A dire il vero, all’epoca di Leopardi il genere letterario investigativo, il cosiddetto giallo, era agli albori o meglio non era ancora stato inventato in quanto tale, mentre andava già molto di moda la Cina e la sua lingua.
Già Montaigne aveva mostrato ammirazione per alcune consuetudini della vita cinese, valutandola nazione importante perché inesplicabile. Ma è nel Seicento che la cultura europea rimane affascinata da quella ‘terra curiosa’ e dalla sua lingua, soprattutto quella scritta. Bacone aveva ipotizzato che fosse una lingua artificiale, costruita però con caratteri ‘reali’, capaci cioè di esprimere la struttura delle cose del mondo. Poi Leibniz si era interessato alla traduzione, da parte di Joachim Bouvet de Il libro delle mutazioni (I Qing), e al postulato secondo cui la scrittura cinese aveva derivazione dai segni divinatori (esagrammi) lì utilizzati. Qualcosa che Leibniz credeva di poter accostare alla sua ricerca di una lingua ‘caratteristica’, con la quale fosse possibile dedurre tutto lo scibile partendo da Tutto e Nulla, i due elementi radicali. Bouvet lanciò anche l’idea di una clavis sinica, da lui scoperta, con la quale era possibile aprire il mistero del legame tra la saggezza primitiva del popolo cinese e il codice della sua scrittura.
Gli intellettuali occidentali sono portati a credere di scoprire quello che inventano, difatti la sua intuizione rimase inspiegata, anche a esplicita richiesta di chiarimenti da parte di Leibniz. Eppure, forse Bouvet aveva toccato appena un punto importante, quello dello strambo rapporto tra scrittura ideografica e anima cinese, una strana magia che ha permesso a quella civiltà di rimanere quasi immutabile, coerente e unita.
C’è da dire che Leibniz, oltre a essere studioso della cultura cinese, fu anche fra i primi ad analizzare il nesso tra pensiero e linguaggio, e in questo senso della scrittura cinese aveva sostenuto: “Se ci fosse un certo numero di caratteri fondamentali di cui gli altri non fossero che combinazioni, avrebbe qualche analogia con l’analisi dei pensieri” [1].
In realtà, non c’è nulla di intellettuale nella scrittura cinese, che è tutto meno che un’algebra in cui simboli scelti vengono combinati a rappresentare le nozioni principali, e le cui derivazioni servono poi a esaminare le idee. Niente è più lontano dalla verità del guardare ai caratteri come a dei rebus, delle combinazioni meccaniche di segni da decifrare. Essi, come spiega Marcel Granet, sono stati invece concepiti come degli emblemi potenti, in grado di interagire coi fatti: “Il merito principale della scrittura figurativa sta nel fatto che essa permette ai segni grafici, e attraverso essi alle parole, di dare l’impressione che valgano in quanto forze attive, in quanto forze reali”.
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Giacomo Leopardi comincia a investigare sulla lingua e la scrittura cinesi nell’aprile del 1821, con accanto e su sollecitazione di alcune letture, e sono proprio gli anni in cui la sua teoria delle lingue prende corpo. “La grand’opera della lingua fa stupire il filosofo che vi pensa”, scrive aprendo una lunga meditazione o investigazione sul nesso tra storia della lingua e vicende culturali e spirituali di popoli e nazioni. Invece del cinese non se ne occuperà più già dopo il maggio dello stesso anno, se non per cenni e per tornarvi brevemente nel 1828, citando in francese un articolo sull’uso dei caratteri in Mongolia e in Giappone. Un interesse breve ma approfondito che rivela e suscita stupore ancora oggi.
Farà altra menzione della Cina, per esempio a dimostrazione della diversità di gusto e d’opinione (come quando critica l’uso cinese di storpiarsi e farsi il piede piccolo perché ciò è reputato bello, mentre il bello deve essere secondo natura, vale a dire conveniente). Nel resto della sua opera solo qualche citazione esotizzante, oppure storica come nella giovanile Storia dell’Astronomia,completata nel 1815. Sebbene la predilezione per l’oriente sia palese in ogni periodo della sua scrittura, e nonostante la convinzione che l’origine stessa del genere umano, delle letterature e della civilizzazione fosse in oriente, lungi da lui il parlarne con tono fantastico, come avevano fatto in molti da Platone in poi, se si eccettua forse la meditazione musicale del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Da subito o quasi evita ogni fascinazione di tipo illuminista, allora molto in voga.
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