Primo uragano
Il vento sale e si spande, rincorre se stesso, incurante degli ostacoli. Che sibilano e ruggiscono, soffiano, scricchiolano.
I camini e le ringhiere, gli spigoli, le foglie. Tutto ha preso vita e fa rumore, animato da questo vento pazzo.
Le saette fanno rapidi tagli bianchi nel buio e dopo pochi secondi arriva il loro scricchiolio acuto di energia, che guizza incontenibile per qualche istante e poi si distende in un rimbombo lungo e cupo.
Lasciandoci addosso, a noi a letto, qualcosa di veloce che pizzica corpo e cervello e continua a circolare anche quando il tuono è finito.
Dalle camere dei ragazzi sentiamo di nuovo le voci che parlottano, insonni. Questa volta non cerchiamo di metterle a tacere o di rassicurarle; non ci alziamo a condividere la veglia e a far finta che tutto vada bene. Tanto la nostra voce è più debole del ruggito di questa notte e non riesce a farsi ascoltare.
“E poi, dopo tutti quei notiziari…”
I telegiornali, le notizie flash, gli special, per giorni non hanno fatto che trasmettere foto, disegni, animazioni e previsioni cataclismatiche su come questo uragano avrebbe risalito la costa battendola palmo a palmo e non risparmiando niente e nessuno; neppure le città che di solito sono al riparo da questi eventi catastrofici, come Washington e New York. Mentre la radio interrompeva le trasmissioni per informare sui rifugi allestiti dalla nostra contea e per ricordare di mettere provviste in casa e attrezzarsi contro un lungo black out.
È normale, adesso, star lì ad aspettare il peggio, farci pizzicare dai tuoni e dai lampi, parlottare frasi insonni.
Del resto, una volta avute le informazioni essenziali, avremmo potuto spegnerle, la radio e la televisione; e invece siamo rimasti a farci zampettare sulla faccia e dentro le orecchie le luci e i suoni delle notizie catastrofiche. Anche noi volevamo vedere e capire, volevamo lasciarci scrosciare addosso tutto il fragore di vivere una vera emergenza…
Mi accosto alla finestra e cerco di osservare il cielo.
Da ore si è messo a covare questi ammassi di nubi, questi rimescolii di scariche elettriche. Immense, incalcolabili fucine di vapori e gocce…
Ha gridato tuoni e fulmini per metà notte, ed ecco, ora, finalmente partorisce una cascata. Tutta insieme, una quantità d’acqua e di vento che non capisci quale ventre stellato la potesse contenere. Viene giù, viene di lato, viene perfino da sotto, pare, come se la terra riuscisse a vomitare acqua dal basso all’alto, in risposta al parto del cielo.
I tuoni, i figli e perfino i pensieri ammutoliscono.
Solo la casa geme, a tratti, piegando le fibre del legno e del compensato a raffiche così tese e continue che sembra la stiano torturando per vedere quando cede.
Gli oggetti che stavano in giardino li ho messi tutti al riparo il giorno prima, per evitare che volassero via a spaccar finestre.
Ci sono solo le cime degli alberi e gli arbusti a dare un’idea della forza del vento. Ma si intravedono soltanto, perché il buio intorno è il buio delle tempeste, in cui l’acqua che cade è un lattante ingordo che si beve tutta la luce e solo i lampi, di tanto in tanto, accendono la scena per qualche frazione di secondo.
Da quel poco che vedo, nello sfarfallio di luce del lampo, gli alberi piegano le cime, si scuotono, perdono rami. Ma reggono.
Il mio più grosso timore, durante i temporali, è che uno dei grandissimi alberi dei giardini vicini abbandoni le sue forze e si accasci sul tetto, pigiandoci la casa addosso.
Li ho sempre visti un po’ come pericoli-nemici questi alberi grandi e vecchi che abbiamo intorno. Per lo più mezzi secchi a causa dell’edera che soffoca tronchi e rami, permettendogli solo uno sbuffo di foglie, in cima, come segno di vita.
Tutti gli alberi della zona sono così, e lasciano cadere rami come pere mature ad ogni alzarsi di vento. Sui fili elettrici, sulle auto in sosta, sui cancelletti delle case.
Mi sono domandata spesso perché non taglino i grandi arbusti prima di costruire una casa, da queste parti. Ho avuto perfino questa fantasia in cui mi compravo una casa della zona, la ridipingevo, la abbellivo, e, subito dopo, tiravo giù gli alberoni mezzi morti dei dintorni.
Eppure in questa notte di gemiti e parti furiosi, il lampo lontano schiarisce il cielo dietro gli alberi e loro diventano ombre grandi e benevole; tutti gli alberi che ho intorno: vivi, secchi o mezzi vegeti che siano.
Spezzano il vento, che pure arriva potentissimo. Deviano le traiettorie dell’acqua, soffermano qua e là gli spruzzi. Schiaffeggiati dal temporale, cedono rami e foglie. Ne sento uno scrosciare giù per intero, nel fitto del bosco vicino… Ma sono lì, fra noi e gli elementi. Aprono le loro chiome e si lasciano insultare dal neonato tumultuoso, si lasciano percuotere e sradicare. Loro, prima delle case.
Ripenso alle immagini degli uragani in zone spoglie degli stati uniti. Quelle casette di cui non rimane niente, nemmeno un muro portante, l’infisso di una porta, una canna fumaria… niente. E niente si vede neppure tutto intorno al perimetro della città, come se gli oggetti devastati si fossero trascinati fuori dal tempo e dallo spazio. Dove sono finiti? Il vento, incontrastato, li ha portati oltre ogni ricognizione, li ha annullati in chissà quale distanza, sbriciolandoli oltre ogni ritrovamento. Dopo la landa piatta e spoglia, forse, i primi oggetti li ritroveranno nel bosco più vicino…
Uno schiaffo di luce sulle cime scosse dal vento. Piegate, con le foglie che frullano veloci. Poi di nuovo buio e sibili, soffi, gemiti di vento.
Quelle casette che volano con gli uragani sono fatte come la nostra, con le pareti di gesso e compensato. Che qui le chiamano drywall ma sempre di gesso e compensato sono.
Viste nei film, in passato, questo tipo di case mi erano sembrate solide ville. Le avevo immaginate piantate su mura di pietre o mattoni, innervate di travi di legno, metallo, cemento armato. Ma ora che ci vivo dentro ho scoperto la verità: le case di drywall sembrano costruite dal maialino falegname. Quello che al lupo gli ci erano voluti solo un po’ di soffi in più, per mandarlo all’aria.
Non si possono appendere mensole, quadri o attaccapanni pesanti, nelle case americane. Quella volta che abbiamo avuto una perdita d’acqua e panicato all’idea di dover buttare all’aria un muro chissà per quanto tempo e per quanti soldi, abbiamo invece scoperto che l’idraulico, fischiettando, ha dovuto semplicemente tagliare via un pezzo, con un seghetto, riparare il tubo, rimettere la parte tagliata al suo posto e tutto fatto. Lui se n’è andato fischiettando e noi siamo rimasti a guardare la parete seghettata, increduli.
Hanno tutte questa caratteristica le case americane, e non solo quelle. Anche gli edifici in generale. Dai mall agli uffici, alle scuole, agli ospedali, ai supermercati, agli alberghi, dappertutto c’è quest’aria di posticcio, veloce, tutto bello in superficie ma tirato su in fretta e attaccato con lo sputo. Materiali in apparenza lussuosi sono finto marmo, finto legno, persino finto mattone. E moquette dappertutto, linoleum, listelle di legno sottilissime. Strati, strati che coprono strati che si usurano subito.
L’avevo sempre immaginata rigogliosa e lucida, l’America. Tutta nuova e tirata a splendido splendore. E invece noto ovunque incrostazioni, buche, muffe e angoli sbucciati.
Un tuono mi strappa alle riflessioni sugli immobili. La pioggia che scroscia contro le pareti e contro il tetto mi urla che non posso pensare libera, non posso pensare ad altro che a lei, a lei, a lei, a lei…
La mia sfida sta nel voltargli le spalle, all’acqua prepotente. Mocciosa viziata e piena di pretese. Parto sbagliato di una natura matrigna.
Chi lo sa se è vero, che gli alberi ci proteggono. Magari scientificamente è una pura assurdità. Però trattengo nella mente quelle ombre con le chiome aperte fra le case, pazienti sotto il diluvio, e pensandole come custodi della zona riesco a gridare un ultimo “dormite, non c’è nulla da aver paura!” e a tirarmi le lenzuola su fino al mento, in attesa del mattino.
Declassamento
In effetti, qui a Washington l’uragano non è poi arrivato. Si è stancato in tutti quei giorni di gridare e minacciare, covare e sputar fuori immonde creature d’acqua. È avanzato ghermendo le terre con ferocia, stritolando case e divellendo pali, tetti, piante. Ha invaso persone ed animali d’acqua, uccidendoli, ha ricoperto d’acqua i raccolti, sterminandoli. Ma in tutto questo risalire ribollendo di ferocia e distruzione ha perso energie, si è sfiancato. È stato declassato, mentre incombeva sul Maryland, la Virginia e il District, a semplice temporale tropicale, uno dei tanti.
E i danni sono quelli ormai noti e usuali: fili tranciati dai rami crollati, qualche tetto sfondato da un albero divelto, qualche auto sbandata e finita contro altre auto e cose simili, di poco conto.
E’ la seconda volta, in un piccolo lasso di tempo, che Washington esce indenne dai grandi eventi devastatori della natura. C’era stato un terremoto, mentre noi ancora viaggiavamo in quel della California, che aveva sobbalzato parecchio, sotto la crosta della città. E su e giù di groppa, si vede nei filmati della gente in preda al panico come tutto salta fuori posto e poi ci ritorna, più e più volte. Fra le grida sorprese e prive di risorse, come sempre sono le grida di chi si trova, all’improvviso, a capire il suo feroce niente nell’esistenza di questa grossa palla semovente.
A parte le paure e i disagi, il danno più grave lasciato dalle faglie imbizzarrite erano state le crepe sull’obelisco-simbolo.
Il gigantesco monumento che segna il centro ideale di Washington, il fulcro geografico dell’impero americano, si era un po’ crepato ed era stato dichiarato inagibile. Un fatto di poco conto, certo. Ma volendoci applicare un po’ di malizia e qualche fantasiosa metafora all’italiana ci si sarebbe potuto riscontrare qualche parallelo con il ruolo attuale della più grande potenza del mondo…
Non qui, che mi risulti. Qui ci si è attenuti al solito equilibrato pragmatismo: si è chiuso l’accesso ai turisti ed è finita lì.
Uragano o temporale tropicale che sia stato, quello che ha attraversato la notte ha fatto un bel casino nei giardini del vicinato, compreso il nostro. C’è da tirar fuori la ramazza e mettersi al lavoro.
Spazzare le foglie, rimettere in giardino l’arredo del giardino, segare e riporre fra la legna da ardere i rami caduti dagli alberi.
Notare che i nostri vicini gli stessi rami li impilano al bordo della strada per farli portare via dalla nettezza urbana.
Hanno tutti il camino, da queste parti. Almeno uno per ogni casa. C’è un buon odore di legna bruciata, nell’autunno e nell’inverno, che solletica le strade con frasi di caldo e riposo. E allora, perché far portare via i rami di cui si sono privati gli alberi? Bruciano benissimo, lo abbiamo già sperimentato più volte.
Forse non si fa… Forse anche in questo, da queste parti, si preferisce seguire le regole: la legna da ardere si compra dall’apposito rivenditore, tagliata in piccoli pezzi regolari da impilare ordinatamente.
Anche io l’ho fatto, l’autunno precedente. Mi sono presa un bel mucchio di legna da quel pick up malconcio dal quale padre e figlio, tagliaboschi della Virginia, vendevano cioppi porta a porta. E gettandoseli con maestria dal pick up a terra li avevano allineati ben benino contro mezza parete del nostro garage. Certo. Ma siccome già fare il fuoco, di questi tempi inquinati, è un atto di piacevole egoismo, almeno mi chino a raccogliere la legna che mi cade dal cielo. Se ne privano gli alberi, me la regalano a manciate. Mi parrebbe brutto prenderla e buttarla. Un atto di maleducata noncuranza.
Tempo dopo, mio cognato ci fa leggere simbolicamente questo spreco di legna, ne fa una similitudine con il ruolo devastante dei consumi degli Stati Uniti sul delicato equilibrio naturale del pianeta. E’ qui da pochi giorni, il cognato, e ha la mente aguzza e la vista pronta della persona in visita. Si aggira sconsolato per gli scaffali di prodotti immensi di un grande supermercato. E indicando bocce di medicine grandi come fiaschi, buste di caramelle delle dimensioni di una valigia, gazzose da far contento Gargantua, scuote la testa e smorza sottovoce: “Non c’e futuro… per il pianeta, è finita!”
Poi, in altre occasioni, indicando lo scorrere costante delle auto sulle sei corsie delle innumerevoli autostrade, in entrambe le direzioni, a qualunque ora del giorno e della notte, e poi la caldaia sempre accesa, i riscaldamenti eccessivi, i condizionamenti d’aria pure, gli spifferi nelle casette di drywall, il drywall stesso, i caminetti… scuote ancora la testa e dice:
“E io che mi sveglio all’alba per fare la raccolta differenziata, spengo la luce, risparmio l’acqua… tutto inutile. Non c’è futuro.”
Io anche scuoto la testa, consapevole. E, partecipe delle sue preoccupazioni, evito di aggravarle ulteriormente mettendolo a parte dell’informazione che gli Stati Uniti ricavano il 40% del loro immenso fabbisogno di energia elettrica dal carbone. Sono fra i fumatori incalliti della terra: tirano su le riserve di energia più primitive, le più sporche, e le risputano in faccia all’intero pianeta.
L’ultima alternativa che hanno trovato ai fossili del legno è un gas che si sprigiona dalle pietre di alcuni terreni con un processo che i produttori dicono ecologico. Ma che gli ecologisti dicono dannosissimo in quanto pare deturpi i paesaggi e inquini le falde acquifere, devastando intere zone…
Raccolgo l’idea di mio cognato, che la solerzia ecologista sia inutile. La raccolgo e la porto a spasso. Cullo fra le braccia stanche delle mie speranze la desolante certezza che centinaia di milioni di individui, in quello americano e nel continente asiatico, bruciano allegramente tutti gli equilibri terrestri, rifiutano gli accordi, negano l’evidenza. La accetto, la accolgo, gli rincalzo le coperte della disillusione.
Poi un giorno, per caso, rivedo le immagini della Liguria: il nubifragio terribile che aveva preceduto di poco il nostro temuto uragano. Nessuno lo aveva previsto nella sua enormità e ancor meno pubblicizzato. Altro che il tam tam quasi paranoico di qui… il nubifragio era stato solo annunciato, non demonizzato, e quindi aveva colto tutti così, un po’ immersi nelle faccende di tutti i giorni, invece che tappati in casa a sperare di non aver troppi danni.
Dal web, oltre la coltre del mio fitto sgomento, le immagini mi mostrano di nuovo le strade e le case, le auto e le persone punite da un diluvio universale. Punite loro per le colpe di tutti. Quelle strade e quelle persone. Martiri del maltempo. Vittime sacrificali di un rito senza redenzione.
E questa volta vedo anche la figura scura di un signore camminare nell’acqua alta, con le braccia che sembrano annaspare nell’aria alla ricerca di un senso, insieme a un appiglio. Ma nessuno dei due arriva e la corrente limacciosa, ribollente, lo porta via, ancora con le braccia protese in alto ma senza più peso, senza più importanza.
Sarà davvero questo il futuro del pianeta?
Un’inclemenza continua e totale, la natura che si scuote e si gratta via l’uomo dal groppone, come un cane con la rogna?
Intontita dalle immagini e le domande spengo il computer.
Guardare nel vuoto aiuta a vedere, a volte. Aiuta a prendere decisioni importanti.
Come spegnere la luce accesa più per compagnia che per bisogno. Come fare in piccoli pezzi la carta degli appunti da gettar via. Come metterli nell’apposito contenitore ed abbassare il riscaldamento.
Come andare in giardino e mettersi a raccogliere anche il più piccolo dei rametti.
E poi è passato un anno
Mi accorgo, guardando fuori, che si ripete uno scenario già visto.
Un lucore di autunno che si insinua nella natura. Non ancora un cambiamento vero: tutto è verde e robusto; gli animali zampettano e fanno versi e inseguono il cibo. Eppure… l’estate sta rallentando. Circola meno veloce quella cosa vitale che spinge e che ha fretta, che brilla, che prevale.
Il sole arriva più presto in basso, sui tetti delle casette basse. Dobbiamo ancora mangiare, la sera, e c’è già voglia di rincasare, di riposarsi, di guardar fuori da dentro.
È una sensazione amica, questa. Non piove all’improvviso addosso, nuova e imprevista, ma scivola incontro, dolce e già nota. È la prima ripetizione di un ciclo che ritorna…
“Ti rendi conto? E’ già passato un anno…”
Un anno da quando ci siamo spogliati di Roma e della nostra vecchia vita e siamo volati oltre oceano, nudi, a provare e vedere cose nuove.
Mio marito guarda oltre la finestra.
“Vado a spostare la macchina, c’è troppo vento, potrebbero cascare rami.”
E’ passato un anno e lo stupore è finito.
Come sempre, dopo che abbiamo attraversato tutte le stagioni.
L’estate, l’autunno, l’inverno e la primavera dell’America. La stagione secca e quella della pioggia in Africa. Gradi diversi di secchezza e di caldo nel Medio Oriente…
Mondi di odori e suoni, consistenze e sapori nuovi, da incamerare senza filtri, a mani e occhi spalancati.
E noi in mezzo alla nuova collettività a cercare di capire come interpreta il mondo, che abitudini tesse intorno alle stagioni. A osservare cosa indossa nelle varie circostanze. A provarci, ogni tanto, qualche nuovo indumento…
“C’è odore di pioggia in arrivo.”
Il marito rientra e sbusta il giornale che qualcuno ci lancia tutte le mattine in fondo al vialetto di casa.
“Non l’avevo ancora preso, oggi…”
Guardo il marito aprire i fogli e concentrarsi sulla lettura.
Sull’ultima pagina del giornale campeggia la pubblicità di una ditta che pulisce le canne fumarie. Meglio pensarci per tempo, dice la pagina, visto che tra poco riaccenderemo i camini…
Mi sembra giusto, mentalmente prendo nota di quest’altra cosa da fare.
E penso: è così che accade, sempre.
In un anno il ciclo si compie e tutto si aggiusta. Mettiamo ordine fra le nostre impressioni, cataloghiamo le sensazioni via via che si ripetono e finalmente le riconosciamo. Mettiamo le nostre scelte e le nostre abitudini in sintonia con la vibrazione della società in cui ci troviamo. Finché hoplà, non siamo più naufraghi smarriti, ma espatriati inseriti, calzati e vestiti.
La sera, l’idea dell’anno che è passato viene ripresa, a tavola, e fa zampillare numerose osservazioni.
“Ehi, vi ricordate un anno fa, di questi tempi, eravamo ancora a dormire per terra sui materassi gonfiabili.”
“Un anno fa non capivamo dove ci trovavamo.”
“Non sapevamo dove comprare le cose.”
“Non volevano venderci la macchina perché non avevamo una storia di credito bancario e non si fidavano.”
“Non capivamo come fare la benzina dal benzinaio.”
“Non capivamo niente quando la gente ci parlava.”
“Non sapevamo come funziona l’assicurazione sanitaria. ”
“Vi ricordate…” Ci viene spesso di dirlo, anche nei giorni successivi.
In questa ripresa dell’anno lavorativo e scolastico in cui ogni gesto, ogni ripetizione, brilla di un’allegria contenuta e soddisfatta, vibra della sensazione di rimettersi nella propria vita come in un vecchio guanto, conosciuto e comodo.
“Mamma lo scuolabus passa sempre alla stessa ora, vero?”
“E allo stesso posto.”
“Quest’anno lo prende anche il mio compagno di scuola, sai quello che abita qui vicino…”
Non è più tempo di disagi e improvvisazioni, si può cominciare a costruire la propria quotidianità. Mattoncino dopo mattoncino di nuove abitudini che, molto presto, smettono di essere nuove e rimangono a rassicurare gli animi che anche qui ci stiamo reticolando fra la gente, ci stiamo ancorando in riti e consuetudini, approcci sempre uguali, gesti ritrovati.
Lo scuolabus si ferma e apre le porte. Il solito gesto dell’autista, il mio saluto e il suo mezzo sorriso, poi le porte che si richiudono sui figli.
Rincaso fra strade e angoli di giardini, piante e parcheggi che mi salutano, mi riconoscono, mi fanno accomodare. E io mi ci muovo nel mezzo con una ritrovata leggerezza.
Nelle abitudini riflettiamo noi stessi, mi vien da meditare.
E’ come se l’immagine mentale che abbiamo di noi esplodesse e si aprisse a ventaglio in giro, posandosi su ciò che abbiamo intorno. E mentre camminiamo ci sono questi pezzi di noi sulle cose, che brillano per farsi riconoscere. Come un marchio di appartenenza, che irradia un qualcosa al nostro passaggio, e solo noi lo vediamo, perché è proprio il nostro, e significa che quella cosa ci appartiene, è la nostra storia.
A casa agguanto subito paletta e piantine e mi metto a scavar buche nel giardino.
“Gli ultimi fori della stagione, eh?”
Sorride una vicina mentre, nel terreno davanti a casa, sono china sul trapianto da vasetto a terra.
“Senti… Mi piacerebbe imparare un po’ d’italiano. Mio marito ed io viaggiamo spesso, ci piace l’Italia…”
Mi piacerebbe insegnarlo, certo. Sono disponibile per lezioni: orario e compenso flessibili.
“C’è anche un’associazione italiana che ha un progetto… e io collaboro, stiamo per fondare un gruppo di lettura, ti interessa?” Aggiungo.
“Benissimo!”
Grida e sorride la vicina, mentre batte le mani con una manifestazione di giubilo che in Italia non ho mai visto, e che qui invece capita di osservare spesso.
Sollevo la mano guantata e sorrido mentre la vicina se ne torna a casa. Mi accorgo che un po’ di quel giubilo, per esagerato e sforzato che fosse, mi è entrato dentro. Bisognerebbe davvero impegnarsi a mostrarsi più entusiasti, penso, e al vecchietto ben tenuto che passa tutti i giorni trascinando a passi lenti due bassotti grassocci lancio un “hello!” tutto vibrante.
Poi ripongo gli attrezzi, mi cambio e vado all’appuntamento con una conoscente.
Mentre guido osservo con sguardo sereno e acuto le vie, le case, lo stradone coi semafori, le costruzioni basse dell’area commerciale. I posti che ripercorro sempre.
Cammino fra i negozi di questa zona che mi piace perché ha un che di europeo.
Di recente è nata negli Stati Uniti una scuola di architettura avanzata e rispettosa delle esigenze umane, che sta rivalutando il nostro antico andamento cittadino, europeo, in cui case e negozi, uffici, luoghi di ritrovo, ristoranti, panchine e piazze si mescolano e creano spazi in cui è gradevole mescolarsi, incontrarsi, scambiare. Certo, non sarà mai come nelle nostre vecchie città, in cui quartieri interi sono nati e cresciuti con questi principi. Qui sono solo esperimenti per alcune zone ricche e colte, che nascono già pensando al benessere dei loro abitanti, oppure esperimenti in aree degradate allo stremo, come tentativo ultimo di recuperare la popolazione a un grado minimo del vivere civile.
Che peccato che in Italia tutti i nuovi quartieri stanno sorgendo sui principi opposti, americani classici: tutte le zone dove si abita da una parte, e i centri commerciali dall’altra, i poli industriali, artigianali, finanziari, medici sempre più vasti e distanti, tristi, scomodi, desolati.
Chissà perché nel mio paese non pensiamo mai di avere qualcosa di buono da esportare. Solo borsette e scarpe, macchinari, qualche eccellenza medica, qualche geniale scoperta. Ma le tradizioni, gli stili di vita nostri sempre brutti ci appaiono, sempre doverosi di cambiamento. E nemmeno sappiamo che, in altri posti del mondo, a volte vengono studiati e fanno scuola…
Anche in altri campi, fra l’altro, non sarebbe male frammischiare le tradizioni, smorzare gli atteggiamenti, penso, poi, davanti alla faccia sbigottita della conoscente. Signora italiana, col bambino all’asilo americano. Un suo compagno di classe è stato cacciato da scuola perché alzava la gonna delle bambine. Un dispetto a sfondo erotico-persecutorio, a detta degli insegnanti. Un gesto irrispettoso, lesivo della dignità delle femmine della classe.
“E non è finita qui…”
Dice il volto sgranato di sorpresa della signora.
“È arrivata una circolare a casa, che dice che sono proibiti gli scambi di bigliettini d’amore fra bambini, perfino per San Valentino.”
“Bigliettini d’amore? A cinque anni?”
“Ma sì, i foglietti i con su scritto ‘a Tommy piace Jenny’, roba così…”
Su cui si sghignazza e arrossisce, ci si imbarazza e arrabbia, sdilinquisce ma sopratutto si ride per ore, a scuola, a tutte le età. Certo, non aiutano la concentrazione, questi messaggi, dall’asilo all’ultimo anno di superiori. Ma non è questo che preoccupa i pedagoghi della scuola in questione.
Li preoccupa l’approccio all’altro sesso, la curiosità, la sperimentazione. Li preoccupa la manifestazione dell’istinto, il sorgere di una pulsione “oh my God!” già potente a cinque anni…
E il fastidio, la preoccupazione per la voglia naturale di giocare al sesso fra bambini si ammanta di argomentazioni intoccabili: “Lo cacciamo per difendere la dignità delle bambine. Per insegnare a tutti che essere femmina non significa essere alla mercé delle voglie dei maschi!”
E chi può permettersi di pensare che non sia vero? Che sotto questi argomenti sacri si celi il pruriginoso atteggiamento di chi ha orrore del sorgere spontaneo della natura in fatto di sesso. Non la reprime soltanto, ma la censura, la umilia, la mortifica.
“Povero bambino… Come vivrà d’ora in poi la scuola? Con questa macchia, con i genitori che lo sorvegliano, la diffidenza dei nuovi insegnanti…” Continua la conoscente. “Da grande secondo me diventerà uno stupratore… E tutti diranno: ‘certo, si vedeva fin da piccolo che aveva delle tendenze strane…’ E sai cosa mi fa più rabbia? Che tutto questo succede in un paese dove uno dei programmi più seguiti alla TV è una specie di Miss Italia di bambine piccolissime. Lo conosci, no?”
Lo conosco. Il reality dove le bambine si esibiscono truccate, agghindate e acconciate come piccole caricature di Barbie. A volte hanno crisi isteriche; cedono, i loro ancora giovanissimi nervi, stritolati fra le mani di genitori ansiosi di farle vedere, farle brillare, farle desiderare all’intera nazione.
“E la loro dignità, chi la tutela? La loro femminilità è mercificata nel modo più trito e più triste. Ma è mercificata, appunto, e quindi non si tocca…”
Lascio la conoscente e, mentre guido per rientrare, nonostante la notizia sul bambino e il pizzico di sconcerto che mi ha lasciato, mi trovo a guidare sciolta e sorridere mentre osservo il quartiere. Le piccole storture fanno parte del paesaggio, ormai. Le abitudini strane del paese, le mentalità diverse, i sentimenti rovesciati. Non giungono poi da così lontano. Vengono incasellati nel reparto “novità bislacche” che il cervello ha aperto, in un angolo piuttosto rifornito e in continuo aggiornamento.
È finito il viaggio d’avventura, il navigare a vista, l’occhio spalancato sullo stupore.
Sento che sta arrivando un piccolo cabotaggio di vita semplice, aria fina e pensieri liberi. E con esso la voglia di esplorare, la curiosità: cosa si può fare davvero da queste parti? Come calza questo guanto, cosa ci si può afferrare…?
Ne parlo con una nuova amica, giorni dopo, nel locale della catena di chi vuole mangiare leggero, veloce, a grandi tavoli comuni per favorire gli incontri. Anche se qui dentro hanno tutti l’aria troppo indaffarata per star lì a incontrarsi.
La nuova amica anche, mi aspetta digitando rapida su un i-phone. Perfettamente inserita nell’atmosfera industriosa degli Stati Uniti. Dove lei, come di solito si fa, è venuta a scalare successo e società, fare soldi, diventare importante.
Io mi guardo le mani, anche oggi sporche di giardinaggio. Penso a tutte le occasioni che nemmeno mi rendo conto di perdere, mentre sono nel paese delle opportunità.
Da quando viaggio ho una grande libertà di espansione. Abbandonare un lavoro stabile e la vita sedentaria mi ha fatto imparare a muovermi e scorrazzare per possibilità di vario genere. Imbarcare in progetti, iniziare e lasciare occasioni, perdere treni, saltare su comete di passaggio. Ma mai qualcosa di definito, strutturato, accreditato…
Nel locale dove siamo c’è la connessione wi-fi, a cui si aggrappano le attività industriose di quasi tutti gli altri avventori.
Studenti della vicina università, ricercatori del vicino centro di ricerca, uomini d’affari in affari, avvocati, insegnanti.
È grande, il locale. C’è posto anche per qualche mamma con figli piccoli, e per qualche amica persa in chiacchiere. Ma il brusio generale, l’operosità da alveare tecnologico lo danno gli avventori col laptop aperto sul tavolino, e l’aria pensierosa, mentre si agganciano e si lasciano portare dalle varie correnti della connessione.
E mentre la nuova amica mi descrive le tappe sicure che in America portano i cittadini volenterosi dagli studi alle specializzazioni alle carriere una domanda mi ronza intorno e si posa, inopportuna, sul piatto dell’insalata: “Dove sto, io, qui dentro?”
La fiaccola della famosa statua gira per gli Stati Uniti, entra nei locali affollati e circola fra le persone, all’evenienza. Cerca chi non sfrutta appieno la meravigliosa libertà che lei rappresenta.
Attratta dagli spettri dei disagi li scopre nascosti fra le pieghe delle giustificazioni. Li stana, li colpisce col suo fascio di luce, mettendoli in evidenza.
Mi si avvicina.
Io sto raccontando all’amica come si adatta bene alla mia vita raminga un certo tratto del mio carattere che mi fa sempre portare a spasso l’impegno come un cucciolo curioso, mai fermo e mai sazio.
La fiaccola si alza verso di me e lo scova, lì in silenzio, all’ombra, vergognoso di farsi notare: il mio disagio per non essere fra quelli che producono seriamente, per non ricevere quasi mai un corrispettivo concreto…
“Oh, devo andare! Mi aspettano allo studio.”
Dice l’amica, che per fortuna non si è accorta di nulla. Raccoglie veloce le sue cose e si alza, con la testa già produttiva. Mentre il mio disagio è lì, in ginocchio in mezzo alla stanza, con le mani sulla faccia.
Scorto l’indaffarata professionista fuori dal locale, la guardo infilare in fretta l’auto e partire da uno dei soliti larghissimi parcheggi americani.
Mi avvio alla mia, di auto, e per un momento vedo le linee rette delle strade, i cubi delle case, i cilindri dalle cime frastagliate degli alberi.
A me non mi aspetta nessuno, da nessuna parte…
È la sfida dei trasferimenti, vivere questi momenti… guardarti intorno e di colpo sentirlo così, come un mondo estremamente vuoto, il tuo.
Hai intorno delle forme, delle geometrie e non delle cose… Le strade, le case, i luoghi dove vai non hanno un messaggio per te, non ti dicono chi sei e cosa devi fare. Non sono lì per uno scopo. Sono contenitori vuoti che scintillano, inutili, al sole.
Ogni volta da capo, devi darti da fare per riempire questi contenitori di significato, di emozioni, di gratificazioni. Devi fare un trasloco al contrario per riversarci senso, in queste geometrie che hai intorno.
C’è un fragile spartiacque fra i rivoli tiepidi dell’inventiva e la corrente ghiaccia dello sgomento. E bisogna stare attenti, bisogna tenerlo su e rinforzarlo, perché quando cede, si abbassa, lascia strabordare questi scrosci improvvisi di niente…
Continuo a camminare oltre la mia macchina; me la lascio alle spalle e vado verso l’università, da cui entra ed esce un brulichio rado di studenti colorati. Coi libri sotto il braccio e l’impegno stretto fra i denti. Pirati del lavoro, dovranno saltare sul vascello di qualche opportunità, di qui a poco, e fendere colpi finché non si faranno strada, finché non potranno essere produttivi e avere il loro destino, come un bottino, nelle proprie mani.
La strada costeggia un parco, tanto per cambiare. Un assembramento di alberi di alto fusto che perdono a poco a poco la loro cilindricità, ai miei occhi. Vedo cortecce un po’ più chiare del solito sui lunghi rami e un virare all’oro delle prime foglie. Vedo l’arrivo di un autunno tiepido e pieno. Vedo una distesa di sentimenti sciolti e lievi che mi cammina accanto. Vedo la voglia di lasciarsi alle spalle il passato e crescere un qualcosa di nuovo, sfruttare la calma delle abitudini per dedicarsi ad altro.
Torno velocemente alla macchina, pronta a partire verso casa come se fosse andare verso qualcosa. E intanto nella testa mi sorridono delle nuove domande.
Allora, America, di cosa ti posso riempire? Cosa ci devo mettere in queste forme che ho intorno?
E mentre l’auto mi porta verso chissà quale inizio, sento l’aria pizzicare dei primi freschi e le piante evaporare odori e colori pieni. Sento che la mia vita promette nuove rotte e bei percorsi.
Eppure…
(secondo uragano)
Poco a poco il vento cambia.
Venti leggeri, spire, polveri impalpabili e sospiri di destino cominciano a sollevarsi. Percorrono i continenti del corpo e le acque delle circostanze. Si legano e si intrecciano, dipanano, tentano gli spazi dei luoghi e dei tempi per tessere nuove forme di esistere, nuovi stati, una minaccia…
La giovane specialista indica le analisi. “Può essere tutto, da gravissimo a niente. Non lo sappiamo ancora…”
Io rispondo, già stanca: “Ma non si è fatta un’idea? Non so, in base all’esperienza, la casistica, situazioni analoghe…”
La giovane specialista sorride affabile e scuote la testa: “Non saprei dire…”
Ecco. Ci siamo di nuovo. Sono incastrata in una ripetizione. Il corpo prigioniero degli stessi pericoli di pochi mesi fa. In un altro angolo di tessuto.
Sono presa in trappola, caduta nelle pieghe di un trabocchetto in cui per il corpo e per la mente non c’è più libertà ma i soliti percorsi tracciati dalle procedure mediche, dalle preoccupazioni.
Che raddoppiano, dopo poco. Davanti al dottore in giacca e cravatta che sembra deluso di non aver destato allarme.
Perché mia figlia sorride, gentile, senza mostrare timore.
“Forse non hai capito… potrebbe essere una situazione molto seria, la tua.”
Sembra ci tenga, sembra non aspettare altro che la gioia di poter mostrare a una ragazzina un angolo buio e freddo della vita.
“Non ti preoccupare, lo sai che qui esagerano sempre…” le dico, poi, fuori.
“Si, mamma, non importa…”
“L’importante è non ascoltarlo, vedrai che è tutto a posto…”
Non ascoltarlo…
E la mente non si trastulla più fra le acque calme delle fantasie e le particelle traslucide delle illusioni. Non può più navigare a piacimento ma deve seguire la rotta segnata dai nuovi venti, dalle correnti ineluttabili.
Si torna a casa, in queste situazioni. Con la testa ficcata fra i quattro muri di drywall e non più a spasso per progetti. A vedere lo sgomento che cerca di tappare porte e finestre, di mettere in salvo gli oggetti cari. Ma niente da fare, la perturbazione è arrivata.
E questa volta non resta fuori niente. Non si possono mettere in salvo i cocci dentro casa. Perché è proprio lì, l’occhio madre di tutti i cicloni. In mezzo alla stanza, in mezzo al corpo, in mezzo alla testa che pensa il problema.
C’è questo vortice che tutto piega e spezza, che distorce ogni luce e rumore, ogni granello di vita e lo solleva, lo avvolge intorno a se stesso, lo scaraventa lontano in un turbine di umor guasto e previsioni stanche, pelle decrepita e sguardi persi.
La casetta di robustissimi drywall. La casetta da maialino che resiste agli uragani.
Contiene questi cicloni interni, adesso, che trascinano le cose e le persone, distorcono, segnano ogni momento e ogni passaggio. Scaraventano via i minuti di di vita, violenti, e si alimentano di se stessi, prevalgono, si avvolgono nelle loro stesse spire.
I nuovi allarmi fanno muovere noi genitori torbidi, stanchi e confusi nel buio di un uragano pieno di pulviscoli ombrosi, e di spaventi celati.
E io muovo le dita, cerco con i polpastrelli la sensibilità di un altro tatto, lo sfiorarsi di un momento, che conferma di esserci e di non essere stati rapiti dalle ombre scure.
Ma, dopo tanti anni di sicurezza, di appiglio in cui il calore passava così facilmente da una mano all’altra… adesso le mie dita si muovono in un vuoto di freddo che mi punge.
La solitudine adesso è bigia e spessa, non è più una sensazione da provare mentre cammino in posti estranei ma un dolore sordo che mi porto dentro la mia stessa casa.
Sono estranei i pezzi stessi del mio corpo gli uni agli altri, e i pensieri e i sentimenti profondi. Un puzzle che si sgretola, i componenti di un meccanismo che non sa più come funzionare…
E mi chiedo come possa resistere, la casa, e fino a quanto lo farà. Quand’è che arriverà lo sfascio e il drywall si aprirà, come una bara sfondata, inondando il giardino, la strada e il bosco di quel vento nero che ci circola dentro.
Ma la casa regge e l’uragano ristagna. Non si può aprirla con un apriscatole, non si può esporre l’interno dei muri e le persone al benefico influsso delle piante…
Ci posso andare io, però, e ci vado spesso. Mi lancio di nuovo fra i boschi. Ce l’ho dappertutto, è facile da queste parti. Da casa mia, in particolare, faccio pochi metri e sono già su un sentiero che porta ad un giardinetto pubblico e da lì ad un lungo percorso lungofiume e sottobosco.
Ci vado spesso perché camminando fra i giganti buoni degli alberi, mezzi ricoperti di edera, mezzi crollati per l’uragano ma alti, vecchi e possenti, gialli e maturi in questa stagione dell’anno e con il cielo blu che sprizza fra le foglie e fa un capolino pieno di luce. Camminando fra di loro sento lo spazio delle sensazioni che si allarga, si allarga e poi si apre, e diventa una landa vasta e pulita, sulla quale gli uragani scorrono e passano, senza appigli per fermarsi e fomentare.
Perché tutto il resto, tutto è un contenitore vuoto che ha bisogno di questo grosso sforzo per riempirsi di senso. Mentre la natura è lì che ti circonda, piena e rigogliosa, col suo senso che basta a se stesso e non devi fare nessuno sforzo, anzi, ne puoi prendere a piene mani.
La luce si stacca dalle cose per entrare a scivolarmi fra i pensieri. Mi attira lo sguardo su, alle foglie bordate di autunno, che se ne stanno in un punto lontano da ogni solitudine, in contatto diretto e frusciante con la vita.
La terra composta, scricchiolante delle prime foglie secche, formicola sotto i miei piedi un chiacchiericcio allegro di frasi. Come se commentasse il mio passaggio, e ridesse di questa buffa pianta che si muove, e fa rumore.
Come una pianta. Parte della natura, piena di forza e di senso.
Capisco, in un momento. E sento con chiarezza che questa volta non serve andare via. Non devo riconnettermi al mio tessuto d’origine, non voglio trovare parole amorevoli e gesti rassicuranti.
Non ho bisogno di nessuno, adesso. Sono irraggiungibile a qualsiasi aiuto. E quindi non ne dipendo. Farò tutto e farò bene. Senza disperdermi, senza burrasche. I problemi caricati su una piccola zattera da traghettare fino alle soluzioni, tutti ammonticchiati e legati il più possibile lontano dai sentimenti.
Una folata di gratitudine mi solleva all’improvviso i sentimenti. Alza le vesti allo sgomento e lo fa scappar via, vergognoso.
Non è per cercare un impiego. Non è per avere gratificazioni esterne e un ruolo nella società che sarò passata, nella mia vita, da questo paese.
Ma per ricevere questa forza dell’isolamento, questo temprarsi del coraggio alla fiamma dell’esempio.
Per capire che da dentro e non da fuori partono le soluzioni.
E poco a poco i venti si fanno lievi.
Dal centro della mente in mezzo alla stanza dentro la casetta, si alzano spire leggere di speranza, di conferme e poi di guarigioni serene.
Il drywall con tutto quello che c’era dentro era robusto, dopo tutto. Assiste paziente e benevolo al diradarsi delle brume, al posarsi delle polveri. La casa sicura e bianca, anziana, saggia, rimane solida e limpida a contenere i tessuti che rimarginano le ferite. Le mani che riescono finalmente a trovarsi e stringersi. Gli sguardi che vedono di nuovo lontano.
La solita musica
È quasi Natale.
Non so bene come ci sono arrivata; mentre gli uragani si disperdevano devo aver perso un poco il senso del tempo…
A tornare in Italia non ci abbiamo pensato. Spese grevi, un gran trambusto… E ancora aspettavamo i vari responsi, la figlia era convalescente di un piccolo intervento. No, non abbiamo pensato a partire.
“Che bello, ci godremo un Natale bianco, alla maniera americana.”
“Con il caminetto acceso e la neve che fiocca.”
“Le canzoni di Natale e le decorazioni ovunque…”
La famiglia intera è entusiasta all’idea di esplorare questa festività qui in America.
Scopriamo presto che si sprecano le une e le altre, la musica e le decorazioni, da queste parti. La musica si ripete su ogni radio, in ogni locale pubblico, ti riecheggia in testa e ti ritrovi a fischiettarla tutto il giorno. Insieme ai vicini di casa, ai famigliari, agli amici. E’un bombardamento di musiche tradizionali, sempre quelle, più un paio di canzoni recenti, che a forza di ascoltarle ti diventano vecchie all’orecchio pure loro.
Non ne sono sicura, ma non mi sembra che in Italia sia così. Non avevo notato questa monotematicità in scelte musicali, dalle nostre parti. Qui è una vera ossessione. Sembra di vivere in un cartone animato di Walt Disney, dove Minnie e Topolino camminano fra strade addobbate e Jingle Bells li segue ovunque.
Poi ci sono le decorazioni. Ovunque anche quelle. Non soltanto le luminarie pagate con una colletta fra i negozianti di una strada per vedere di attirare un po’ più di clienti come dalle nostre parti, no: una vera gara fra vicini a chi ha più lucine colorate appese sui cespugli, tutte bianche a pioggia dalle grondaie, come una distesa di lucciole sui tronchi spogli degli alberi… e poi a forma di renna, di pacco regalo, di slitta… e fiocchi rossi enormi sulle porte, festoni di frasche sempreverdi sulle staccionate, perfino ghirlande appese ai cofani delle auto.
“Lo facciamo anche noi? Eh? Mettiamo anche noi le decorazioni?”
“Ma certo!”
Siamo rimasti apposta, per vivere la circostanza alla maniera di qui…
E nei giorni a seguire ci adeguiamo ai costumi.
Il nostro albero di natale (alto fino al soffitto, ma qui i soffitti sono tutti bassi, sui due metri e mezzo circa, quindi non un albero stratosferico) è così carico di palle, fiocchi e lampadine che alcuni rami cedono, piegandosi fino a terra in un tenero gesto di resa.
“Mi sa che le decorazioni sull’albero bastano…”
“Ci vogliono quelle per fuori, adesso!”
Non ci pensiamo neppure, a contrastare questo desiderio, anzi, ci affrettiamo ad assecondarlo. E non solo per il brivido di adeguarsi, per connettersi a questi vicini coi giacconi e i nasi rossi che sbuffano nuvolette compiaciute mentre ti salutano.
Come sempre, quando fai giardinaggio, o fai i lanci con la palla da baseball, lavi l’auto… e desti questo entusiastico: “Come stai?” Che è come un riconoscimento, un sigillo: fai le mie stesse cose, amico, e quindi fai parte della mia stessa comunità. Ti riconosco, mi riconosco nelle tue attività, ti saluto e così facendo sancisco la nostra appartenenza comune a qualcosa di giusto.
Anche mentre distribuiamo metrature esorbitanti di lucine in giardino riceviamo questo tipo di saluto, di gratificazione.
Ma non è questo il motivo principale che ci ha spinti fuori, nel vento gelido, a intirizzirci le mani sui cespugli e le ringhiere. Sotto la luce fioca che fatica a traversare gli strati grigiastri di un cielo uniforme e sempre più scuro.
E’ anche e sopratutto per quello strato nero che, ogni pomeriggio un po’ più presto, seppellisce in angoli lontani e invisibili anche gli oggetti più vicini. Vorresti metterti in testa una corona di candele e girare implorando alla luce di tornare, da queste parti, la sera.
Ma da qualche tempo, mentre il buio ti formicola addosso un disagio che è quasi fastidio, in alcuni tratti delle strade lunghe e silenziose arriva il sollievo vivace delle luminarie del Natale.
Alcune sono programmate per accendersi in automatico al calar del sole, altre si illuminano in momenti diversi, accese da vicini solerti. E sono piccoli punti di ristoro per gli occhi in cerca di qualcosa.
Anche noi, quindi, adesso vogliamo fare la nostra parte per alleviare il disagio dei viandanti…
Ci muoviamo in mezzo a un buio completo, con gli ultimi metri di luci in mano, e in fretta finiamo di sparpagliarli in percorsi imprevedibili. Poi attacchiamo la spina e ci beiamo del nostro lavoro, che crea un bell’effetto movimentato, un po’ anarchico. Chissà che ne penseranno gli altri. Magari a loro guardare la nostra opera d’arte farà l’effetto di prendersi un pugno in un occhio. Le loro lucine seguono schematici disegni tutti simmetrie e regolarità…
Sia che abbiano gradito, sia che si siano infastiditi, arrivano pochi giorni dopo, i vicini, a cantare le canzoncine di Natale. Suonano il campanello, e appena apro la porta si mettono a suonare (un ragazzino con la tromba e un altro al sax) e cantare (bambini piccoli in un coretto da professionisti) alcuni classici del natale. Gli stessi che circolano da settimane su tutte le radio, in tutti gli ambienti pubblici ecc. ecc.
Questa improvvisata mi inchioda, estatica, sulla soglia di casa. Stringendo le braccia per il freddo pungente, rapita dallo spettacolo.
Il cartone animato ha preso vita, è cresciuto, si è incarnato nei nostri vicini e ci ha raggiunto, ci ha inglobato…
Poi mi riprendo, chiamo gli altri di casa a raccolta: “Ehi, venite! Venite a vedere!”
E arrivano le ragazze, con le facce curiose. Manca il piccolo che, mi spiegano, appena ha sentito suonare si è nascosto nell’angolo più nascosto del seminterrato.
Forse devo farlo esorcizzare…
Le sorelle ed io, e qualche minuto dopo anche il marito rincasato dal lavoro, ci godiamo lo spettacolo con stampata sulle facce un’espressione piena di vibrante felicità natalizia, amore per il prossimo, armonia con il vicinato.
I vicini, vedendo che gradiamo, continuano le loro canzoncine, una dopo l’altra. Proprio loro, i vicini così riservati, quelli che ci hanno sorpreso con il gesto dei biscottini all’inizio ma che poi si sono dileguati dietro le spesse barriere della riservatezza, quelli che non fanno rumore, non li vedi e non li senti, hanno 5 figli ma non si vedono né si sentono e hai sempre paura di non stargli simpatico e di non essere capito e di non capirli. Loro, adesso, sono tutti lì, insieme ad un’altra vicina e un paio di figli di lei, e tutti insieme, sorridendo, suonando e cantando per te…
Vien naturale sbracciarsi subito, appena hanno finito, per farli accomodare dentro, mostrar loro il nostro albero, il nostro presepe. E quelli entrano tutti, un po’ rigidi e sulle punte ma entrano e si guardano intorno, e intonano un paio di altre canzoncine, già che ci sono. E questa volta anche noi lasciamo strabordare il nostro grato senso di amore natalizio in melodiche rincorse alle loro così ben confezionate performance.
E’ il momento di sciogliere l’atmosfera, di sedersi un attimo, bersi magari un bicchiere di qualcosa e guardarsi gioiosi e complici negli occhi. E’ l’epilogo felice in cui si sciolgono i ghiacci, si avvicinano i continenti e magari anche io riesco a fare amicizia con i vicini. Penso.
“Un prosecco? Una tazza di té? Una fetta di panettone, un succo per i ragazzi?”
Invece ecco il solito ritrarsi, il solito rinculare veloce, il solito sorridere ancora di più per dire che no grazie, se ne stanno proprio andando.
“Sedetevi un momento, parliamo, accendo il camino…”
“No grazie. Grazie molte.”
Chiudo la porta dietro la folata di illusioni che se ne va, con i vicini musicanti. E mi stringo un attimo fra le braccia.
“Ho preso freddo…”
“Che c’è da mangiare?”
Questa figlia ha sempre fame. Una crescita poderosa, un gioioso appetito di vita, una ricerca regolare di cibo.
La mando a stanare il fratello e vado a preparare.
“Ma dovrete aspettare, stasera abbiamo ospiti.”
Intanto rifletto su questo fatto, che io continuo a fraintendere, a più di un anno dal mio arrivo. Non sono ancora riuscita a distinguere, si incontrano ancora e vanno a braccetto, nel mio cervello, i riti di cortesia con il contatto umano. Che da queste parti, invece, son cose ben distinte.
I primi si sprecano e fanno da trama a tutti i comportamenti fondanti: dimostrarsi uniti, sentire la community e confermarsi di essere americani, in sintonia con il paese e le regole. Il che ha il suo indiscutibile fascino: sentire così forti e così proprie le poche tradizioni che ti legano a tutti gli altri.
“Non me lo sarei mai aspettato, prima di vivere qui…” Dico a tavola.
Spiego quanto mi stupisce che gli americani fra cui mi sono trovata ad abitare abbiano messo con così tanta cura le loro esistenze sul piccolo e solido perno delle tradizioni.
Questi momenti d’intesa collettiva, in cui si fa tutti esattamente la stessa cosa e con lo stesso spirito, gli appartengono proprio. Se li cercano, li rispettano, li vivono con fervente sollecitudine. Ogni festa comandata e la mattina di domenica in chiesa (di qualsiasi confessione si tratti), e poi i Barbecue della Scuola, i Travestimenti di Halloween, i Tacchini del Ringraziamento, le Luminarie del Natale….
Una gara fra vicini a chi esegue nel modo più corretto e più sentito le varie fasi del rito. Le decorazioni fuori, gli auguri giusti e con la giusta intonazione sparati a chiunque trovi per strada, l’abbigliamento, lo stato mentale e sopratutto gli acquisti… tutto si confà a questa intesa comune di essere d’accordo sul fare tutti insieme quella cosa. Incredibile. E fantastico, a modo suo.
“Di che farci una nazione che cresce e si impone, crede così tanto in se stessa da diventare un modello urbi et orbi.”
“Sì ma… Mi domando: non è che osservi questo perché vivi in un certo ambiente?” Ribatte un commensale.
E’ vero. Noi tutti, in fondo, viviamo in questi quartieri molto bianchi, protestanti. Suburbi residenziali per famiglie che imperniano la propria esistenza su quanto di più bianco, protestante e famigliare ci sia. Compresa la voglia di vivere tutti stretti in circolo intorno al fuoco delle proprie tradizioni…
“Questo quartiere, poi, è così wasp… Lo sapete che fino a pochi decenni fa neppure gli Italiani erano graditi, da queste parti? E in generale tutti i cattolici.” Racconta un invitato. “Poi però, in un moto di testardaggine tipicamente made in USA, un avvocato cattolico ha deciso che gli sarebbe piaciuto vivere proprio qui, per l’appunto; in questo quartiere.”
E siccome era americano, testardo, e anche avvocato, e siccome gli americani hanno questa straordinaria facoltà di creare delle situazioni incredibili e poi di saperle, incredibilmente, cancellare, l’avvocato cattolico e testardo ha vinto un paio di cause e quindi ha potuto comprare il suo appezzamento e costruirci la sua casa. Aprendo la strada a un infiltramento di cattolici e italiani che è proseguito, seppur contenuto, fino ad arrivare a noi.
“Che però – dico io- come gli altri italiani e cattolici che vivono qui, non disturbiamo le tradizioni…”
Siamo gente di mimesi, che viaggia e si adegua, rispetta, non impone usi e costumi diversi da quelli che trova. Il quartiere continua a vivere secondo i dettami più stretti delle tradizioni americane bianche, eterosessuali e protestanti.
Che sono poi quelle che, al di là e al di sopra delle infinite varianti di razza e cultura che si rimescolano in questo calderone, sono proprio quelle che si impongono nella collettività dei cervelli come “americane” sia per chi vive qui sia per chi le osserva dall’estero, attraverso le canzoni, la letteratura, i film.
“Sono diventate modello per tutti. Le abbiamo incamerate ben bene.”
Prendiamo il Natale in Italia: in quale città non si addobba l’albero, non ci si inventano missioni impossibili di Babbo Natale, non si va in giro per febbrili acquisti? E poi, negli ultimi anni, quale città non ha messo su la sua pista per il ghiaccio, ha costruito enormi mall dove aggirarsi con consumistico sgomento, ha scoperto le decorazioni sulle facciate, i tormentoni alla “White Christmas”?
“Sì, però da noi è diverso. Facciamo le stesse cose, ma in modo diverso.” Ribatte un ospite.
“È vero. Noi italiani i riti li viviamo ognuno per conto proprio…
Estendendoli tutt’al più, e con mugugno, alla famiglia; con le diverse varianti regionali, con i rancori, i ripensamenti e le critiche che destano sempre in noi i momenti di impegno collettivo. Mentre per gli americani sono momenti in cui le collettività si trovano e si impegnano a fondo nel sentirsi, gioiosamente, comunità.
“Eh, le solite generalizzazioni -rilancia un commensale- l’America è anche la culla della contestazione, dei movimenti alternativi. Prendete San Francisco.”
La patria dell’alternativa. Il luogo che contraddice tutto questo perbenismo wasp…
Certo, San Francisco da decenni fende le acque placide del conformismo con ondate di pura ribellione, e scandalose virate fuori dagli schemi.
L’ho già vista tre volte, nel giro di venticinque anni, e ogni volta m’è parsa piccola, piccola e domestica; in contraddizione a tutto ciò che di enorme, vitale e glorioso hanno caratteristicamente le metropoli americane. Fra le colline che salgono e scendono in una specie di luna park urbano i piccoli tram su rotaia tagliano i quartieri così ben definiti, divisi per tradizioni: quello italiano, quello cinese, quello del porto, quello hippy…
“Non c’è una casa uguale all’altra, non un colore in tono con l’altro.”
Vero anche questo. Forme e vernici sembra facciano a gara a chi riesce a essere più diverso. Anche le casette antiche, affiancate l’una all’altra con i loro portoni vivaci, con gli stipiti lavorati e le grondaie decorate, i piccoli scalini che portano all’entrata affiancati da ringhiere le più varie.
Anche nelle parti più esotiche, come le case dei cinesi: decorazioni di stucchi dorati e rossi, lanterne, draghi, coprono ovunque le facciate. Come se l’arredamento di quello che per noi è un ristorante cinese un po’ kitch, un po’ acchiappacitrulli, fosse esploso, coprendo le strade di oggetti strabilianti.
E poi fra i residuati degli anni settanta. Le sfilze di negozi che mettono foga e gusto a stupire con i gadget più strampalati. Parrucche di tutti i colori, abiti usati di ogni epoca, costumi di ogni tipo, libri inediti, chilum di ogni foggia, tatuaggi, perle in vinile. Tutta una gara a raggiungere la meta dell’originalità.
“A parte l’imbarazzo di spiegare l’utilizzo di alcuni oggetti in vetrina ai ragazzi, però, non è che mi dessero molte emozioni. Erano gli stessi negozi di tanti anni fa, solo più opachi, con gente più spenta dentro…”
“E gli hippies? Ci sono ancora gli hippies?”
“No, l’ultima volta che l’ho visitata, questa estate, non c’erano più.”
Del movimento in cui tutti si sentivano liberi come l’aria e più ottimisti della Dorothy del mago di Oz rimane solo qualche pulmino Volkswagen dipinto di fiori, qua e là.
Il movimento di canzoni e tinte forti, sogni chimici, amore universale si è dissolto, è svaporato. Ha costruito niente, ha spennellato di colore queste strade e qualche canzone. Riecheggia in anfratti di cuore di chi l’ha intravisto e ne ha preso di schiso l’onda d’urto. Ha visto i fratelli maggiori partire con lo zaino in groppa e attraversare l’America a piedi, su mezzi di fortuna, fermandosi in case dove tutto era in comune e suonando canzoni su chitarre che erano costate tutti i soldi rimasti. Tutto facile, permesso, possibile. Deve essere stata una potente allucinazione collettiva. Un intestardirsi a vivere nella fantasia, come aggrapparsi a un sogno piacevole prima della veglia.
Gli abitanti di San Francisco stanno a occhi chiusi e pugni stretti, si muovono ancora nel sogno che vive fuori dagli schemi e contro il sistema.
Nella realtà di quel che resta del sogno c’è voglia di distinguersi, di non intrupparsi, di pensare secondo coscienza e natura. Tutti: dal primo all’ultimo.
Come potrebbe essere diversamente?
“A pensarci bene, Da San Francisco i benpensanti conservatori sono banditi come i freak dai sobborghi di Bethesda…”
La ribellione collettiva. In fondo anche questo di stupire e stare fuori dagli schemi è diventato uno standard.
“Mutando quel che c’è da mutare, anche a San Francisco la regola americana non si smentisce. Tutti insieme, tutti a rendere omaggio al rito collettivo di turno, che in questo caso è l’originalità…”
Inverno
La cosa che più mi dispiace è che la neve, tanto attesa, non è arrivata. Il freddo schiaffeggia la regione a giorni alterni. Fra il clima tiepido e piovoso si infilano, all’improvviso, queste giornate terse e fredde che pungono per la bellezza del sole e la rigidità dell’aria. Ma quando il cielo si decide a covare e far uscire vapori acquosi dal suo ventre di nubi, allora son giornate calde, che ti appiccicano di pioggerella fina il corpo e ti schiacciano di cielo grigio l’umore.
L’inverno è appena cominciato. I tronchi sono spogli, i cespugli secchi, i colori opachi.
Le piante morte sono in realtà in segreto fermento. Tutta una vita celata che pare bloccata ma che, invece, porta un granello di energia per volta attraverso i giorni e le intemperie, lo transita e lo conserva ma lo trasforma anche, invisibilmente, e lo prepara allo sbocciare, di qui a qualche mese.
Fa impressione, vedere le piante morte. E sapere che in realtà vivranno ancora. Che piano piano, senza farsi notare, resiste e pulsa la loro potenza, sprofondata giù in chissà quali fibre della natura.
Anche io lavoro piano e quasi in segreto.
Non lo racconto neanche a me stessa che ho ripreso a sognare ed impegnarmi, a tessere le mie tante trame di iniziative fatte di incontri, idee e speranze. Una linfa stolida e pervicace mi formicola nel profondo e mette in circolo le forze che si ostinano a lavorare, senza avere un lavoro. Riprendo a connettere le parole, a giocare con i significati. A studiare e propagare e discutere fantasie.
I progetti riprendono e le aspettative, gli investimenti senza vuoto a rendere. Nonostante i veti accigliati della ragione, ha ripreso il sopravvento la natura, il nocciolo pervicace del bastone vecchio. Che si è indurito, oramai. Ha passato venti e tempeste e botte: si è rinforzato in tutti i suoi convincimenti sbagliati. E si lancia, felice e sguaiato, su una nuova corrente di vento invernale. Chissà dove lo porterà.
Oggi è una giornata fredda e alla fermata dell’autobus noto questa novità: che a noi non ci fa più freddo. Ci siamo abituati, non usciamo più conciati come un esploratore artico. Adesso ci muoviamo, anche fra i venti rasi del mattino, senza cappello e senza guanti, un po’ sopra e un po’ sotto lo zero. E finalmente osserviamo quasi da pari a pari i vicini tedeschi i quali invece, forse in seguito alle bastonature della salute, si sono decisi a coprirsi con giacche quasi adeguate alla stagione.
Sempre alla solita fermata di bus. Sempre con le solite osservazioni inconsistenti da primo mattino. Saluto i ragazzi e il conducente, vedo il giallo del bus rimpicciolire lungo la prospettiva del viale trafficato. Penso ai bastoni e alla linfa sbagliata che mi circola dentro.
Rientro a casa camminando fra le nuvolette di fumo del fiato. Salutando gli alberi che se ne stanno secchi e pazienti a covare la primavera nel profondo dei tronchi.
Mi guardo in fondo e vedo il mio nocciolo vivo e vegeto; la linfa che circola idee evanescenti e ostinate non mi sgomenta. Scorre benigna, nella lentezza ricca dell’inverno.