi canonici nel momento in cui li confonde e li assembla, sempre andando al di là del genere”.
Fra gli autori (fortunatamente) degeneri di questo primo bellissimo numero vanno ricordati almeno Rocco Brindisi e Ivan Levrini, Franco Arminio coi suoi versi stralunatissimi, il sorprendente diario ‘dall’Asia centrale’ di Giorgio Messori , gli esercizî di postura di quell’incredibile Buster Keaton di Testaccio che è Paolo Morelli. E poi un deliziosamente catastrofico Piccolo sillabario astrale di Alessandro Banda. Qui il non-modello leopardiano, più che lo Zibaldone, è la forma (la pluralità di forme) risultante dalla concrezione e dalla concentrazione di quella prosa “erratica e frammentaria”, ossia l’operetta morale (in questo caso soprattutto Il Copernico, magari filtrato dall’Astronomia esposta al popolo di Tommaso Landolfi, nel Mar delle blatte; la cometologia erotica, però, ricorda più Manganelli…).