Presentimento del Sublime

di in: Bazar

Joseph Mallord William Turner, Shields Lighthouse (c. 1823-6)

Quel silenzio, davvero prodigioso. Il silenzio, più di tutto il silenzio.

Ogni movimento veniva da lontano, appena un fruscio, carezza di cotone su una guancia; grazia che manca di voce. Drappi minuscoli, sfiniti, laggiù le vele, lentissime, le diresti immobili; solchi invisibili nella radura del mare, lui che solo annulla i confini, fa di molti un corpo e una vita. Più oltre, dove l’orizzonte sbianca, bastimenti, enormi macchie che puoi sollevare sulla punta dell’indice, tra le dita schiacciarle oppure nasconderle alla vista, farne ricordo.

Niente nel cielo, niente; nuvole, strisce di vapori ora densi ora senza fuoco, di quelli che talvolta ti passeggiano sulla testa persino nelle giornate più terse, no, nemmeno loro. E ai margini di questo quadro immenso certi avanzi di terra privi di carne: Grado, credo, forse quella sarà l’Istria, Pirano magari è laggiù o m’illudo.

C’è un punto in questo stretto sentiero, dove amava passeggiare un poeta dopo un vagabondaggio tortuoso nella boscaglia, in mezzo a nude rocce, cespugli crespi, macchie basse e verdissime di rovi, forse ginepri, fra arbusti di scarsa fierezza, è qui che la scogliera s’inabissa con coraggio, da tutta quest’altezza precipita giù, senza paura. Non conosce il modo di raggiungerci la voce delle onde, che rovinano tormentose, un’indolenza che dentro sfama la febbre del tempo e della fine, quella voce qui non esiste; come allora la superba bonaccia del primo pomeriggio di nuovo dona l’ascolto.

Sfórzati, avanti. Un rumore, se ricordi.

Insetti. Api, chissà, turbinare di fiacchi mosconi, ronzio che si spegne fra i pochi fiori, le molte trame dell’erba, tutt’attorno alle sue mani, alle tue che affondano nella terra. Alle gambe, ai piedi nudi che una brezza leggerissima traversa, mentre le dita ubriache d’euforia improvvisano una danza; libera, muta, disperata.

Convocarsi di uccelli. Non sa decifrarne la provenienza, i disegni sono frenetici, passeggeri. Una, due volte occupa il suo sguardo un volo sinuoso, pieno d’incertezza. Più spedite sentinelle fanno adunate confuse, presto scomposte. Ma nessuno simula la maestà di un gabbiano. Gli piacerebbe vederne quassù; li sa fra gli scogli però, verso la comodità di spiagge lontane.

Nessuno passa. Nessuno osserva. La sua solitudine, quello che mi circonda.

Immerso nell’erba un corpo, dentro un pomeriggio d’estate, che non avrà eguale, che non conoscerà ritorno, nascosto dentro un limite, questo, parte di un limite ancora più grande, mentre l’ombra del tempo trafigge la tua vita. Colossale perdita di istanti nei secoli che si sposano, nella polvere passata che ferisce e nutre e mai di questo si sazia.

Nullità, che decadi, tu trionfi: non è così?

Perché noi, dillo, noi proprio quando sentiamo, ci sperdiamo in vapore, sentiamo e già facciamo morte a noi stessi, perdiamo, esaliamo quello che ci resta dentro, il fumo, l’avanzo di un attimo; c’è più forza nella brace che nel fuoco, più dolore e tenacia nella cenere che nella fiamma? Chi parla di vittorie? Resistere oggi è tutto; trattenere con la voce delle tracce, non cedere all’ombra continua questo spettro di luce improvvisa: è vero? Dimmelo.

Qui essere, ora. Puro milionesimo di secondo sovrano, ma finito, già s’offusca il ricordo, l’entusiasmo, e le attrici dell’inganno, testimoni crudelissime, loro che l’orgoglio soccorrono, queste parole si contaminano oramai, spegnendo il fuoco nella pronuncia. Che limpido, sovrano banchetto, ma è stato. Avanzi lontani, sbiaditi il circo malinconico dei piaceri e degli affanni, i più vani come i più necessari; eppure torna il loro assedio, piantano ancora le tende davanti alle nostre mura trasparenti, che appena un soffio ammala e punisce.

Quel suo sorridere, questa mia gioia. Sì, tutt’a un tratto un sbocco di furibonda gioia, di incomprensibile gioia. Riaverli, di nuovo andare alla dolcezza feroce di piacere senza motivo, di vene che impazziscono, calore sulle tempie che pare darti la morte mentre rinasci. Occhi che perdono la possibilità di vedere, ma conquistano tutto il corpo in quegli istanti isolato, per assurdo separato da se stesso, occhi che vivono di una vita nuova, l’unica.

Un punto, amico caro, guárdati, un punto senza prima né dopo, sperso in un vortice di universa materia, sublime pasto di morte cose. Immaginazione destinata a essere medicata dalla fierezza e subito dopo dal rancore.

Rendi grazie alla fine che così ti fa sentire. Questo, tutto questo muore, ma ora io sono, mi appartengo, nulla potrà sottrarmi, anche se tutto è più forte, più grande, questa frana secolare, eterno logorare senza nome, senza futuro, destino, rinascita, macché trionfo, quale vittoria alla fine di tutto, quale?

Vulnerabilità, eccola, innocentissima, lei sola basta.

Ma proprio tu non pretendere riscatto, non cercare di salvarti.

I giorni attendo e le notti; per quella gioia che pareva appartenere ad un altro darei qualunque cosa, qualunque per riabbracciarla, riaverla nel sentimento di quell’istante, materno e perfido.

Meraviglia che ogni giorno profano, quest’infame carne decompone misericordia e lucida coscienza per farne abitudine, cadavere del desiderio, suo sigillo impenetrabile.

Umanissima religione della presenza, torna da me.

Giusto pochi istanti le tue mani hanno potuto stringere, possedere intero un corpo, una vita; ma che miraggio ancora una volta sfiorare quello che da sempre t’appartiene, che è tuo. Ne è fuoriuscito nient’altro che questo, questo piccolo seme, timido vapore di clessidra. Magari bastasse a scaldare altri inverni, altre assenze.

 

* Questo testo è un estratto da Allemanda fantasiosa con qualche tremore, quarto movimento della raccolta inedita Requiem ultimo. Sinfonia di prose, divagazioni, racconti per voce sola, di cui sono apparse anticipazioni su varie riviste.