S’era sentita un colpo dentro.
Quando il cuore frana e poi pare poggiare sulla gomma.
Su e giù, a stringersi e a slargarsi come gli storni in volo.
Il podere verso la Contotta non ha più mezzadro, aveva detto il figlio grande. Se sposo, lo mando avanti io.
Certo che sposava.
Per esserci, la moglie c’era. Pronta già da un pezzo: bastava solo dire il giorno, anche a un’ora bassa, e la ragazza ci veniva sì, in chiesa, e senza tante storie.
La Palmira fece segno di niente e continuò a rompere le cime dei cornetti, come se il mondo, tutto il mondo, stesse nel cavo della gonna, fra le sue ginocchia.
Due colpi netti.
E nell’aria galleggiava quel rumore verde e secco.
Senza cambiare nulla.
Il figlio così se ne era andato, nei giorni giusti di san Martino.
Anche l’altro, un anno dopo, a tenere la stalla delle Stoffe.
A fare i figli tardi, non li si vorrebbe più lasciare andare.
Uguale, la Palmira muoveva i materassi a settimana, nella stanza vuota dei ragazzi, perché la piuma non diventasse feltro.
E le veniva da cercare i pantaloni da ripiegare bene e le giacche da riporre nell’armadio.
Le tasche rovesciate e scosse, per togliere il tabacco, sennò le cuciture intristiscono, malate.
Come, tanti anni prima, aveva imparato con la sua bambina: la stanza sempre rassettata, anche se lei non c’era più. Il pettine in linea con lo specchio, i mobili tirati con il panno, le lenzuola rinfrescate a primavera.
Perché le cose tengono. E li mostrano, i segni della cura.
Restano lì, se non le cacci via. A fare una quieta compagnia.
Eppure, in certe giornate dell’inverno lungo, la Palmira non sapeva darsi una ragione.
L’ombra, che arrivava nel cortile, entrava per la serratura e le passava diritta dentro il petto: allora la voce del fuoco si abbassava, gli odori restavano aldilà del muro.
Che ne sapeva il vecchio… Il vecchio se ne stava fuori: le carte, il vino, i conti sul libretto.
Ma lei.
Ogni gesto perdeva la misura. Il mangiare cucinato a mezzogiorno serviva anche la sera e il tempo aveva poca forza, come fatto di lana da una maglia sfatta.
Allora lo chiese a suo marito, che l’ascoltò, incerto fra il ridere e lo sbattere la porta.
Voleva una torre. Una torre, come quella dei piccioni.
Una stanza piccolina sopra il tetto o un comignolo grande.
Che ci stesse una sedia.
Per guardare la sera le case dei suoi figli, da lontano: là dove c’era il lampione dell’incrocio, là dove il caseificio non spegneva il faro, là dove il buio sembrava un po’ più chiaro e silenzioso.
[Tratto da Margini di Zena Roncada, a cura di Lucia Saetta, Pentàgora 2013]