Caro Enrico,
ho letto la tua raccolta di saggi e l’ho trovata davvero bella. Lontana da quel pensiero paranoide che affolla gli scantinati delle menti conformiste, lontana cioè dal potere ed anche dalla sua ansia e vicina, come dice Celati, al «pensare della modestia. Perché non siamo mai capaci di andare molto avanti con le nostre mete intellettuali e allora ci arrangiamo giocando con i concetti, con pseudoconcetti, con le trovate del cuore e quelle dell’immaginario». Per me sei riuscito a mescolare i tuoi maestri partenopei, tutti i tuoi maestri, da Leopardi (partenopeo doc) a Basile, da Vico a De Simone, dagli artisti imbroglioni ai tuoi alunni svegli e cerimoniosi, con la critica del presente, di questo nostro presente castrato, senza padri, senza eredi e senza neppure quei perdigiorno sognatori e pieni di umori, di cui sento tanto la mancanza. E poi quelle riflessioni sul Nous di Averroè, un filosofo meridionale anche lui, andaluso di nascita e morto nella rossa Marrakech, che rovesciano il cappotto della storia della razionalità occidentale, in fondo così tedesca, così dialettica, così poco averroistica, aprono un cammino sulla nostra povertà di esseri meditabondi. È un libro sincero che da Napoli è arrivato non a caso qui a Venezia, le due città più extra d’Italia… Le calli e i visceri sono ancora, pur nella catastrofe globalistica, il regno dell’infanzia, dell’ignoranza, dell’imbroglio, dell’osceno e della tenerezza, e perciò il posto dove ancora si può incontrare qualcuno, ovvero quel nessuno che ci porta a smantellare i nostri carapaci di indifferenza quotidiana. E poi sono anche Grandi Madri che hanno accolto di tutto da ogni luogo…
Leggendo i tuoi Saggi Inventati a un certo punto ho sognato che il Gobbo Divino ritornasse ai piedi del Vesuvio e che, oltre alle ginestre della resistenza, piantasse una siepe, creasse un giardino e dentro convocasse gli altri morti, i grandi napoletani scomparsi, e chiamasse a sé anche qualche bella guagliona scampata alle grinfie del nuovo melodico del Vomero. E insieme io, te e Gianni, lontano dalla peste della cronaca nera, ci accodassimo al corteo, ci mettessimo a sedere sull’erba, raccontandoci storie che ci aiutavano a vivere e a morire. Forse la presenza del Gobbo Divino come grande capomastro che rimette in gioco le ombre dell’Arso Vivo, del Giambattista Furioso e di tutti noi, aveva un senso. Ma ora non me lo ricordo. Forse tutti noi siamo accomunati dalla potenza dell’immaginazione, o ancor meglio, dal sentimento che pensare non è che potenza a cui ogni volta ci inchiniamo grazie al fatto che ci piove in testa qualche immagine. L’immaginazione «è la più feconda e meravigliosa rinnovatrice dei rapporti e delle armonie più nascoste», continua a ripetere il capocomico. Lo sento ancora con la sua voce stridula. Nei tuoi saggi si comprende che tutto sarebbe potuto andare diversamente. Ed è questo che non bisogna stancarci di pensare se ascoltiamo il pensiero del Gobbo Divino, se vogliamo restare umili, consapevoli che neppure il pensiero ci appartiene. Tu, con i tuoi saggi, sei entrato nella Grande Compagnia degli Umili che si danno la mano nel corso dei secoli e che ogni anno si ritrovano in un giardino di ginestre, sotto il Vesuvio, ad aspettare che il Gobbo Divino assegni a ciascuno una parte nella commedia.
MASSIMO RIZZANTE
[Tratto da Saggi Inventati di Enrico De Vivo, QuiEdit 2013]