Teresa d’Avila a Juan de La Cruz
Avila, 14 agosto 1577
Sebbene sia notte, Juan, sto vegliando nella mia cella. Veglio e prego immersa nel buio e nel vuoto come prima o dopo ogni visione. Ad un tratto, in questo vuoto profondo, qualcosa palpita: il fuoco di una stella si muove nel cielo, si sposta da un punto all’altro, lasciando dietro di sé una scia luminosa. Non è visione divina, ma immagine della natura che però vuole dirmi qualcosa: forse che questo spazio infinito e silenzioso contiene in sé cose che sembrano immobili ma in realtà sono traversate da una vibrazione: creature d’ogni genere, minerali e vegetali, angeli, animali, stelle. E le vicende umane che camminano per la loro strada, come formiche pellegrine, e gli uomini stessi che camminano coi piedi aderenti alla terra. Tutto si muove, dalla stella al piede umano, tutto ha il suo percorso da compiere. Il battito del cuore, le stagioni, gli umori, i pensieri umani, tutto si muta e trasforma, seguendo il ritmo di un’armonia che è di terra e di cielo al tempo stesso.
Noi ci fermiamo per contemplare e comprendere lo spazio celeste in cui la notte e il giorno si avvicendano, perché ci riporta l’immagine sconfinata, seppure terrena, di Dio; questo smisurato vuoto che gli occhi vedono davanti a sé è immagine di quello che noi, nascendo, ci portiamo dentro occultato nel corpo e nell’anima. Ma questo vuoto, Juan, è occupato da un fuoco, è il fuoco stesso, incandescente, mobile e inavvicinabile. Il divino che arde e riscalda si fa comunque azione,movimento interno e ed esterno. Questa azione si fa tempo, è il tempo stesso, sempre in cammino verso il Mistero sacro.
Questa meditazione – sosta, ripresa del fiato dopo un respiro, sonno dopo la veglia – ci è necessaria: è l’immagine del monaco che si richiude tra le mura della cella, la notte, in preghiera. Ma, al mattino, riprende a camminare. Come dopo un lutto si riprendono le abitudini quotidiane che il dolore aveva interrotto, si riprende il lavoro, si riprende a parlare coi fratelli, a sorridere con loro, ad ascoltarli e soccorrerli. Anche la gioia e la meraviglia sono interruzioni del respiro, del ritmo del tempo quotidiano. Ma noi non si può rimanere oltre misura meravigliati o gioiosi, oltre misura a lutto e taciturni. Così l’estasi e la visione che ci conducono nel tempo divino non devono durare molto: al corpo – questo animale domestico legato alla terra – non è dato indugiare troppo nelle altezze silenziose. Solo a poco a poco si eserciterà a quelle brevi morti, allo spossessamento di ogni emozione o intelligenza terrena, finché il suo ciclo mortale, il suo tempo, non si esaurirà, per volontà di Dio.
Accettare il mutamento è accettare la corruttibilità e la morte, la ricerca e l’imperfezione dell’anima, e del tempo il naturale divenire.. Perché l’’invisibile trova la sua conferma nel visibile, l’assoluto nel provvisorio: è l’immagine del pellegrino che infine esce dalla cella e va nel mondo.
Voi non siete nato solo per godere di Dio in silenzio, chiuderlo nelle segrete dell’anima senza condividerlo con tutti i fratelli – siano essi potenti o miserabili – come fece Gesù col pane e il vino: vino e pane, sangue e carne, ariosa parola e tangibile opera.
Non solo di deserti o di picchi inaccessibili è fatto il mondo. L’assoluto ci possiede solo in parte; altro è l’assoluto e altro il desiderio. Ma è attraverso il desiderio che facciamo esperienza dell’assoluto.
Dentro e fuori di noi dobbiamo camminare, affrontare pericoli e fatica, tentando con ogni mezzo di tradurre in atti ciò che le visioni e la nostra regola ci indicano. Nessuno è statua, nessuno è sasso, nessuno è prigioniero di nessuno. Neppure il silenzio è fermo e vuoto, ma vibra di suoni umani, animali e divini, è fatto del battito del nostro piccolo cuore, è attraversato dalle voci dei venti e delle acque, come dalle armonie estatiche.
Il fuoco che dentro vi arde non appartiene solo a voi ma risplende per ognuno e, liberandolo nel dono ai fratelli, si moltiplicherà in fiamme che andranno a scaldare e illuminare anime e luoghi da voi lontanissimi.
Tutta la terra è costellata da luci vibranti, così come nella notte le stelle e i pianeti si accendono, nel buio, di vita amorosa. Perché sappiamo che il Mistero cammina su infinite strade e in infiniti modi, tanti quante sono le anime mosse dal desiderio. San Crisostomo diceva «se sono malato, appena mi metto a predicare, guarisco». Anche a me, afflitta da tanti malanni, accade lo stesso miracolo non appena mi metto in viaggio.
Ciò che vi dico, Juan, già lo conoscete e assai meglio di me; ma intendo ricordarvelo ora, mentre si costringe il vostro corpo all’immobilità e alla sofferenza. Che vi sia di conforto il dono della visione, la contemplazione di Cristo, o semplicemente il desiderio di Lui; che infonda al vostro corpo l’energia necessaria per resistere a questa prova durissima! Che vi dia, oltre l’estasi dei cieli, anche la visione di tutto il dolore, l’ingiustizia e la perversità della terra – e soprattutto l’impegno di continuare, una volta libero, a combattere, nella realtà quotidiana, tutto questo!
La visione, la meditazione, l’orazione, provengono da un fuoco assoluto e silenzioso, e bruciano. Ma per ultima viene l’azione, che porta in sé l‘essenza di tutte e tre, e deve compiersi e consumarsi ora e qui, dentro il tempo cadùco.
Consoliamoci entrambi, condividendo i travagli; e se ora vi trovate prigioniero dei nostri fratelli, anche per me, in questo momento, si invoca il silenzio dei monasteri: alle donne della Chiesa non è concesso parlare e far udire la loro voce nel mondo. Così si è pronunciato il Concilio a Trento, ribadendo la parola di San Paolo, e c’è chi si avvale di quella parola per condannarmi come «donna inquieta, girovaga, disubbidiente e contumace».
Ma io non mi sono fermata solo a un testo della Sacra Scrittura e a tutte quelle parole scritte che possono essere fraintese da uomini dall’anima diversa. Io sono andata dove il Signore mi chiama, dove mi dice di non fermarmi mai, anche disubbidendo agli altri fratelli, per portare nel mondo, la sua parola.
Come avrei edificato le mie fondazioni senza uscire da queste mura? E San Francesco, come avrebbe predicato ai suoi poveri senza camminare?
Io so che questa lettera riuscirà a raggiungervi, non temete. Varcherà le sbarre del carcere, penetrerà nelle segrete dove vi tengono senza luce : l’ho visto stanotte, mentre vegliavo. E ho visto il muro della vostra cella lentamente sgretolarsi, farsi aria – e voi infine, alzarvi, fuggire per le strade di Toledo, in una notte di luna, brulicante di stelle.
Anche se, altro è vedere e altro è dire, voi andrete a narrare ai fratelli le visioni del Monte Carmelo, riversando il dono della parola anche nella scrittura. In quel regno dove silenzio e azione coincidono, la parola si fermerà sulla carta per riprendere il suo cammino dentro le anime.
Così sarà anche per Voi che entrate dove non sapete e restate senza sapere, trascendendo ogni scienza, sebbene sia notte…
Teresa
Figlia di un mercante di stoffe di Toledo, Teresa de Cepeda y Ahumada nasce ad Avila nel 1515. Mistica e visionaria, nel 1562 fonda il primo monastero delle carmelitane scalze, in cui ripristina la regola ascetica della clausura e della povertà. Scrive il Castillo interior, le Relationes (fra cui un’autodifesa scritta per essere inviata al Tribunale dell’Inquisizione), le Fundaciones e il celebre Libro de su vida. Nella stessa Avila nasce Juan de la Cruz nel 1542, figlio di un umile tessitore. Discepolo e amico di Teresa, da lei è indotto a fondare il ramo maschile dei carmelitani «scalzi», avviando così la lotta contro i «calzati». Nel 1577, è arrestato come eretico e imprigionato in una cella del convento dei «calzati», a Toledo. Dopo nove mesi d’isolamento, durante i quali comincia a scrivere i suoi Cantos spirituales, fugge avventurosamente dalla prigionia e riprende la sua opera di evangelizzazione.
SPLENDIDO TESTO! Lo trovo molto stimolante sia nei temi proposti che dal punto di vista linguistico.