Al mattino, la ricognizione a al-Arish mostra che il fiume gonfio e furioso ha scavato profondamente il suo letto fangoso nella viva terra, impossibile passarlo, siamo bloccati al di qua della riva sinistra e non v’è che attendere che il Dio dell’Islam voglia inaridire il torrente e darci libero passo. Tutta la giornata passa in dolce ozio, distesi al sole vivificante o gironzolando attorno negli stretti confini del nostro dominio.
Kalaat el Neckhel (il Castello dei datteri) sorge isolato nella piana sabbiosa: da tre secoli le sue tozze torri, le mura massicce dominano sul deserto offrendo ai pellegrini della Mecca il loro solido riparo. Il comandante Nasr Habib ci viene incontro con cordialità nella elegante e attillata uniforme egiziana; da sette anni risiede al forte, nella pesante solitudine del deserto. Magnifici soldati pittorescamente drappeggiati presentano le armi alla porta. In un vano, due prigionieri fumano tranquillamente aspettando il ritorno del Mudir partito in ispezione ad Akaba;il suo appartamento privato è scavato nelle mura e si apre chiaro e arioso sul piccolo verdissimo giardino della guarnigione: vi è tutto un minuscolo angolo d’Inghilterra pieno di agi, ninnoli e pace; vi si sente la mano delicata della signora padrona dell’incantevole eremo. Nel vecchio castello solitario, ognuno si è scavato una sua nicchia e la vita della grande famiglia scorre tranquilla e piacevole.
Neckhel è il centro amministrativo e strategico della vasta penisola del Sinai; il Mudir dal suo studio comunica telefonicamente coi tre vertici del triangolo: con sottili fili d’acciaio tiene avvinta sotto di sé una popolazione nomade e selvaggia che mai conobbe padrone alcuno ma che ora piega il capo sotto un uomo solo, un Inglese!
Grande festa oggi nella tenda, il passaggio verso Gerusalemme attraverso la frontiera turca è accordato. I gentilissimi ufficiali ci danno le prime notizie dell’Europa: apprendo l’assassinio di Butros Pascià per opera dei nazionalisti, il successo di Chantecler a Parigi. Stanotte e domattina ci fermiamo per le provviste e per l’acqua: formiamo una nuova carovana. Lo scrivano arabo riempie un grande foglio di segni misteriosi, è il contratto con lo sceicco del Neckhel per i cammelli, lunga trattativa poi, l’ultimo geroglifico e il foglio è firmato. Le luci si spengono nel castello, vedo le sagome delle due sentinelle ritte e immobili profilarsi verso occidente nel cielo incomparabilmente puro.
Di primo mattino, in nostro onore, gli splendidi soldati montati su cammelli da corsa si esibiscono in uno sfrenato galoppo: l’urlo dei cammelli, poi la svolta repentina verso di noi, gli animali tornano pazienti e dignitosi, solo nella pupilla dilatata si legge lo sforzo della corsa pazza.
Si parte, la nostra scorta è formata da quattro bei giovani abbronzati e agili, stretti in una tunica di tela greggia, pantaloni a sbuffo e larghe bende accuratamente avvolte sulle gambe; sul capo un morbido scialle di lana azzurro pallido trattenuto attorno alla fronte da un doppio cordone nero: accovacciati sui loro cammelli corridori coprono immense distanze senza mai rallentare il lungo trotto cadenzato. Hanno modi urbani, gesti fieri, vigili al nostro minimo desiderio, infondono il loro zelo perfino agli indolenti beduini che ci conducono.
Kusseinah è l’ultimo posto avanzato sulla frontiera Egizio-Turca: una casetta candida sulla vetta di un’alta piramide di sabbia, una decina di soldati allineati sull’attenti davanti alla porta e dentro un fresco delizioso tra nude pareti bianche. Il Mudir di Neckhel ci manda il suo ultimo saluto lungo il fragile filo d’acciaio che ci ha seguito per tre giorni. La nostra scorta aumenta di altri quattro ascari sui loro superbi cammelli. Lasciamo l’Egitto, un piccolo cumulo di pietre sulla collina dinnanzi a noi, al di là di miseri campicelli di grano scomposti e sabbiosi, è la frontiera. I nostri bravi ascari ci lasciano e scompaiono tra le dune al trotto rapido e molle dei loro cammelli. Siamo in Turchia, il deserto continua infinito, indifferente all’ideale barriera che lo taglia separando due popoli che si odiano.
Gli aromatici arboscelli del Sinai tornano a mostrarsi con il loro acuto sentore; il mio beduino racconta che qui presso un vecchio serpente nero si mostra al calar del sole gemendo come un agnellino che chiami sua madre: nessuno ha mai osato cercarne il covo e ucciderlo. Non una bandiera, nessun uomo di vedetta; solo la sera un cavaliere passa tra le tende salutandoci in arabo, è in cerca di due beduini che pare abbiano più di un furto sulla coscienza. È marzo, si comincia a sentire l’appressarsi della Palestina, della terra verdeggiante e ubertosa odorante di aranci e di fiori sotto il sole primaverile. Solo una riga bianca nel verde segna il luogo dove sorgeva la città ebraica di Rehoboth, ora ridotta un ammasso di pietre, alcune conservano qualche frammento di ornato. Un piccolo forte arabo, distrutto, giace sul fondo della valle e a metà pendio un serbatoio d’acqua ancora rivestito interamente di pietre di taglio. Sparse tende nere di nomadi presso un pozzo scavato nella viva roccia: bellissimi tipi siriani dalla pelle quasi bianca e il portamento maestoso; dal fondo delle tende si affaccia qualche donna avvolta in veli neri di cui si scorge solo il luccichio dei gioielli e degli sguardi. Sulla collina di fronte, i bianchi informi resti di Elasa: la sabbia riprende il suo dominio, il deserto ricomincia dove l’antica città è morta.
Giunti a Berseba (in arabo Bir-es-Seba’, “I sette pozzi”) la città israelita spunta in vedetta all’orlo del deserto; abbandoniamo qui la carovana: proseguiremo soli verso Gerusalemme. Casette basse, massicce di un uniforme color giallo, nicchie imbottite di merci, mercanti dai visi placidi fumano indifferenti sdraiati su cumuli di tappeti; una lunga strada polverosa e sul fondo l’agile minareto della moschea.
Il Kaimacan ci riceve in un’immensa camera bianca disadorna. Soldati, ufficiali e fannulloni entrano dietro a noi e si siedono attenti ai nostri discorsi: la conversazione con l’alto funzionario turco procede arida e stentata, piena di complimenti stereotipati e di lunghe pause pensose. Avremo un gendarme di scorta, asinelli da cavalcare e la protezione di Allah. All’alba giungono gli animali: tanto piccini, tanto ridicoli sulle loro esili gambette da non poter essere presi sul serio ma trottano alla pari del grande cammello del gendarme di scorta. La sabbia ci abbandona, il sentiero si scava il passo tra rocciose colline ricoperte di arbusti verdi simili ai nostri rododendri; gli asinelli ci portano attraverso varchi impenetrabili, nei letti dei torrenti, sul ciglio di burroni cercando loro stessi la via senza un attimo di esitazione. Daharieh, poi avanti verso Hebron fra monti aspri, frustati da un vento che sa di neve, piove e nevica ad un tempo: siamo in sella da dodici ore e Hebron non appare sino alle 10 di sera. Vie deserte, vaghi profili di case basse, di volte sonore, di cani accucciati nel turbinio del nevischio; infine un vecchio ebreo dalla lunga barba bianca ci apre la sua locanda disadorna e i battenti si richiudono sui lenti rintocchi della campana che giungono fiochi dalla chiesa ricordandoci che la città santa è vicina. La piccola Ester col suo fare di bambina viziata ci prega di attenerci alle regole ebraiche: si farà dunque come lei vuole e ci asterremo di bere del latte prima di mangiare il pollo e di spalmare la crema sul pane.
Si parte per Gerusalemme, in vettura questa volta: un vecchio landeau sudicio e sciancato trascinato da tre cavalli. Piove a scrosci, nubi grigie si rintanano sulle verdi colline, una brezza gelida che intirizzisce. Dopo tre ore, uno forte schianto tra le ruote, arresto, urla del vetturale: la molla davanti è spezzata. Nel fango, tra le raffiche, per un’ora intera ci adoperiamo per riparare il guasto sperimentando ogni soluzione possibile spronati dal terrore di dover passare qui la notte. Alla meglio la molla è fasciata e raddrizzata, i cavalli partono al galoppo; il vento furioso squarcia per un istante la nebbia verso nord e appare una visione fantastica, un miracolo: Gerusalemme, la santa città tutta rosa tra le mura nere, si erge eterna indistruttibile.
Prima visita al Santo Sepolcro: l’impressione è stata profonda ma anche di grande scoramento nel vedere lo stato miserando in cui le diverse sette religiose hanno trascinato questa meraviglia. Non tenterò nemmeno di descrivere Gerusalemme, non ne avrei il tempo né mi sentirei di farlo.
Riprendo queste note dopo dieci giorni, lasciata Gerusalemme senza rimpianto il 17 marzo con una piccola carovana di sette muli per noi e bagagli e un gendarme di scorta. La prima sera dormimmo a Gerico in un piccolo albergo tutto in legno pulito e grazioso ma pieno di tedeschi. Il mattino dopo, traversata del Giordano gonfio e giallo; poi la salita al Moab, l’alta catena di monti che stringono il Mar Morto all’est. Il terzo giorno, Amman: rovine greco-romane e una splendida moschea araba in sfacelo; dalla cittadella la vista sul paese e sulla ferrovia dell’Hejaz è magnifica. La linea della ferrovia che conduce alla Mecca è stata realizzata dall’ex sultano Abdul Hamid con sottoscrizioni pubbliche. Lavoro magnifico, ma disorganizzato come tutto in Turchia; di settanta macchine, trenta sole sono in grado di marciare. I treni partono tre volte la settimana da Damasco e arrivano quando vogliono: gli orari esistono solo di nome, vagoni di terza classe. Dodici ore da Amman a Maan per Petra; la notte passa lenta e a ogni stazione un soldato turco ci fa la guardia col fucile in spalla. Maan è l’ultima stazione cui possiamo giungere perché non musulmani, oltre, ci è precluso il passaggio. In un vero deserto senza un filo d’erba la stazione ha accanto una piccola locanda, vi alloggiamo; il padrone è italiano, buon diavolo, onesto, i letti duri ma puliti. La mattina partenza per Petra: otto ore dopo emergono dal deserto i primi monti di scisto rosa. Un’enorme fenditura vi serpeggia, i cavalli procedono con fatica nel greto di un torrente impetuoso, le pareti rocciose prendono un colore di sangue rappreso; un’ora di percorso e l’apparizione! In una laceratura della roccia appare un imponente tempio greco-romano tutto scavato, cesellato, lisciato, traforato nella roccia viva della montagna. Un oggetto mostruoso nella sua bellezza! Le sculture delle colonne e dei capitelli appaiono integre come appena scolpite, i bassorilievi sono invece corrosi dall’acqua come pure le basi delle enormi colonne di sostegno di questo tempio di Isis: una meraviglia di raffinatezza e di bizzarria architettonica, un’immagine difficile da scordare. Proseguiamo nella spaccatura sanguigna tetra e solenne; al nostro fianco ci segue un profondo incavo in cui un tempo scorreva il torrente incanalato dai Nabatei, fondatori di Petra. L’oppressione delle muraglie compatte finisce e una moltitudine di tombe aprono le loro bocche nere nel rosa dello scisto: un’architettura pesante, solida simile all’egiziana o anche all’assira. Poi, templi a colonnati massicci corrosi e dilavati dalle intemperie, un anfiteatro greco, altre tombe, scale di pietra intagliate nei massi, labirinti intricati di caverne, sotterranei, gallerie tortuose. La sera scende, dormiamo in una tomba nabatea nera e profonda; acceso il fuoco, il soffitto si rivela interamente striato di volute rosse e blu. Due giorni passiamo a Petra, tempo perfido, piove e soffia vento gelido: altri templi, altre tombe: la meravigliosa città morta. Scale dai gradini friabili conducono a nuove meraviglie, a insospettati splendidi edifici. Lascio Petra con grande rammarico, do l’addio alla caverna che ci ospitò tanto generosamente regalandoci soltanto una lieve pioggerella di sabbia che a ogni parola pronunciata ad alta voce cadeva su di noi.
Ritorno a Maan soffocati da vento e pioggia: la ferrovia è rotta a 100 miglia al nord, il treno partirà quando piacerà ad Allah. Attesa snervante, con ventiquattro ore di ritardo ripartiamo in compagnia di soldati allegri e chiassosi; verso Amman a mezzanotte, la luna illumina larghe chiazze di neve. Cambio di treno per Tiberiade; diluvia ma per fortuna un eccellente buffet ci accoglie. Con un treno francese, in tre ore siamo a Semack: come si sta bene su morbidi cuscini dopo tante panche dure; la Palestina è verde e odora di fiori sbocciati, l’acqua scorre dolcemente e l’intero paesaggio sfuma di tinte morbide. Imbarco per Tiberiade, c’è vento forte, la barca si piega sotto la vela latina ma i battellieri sono assai abili: eccoci infine, all’ospizio dei buoni frati francescani. Siamo a 200 metri sotto il livello del mare; la cittadina,quasi interamente ebrea, è graziosa con casette blu ad archi, piccole moschee e il Castello delle Crociate che la domina.
Damasco è una delusione, del resto da me prevista; dov’è l’Oriente? Il vero Oriente? E pensare che la guida Baedaecker parla di Damasco come la città più ribelle all’influsso europeo; perfino i tram elettrici la attraversano. Dopodomani andremo a Palmira, 300 chilometri nel deserto, e con quale mezzo? Una vera e propria automobile di 30 cavalli, l’unica in tutta la Siria, ci porterà colà in dieci ore e a prezzo modico.
Damasco ha tuttavia ancora qualcosa di bello nei bazar pieni di vita, di contrasti inattesi, di cani. Ogni artigiano ha la sua botteghina scavata in una nicchia, lì lavora e vende cose carine assai e a buon mercato.
Alle cinque del mattino attraversiamo la città in automobile: corsa pazza per le strade deserte di Damasco addormentata; disturbiamo dal sonno solo i cani che fuggono urlando nell’oscurità. Lo chauffeur è tedesco, esperto e intelligente, le vie sono oscure, l’auto sobbalza violentemente nelle fosse profonde scavate dall’acqua sulla strada. Si procede quasi alla cieca: poco a poco i profili delle piante, dei pioppi, delle betulle biancheggiano nella luce lunare. A tre ore dall’ultimo villaggio attraversato, il terreno si fa acquitrinoso, il motore fatica: poco dopo arresto netto! La macchina è sprofondata nel fango sino all’asse della ruota; lavoriamo per più di un’ora con zappa e cric per liberarla; il terrore di passare la notte in questo deserto aguzza l’ingegno, lentamente la pesante auto si solleva, un ultimo sforzo ed è libera. Grida di trionfo ma il cambio di velocità non funziona regolarmente, lo sforzo del motore deve aver rotto qualche dente dell’ingranaggio. Proseguiamo a sbalzi, spingendo la macchina, arrancando nel fango coperti di mota.
Sulle colline alla nostra destra, appaiono le prime tende nere dei nomadi; all’orizzonte, la massa rosata di un villaggio arabo: al Quaryatain, a mezza strada tra Damasco e Palmira. Alloggiamo al kann, i meccanici sotto l’automobile cercano la causa del guasto: i denti dell’innesto sono spezzati, nulla da fare siamo bloccati. La sera, pranzo atrocemente arabo dal Mudir, per convincerlo a darci due soldati di scorta e cavalli per l’indomani onde recarci a Palmira, torneremo da Homs. L’automobile dovrà fare un ben triste rientro a Damasco trainata da una lunga fila di cammelli, fieri certo di condurre il cadavere del concorrente sconfitto.
Abbiamo cinque cavalli, due ascari montati e un cammello; Abdallah, un arabo cristiano ci accompagnerà. Procediamo di buon passo, tutti armati: siamo nelle terre dei nomadi. Il mio cavallo è un bel baio scuro, la piccola testa mobile, fine, belle gambe nervose; peccato abbia un galoppo terribilmente duro. Si mangia in sella; lontano tra i miraggi, si profila una torre diroccata e a sinistra una casetta bassa anch’essa in rovina: la nostra tappa di stanotte; è notte nera quando giungiamo dinnanzi a una porta sfondata aperta nelle mura di fango disseccato. È un antico caracol, posto di guardia, da anni abbandonato. L’interno è in sfacelo, occupiamo un basso antro oscuro completamente vuoto; grande fuoco di sterco di cammello: fumo asfissiante, montiamo i lettini da campo. Ad un tratto, Mohammed si precipita sul suo fucile e lo spiana nell’oscurità; corriamo alla porta con le armi pronte: il buio è totale, ombre confuse si muovono nella notte, sono beduini che vogliono entrare con i loro armenti; il momento è teso, vedo l’ascaro che freddamente carica il fucile e spara, grida soffocate di paura poi un galoppo di bestie in fuga e la pace regna di nuovo nel deserto.
Alle quattro del mattino, la luna illumina la pianura triste, lontanissimo brillano i fuochi dei beduini. In marcia verso Palmira: la tappa sarà lunga, prevedo quattordici ore. Il sole si leva pallido fra le brume del mattino, lunghe tende nere e basse macchiano il verde dell’infinita distesa: abbiamo passato la notte in pieno accampamento di arabi nomadi. Il nostro Abdallah si dice amico delle tribù, rallentiamo il passo dei cavalli non essendo conforme agli usi avvicinarsi alle tende al galoppo. Greggi di pecore dalla testa nera fuggono davanti a noi in masse lanose; sotto una grande tenda, i beduini stendono soffici tappeti dalle tinte sbiadite: saluti, inchini, domande di convenienza sul nostro viaggio, sulla nostra salute, poi, secondo il cerimoniale arabo, si beve il caffè dell’ospitalità in piccole tazze senza manico. Le donne, tutte tatuate in azzurro fin sopra il labbro inferiore, si tengono in disparte silenziose mentre gli uomini seduti in cerchio ammirano noi e le nostre armi. Gli stessi che oggi ci ospitano, stanotte forse ci attaccheranno: solo la tenda è spazio sacro per loro. Si mangia latte acido e pane caldo sottile come un foglio; è tardi, partiamo tra le protesta d’amicizia e le benedizioni di tutta la tribù. Il sole alto abbrucia; lontano sul fondo si ritaglia contro il cielo una collina piramidale dal culmine coronato dalle torri di un castello. Al di là, Palmira ci attende nascosta e misteriosa; nove ore più tardi passiamo ai lati della fortezza: una meraviglia medioevale, solida, massiccia. Solitaria si erge sulla nuda roccia dominando il deserto; appaiono le prime torri sepolcrali che cingevano la città: edifici quadrangolari altissimi con piccole porte scavate alla base fra pietre enormi. All’interno, un fasto che sorprende e abbaglia: sopra i sarcofaghi laterali ormai distrutti, un cornicione greco quasi intatto è intagliato nella pietra; il soffitto a cassettoni porta i busti dei defunti, alcuni ancora campeggianti nell’azzurro dello sfondo; un’arte stranamente barbara e deformata dello stile greco-romano. Una grande valle nuda disseminata di tombe ci si apre davanti, ancora pochi passi ed ecco la meraviglia! Tutta Palmira è sotto di noi sparsa nella sabbia dorata sotto il sole cadente.
Il giorno intero tra le rovine, vagando fra le mille colonne svelte e dritte che fuggono da ogni parte in lunghe file rosee; isolati nella sabbia sorgono piccoli tempietti agili dalle nicchie scolpite a festoni intrecciati. Cos’era Palmira al tempo in cui numerose carovane vi affluivano da ogni parte dell’immenso deserto arabico cariche di merci preziose. A quale grado di splendore doveva essere giunta se ora, distrutta dai terremoti, dal fuoco e dagli arabi, ancora rizza le sue colonne al cielo superba, bella ed immensa. Più tardi, dalle torri del Castello di Saladino, la dominiamo tutta e allora le sue linee grandiose appaiono sotto di noi nella loro armonica ampiezza segnata dai colonnati infiniti che ora si scorgono sottili e diafani nelle ombre della sera. Scesi dal Castello, subiamo una vera ramanzina dai nostri buoni zaptiè, i militari, che inquieti ci avevano cercato per ore tra le rovine.
Siamo ospiti dello sceicco del luogo, Mohammed Abdallah, cortese e onesto; grand’uomo agli occhi degli arabi per essere stato a Parigi con una contessa (La Perouse) che si era invaghita di lui.
Sul confine ultimo del deserto, prima dell’oasi verdeggiante che nasconde il villaggio di Tadmur, si erge enorme e massiccio il Tempio del Sole edificato dalla regina Zenobia nel 270 avanti Cristo; le imponenti colonne ancora lo stringono tutt’attorno sostenute da pietre ciclopiche ammassate sulla sabbia. A oriente della città morta presso le dune, si apre una cripta angusta e bassa attraverso la quale strisciando giungiamo a una vasta caverna sotterranea sostenuta da un’ampia volta di pietra. Nelle quattro pareti sono praticate nicchie dove i Palmireni solevano murare i sarcofaghi dei defunti; affreschi dai colori ancora vivi coprono le pareti: figure di donne con acconciature romane e uomini in toga tra intrecci di pampini. Nell’uscire dal sotterraneo, scivolo e resto sospeso col capo all’ingiù tra i muri di terra, mentre mi estraggono tirandomi per le gambe vedo vicino un frammento di cornicione in marmo coperto dei più puri caratteri palmireni, il resto dell’enorme porta è ancora sepolto nella sabbia che ricopre chissà quali altri tesori!
Addio Palmira, la piccola carovana passa sotto ai superbi colonnati, tra le fondamenta, le tombe: cavalli e uomini impiccioliscono tra le rovine ciclopiche. Così come ci è apparsa, d’un sol tratto Palmira scompare ora a noi, per sempre.
La vita nel deserto ricomincia; dormiamo all’aria aperta vegliando a turno. La steppa attorno appare uniforme: l’8 aprile giungiamo a Homs e da lì verso Aleppo che lasciamo il 12.
Notte purissima, sveglia alle quattro: paziente attesa dei cocchieri e della scorta; i primi arrivano calmi e sorridenti, i secondi non sono d’accordo sulla strada che ci siamo prefissi di percorrere. Le ultime case di Aleppo si allontanano; vetture simili a gondole variopinte, cavalli eccellenti, cocchiere curdo con lunghe scarpe mongole e enorme turbante giallo. Presto la strada sparisce, attraversiamo le colline procedendo nel letto di un torrente, poi tra campi di grano e graziosi paesi; cani affamati, scheletrici. Sotto il sole cocente, passano cavalieri armati, gruppi di contadini con lunghi coltellacci luccicanti, donne tatuate. Azashi, poche case d’argilla e paglia, gente fiera armata fino ai denti; alloggiamo in una piccola camera bianca attorniati da cani ringhiosi e bei bambini che giocano con loro famigliarmente. All’alba ripartiamo, il cocchiere curdo vocalizza in falsetto nella sua lingua incomprensibile; gruppi di muli risuonano dei cento sonagli dai toni acuti e gravi,donne dai corpi svelti ed estremità delicate indossano pantaloni a sbuffo sotto la gonna arricciata e corta. Siamo in piena Turchia, la lingua è più armoniosa. Le molle della nostra vettura sembrano volersi spezzare da un momento all’altro. Un ascaro ci raggiunge al galoppo per accompagnarci: ordine del Valì, il governatore. S’indovina il gran fiume fra gli ultimi contrafforti all’orizzonte: ampia valle dai fianchi morbidi, verdissimi. Al di là, Birejick.
Birejick, tutta bianca, annidata tra le rocce sporge i suoi cento balconi moreschi sulle acque dell’Eufrate che corre, mugghia fumante nella sua furia impotente e ha riflessi d’acciaio sotto il cielo burrascoso: è al massimo della piena e della larghezza, 300 metri!
Penosamente avanza una barca dalla forme tozze di gondola spezzata nel mezzo; curdi nudi dai visi feroci la trascinano a strappi cantando. Si staccano i cavalli, che si rifiutano nitrendo di terrore, a viva forza sono imbarcati e incatenati; una folla di Turchi si ammassa per salire. D’un balzo, l’enorme barca, presa dalla furia della corrente, viene trascinata via tra le urla dei barcaioli curvi su lunghe pertiche; l’acqua furibonda la scaglia contro la fila di case che hanno le basi immerse nel fiume: gli abitanti seduti sulle verande osservano indifferenti. Comandi rauchi, secchi e un rapido movimento circolare del remo ci fa andare a sbattere con violenza contro una muraglia a picco: siamo arrivati, pare sia questo il modo usuale di arrestarsi.
Piccolo bazar pittoresco, strade deserte dai porticati moreschi, case bianche con balconcini chiusi da grate intrecciate, silenziose, misteriose. Ovunque giunge la voce possente dell’Eufrate, è come lo scroscio di mille cascate unite in un solo rombo lontano e minaccioso, La nostra casetta aperta sul fiume lo guarda, lo teme.
Seguiamo il dorso della collina: primo villaggio turcomanno, una serie di coni d’argilla che si susseguono sulle falde di rilievi isolati; le donne hanno pettinature artistiche con lunghe trecce ricadenti sulle tempie. Al tramonto giungiamo a Suruç; alloggiamo in un piccolo kann dalle volte a sesto acuto, l’unica via è gremita da Turchi dall’aria fiera che offrono monete antiche, per lo più romane, a prezzi esorbitanti. Dalla terrazza del kann godiamo di un tramonto di fuoco; l’umile minareto blu della moschea si staglia nel cielo, è l’ora della preghiera e il dolce salmodiare si diffonde sulla piana verde. Al galoppo, passa la posta turca al suono festoso di cento sonagli e scompare nella polvere.
Al fondo di una larga vallata, appaiono le tre cupole bianche del convento armeno di Orfa; la città è fresca, luminosa, mollemente adagiata tra il verde dei pioppi e del grano; a destra, la cittadella di pietre gialle spezzate e corrose. Caffè turchi sotto i pergolati, strade strette tortuose, case senza finestre. Passata una porta di ferro, la grande corte a portici, ombrosa, con al centro una fontana araba e due snelli olivi: siamo nella missione dei Cappuccini. Una cella nuda di calce dove il sole entra a fasci insieme al canto degli uccelli. Fuori, nei vicoli solitari dell’antica Edessa, le case sembrano fortezze, i cristiani delle varie sette, e in specie gli Armeni, vivono nell’angoscia di nuovi massacri.
L’arabo non è capito, regnano sovrane la lingua curda e turca: mercanti inturbantati di bianco, di verde, di azzurro trascinano nella polvere tappeti persiani con larghi disegni dai colori tenui, armoniosi. Nei giardini di Orfa ai piedi della moschea, un grande bacino in pietra dalle acque chiare; il buon Padre che ci guida si accosta con un fascio di lattuga tra le mani: a centinaia, a migliaia forse, accorrono grosse carpe azzurre che balzano, lottano, s’ammucchiano per addentare le foglie: groviglio di corpi viscidi, luccicanti, convulsi. Mi faccio avanti con nuovo cibo e le mie mani sentono il contatto di quelle bocche molli e fredde, Sono sacre le carpe dello stagno di Abraham e nessuno osa toccarle. Strana devozione che si perde nella notte dei tempi, probabilmente un avanzo del culto di Atargatis (400 a.C.)
Dall’alto della cittadella spiccano i dieci snelli minareti, la grande moschea al centro circondata da giardini, le casette bianche traforate e sulla sommità la massa bianca triste e nuda della chiesa armena: quindici anni fa, i Turchi vi trucidarono 2000 donne armene.
Tappeti stesi sotto pergolati di viti e lillà, qui passano la giornata Turchi silenziosi e gravi; li imito e il narghilè gorgoglia, il suo fumo sottile e profumato raggiunge il cervello addormentando i nervi e infondendo un intenso benessere, grande riposo nella mente velata.
Lasciamo Orfa addormentata nel sole e partiamo al suono discorde dei sonagli, campi di grano a perdita d’occhio, verdissimi, ondeggianti; in una sosta, un ragazzino curdo regge il cavallo del zaptiè, gendarme, e gli canta dolcemente sdraiato nell’erba. Al tramonto montiamo i lettini da campo in una tana oscura che sarebbe l’hotel del paese. Accanto a me, Turchi dai turbanti variopinti pregano rivolti verso oriente, non mi vedono neppure, guardano in direzione della Mecca estatici, raccolti.
Verso Severek: steppa piana verdeggiante, deserta, parvenza di strada; al fondo verso nord, s’inseguono le montagne del Tauro bianche di neve. La città è nera, umile e bassa, attraversiamo l’animato bazar scortati da due ufficiali e da soldati: la gente ha tratti turchi leggermente mongoli, ampi turbanti, sguardi fieri e cattivi. Il kannè retto da massicce arcate di basalto e nel mezzo del cortile zampilla una fontana. Serata afosa, ceniamo protetti da un ufficiale e da un soldato armato che passeggia su e giù conscio del proprio dovere.
Lungo tutta la notte, le sentinelle salmodiano nenie: nella cameretta sudicia e oscura, un crepitio continuo di calce che si stacca dal plafone. In piedi, prima che l’alba biancheggi a oriente; stupore: soldati e ufficiali rifiutano la mancia, ossia il bakshish d’uso, la costituzione fa progressi! I nostri bravi arabi intonano a piena gola i loro gorgheggi arabi. Verso sera, alle ultime luci, lontanissima si scorge Diyarbakir, massa grigia uniforme traforata dagli agili minareti e avvolta da una fascia bruno rossiccia immobile: sono i vapori notturni che si alzano dal Tigri. Il vecchio kann di Sensem che ci ha ospitati è forse il più lurido tra quelli turchi che abbiamo conosciuto. Per l’ultima volta, carichiamo i numerosissimi bagagli e via a trotto serrato sulla strada, una buona strada, che sempre si trova per una decina di chilometri prima e dopo ogni città turca.
Diyarbakir sorge sola, stretta fra mura di basalto in rovina; pittoresche stradine ombrose e silenziose intersecate da spazi aperti dove troneggiano enormi gelsi; triste colore nero ovunque, la si direbbe in un lutto perenne. Il Valì ha il suo palazzo sulle muraglie a picco e le finestre si aprono sul grande Tigri maestoso, imponente, tra il verde delle terre coltivate e i pioppi che coronano le rive. All’ultima sua voluta, un grande ponte dalle arcate romane lo taglia: là sotto attende la zattera che ci condurrà alla meta dei nostri sogni: Ninive, Bagdad, Babilonia.
In questa città, i cristiani vivono un incubo perenne; nel loro quartiere gli Armeni abitano case di pietra fortificate e piene d’armi: tutto respira la paura del massacro. Padre Celestino ci conduce verso la porta di Mardin da dove le mura nere di Kara Amida appaiono in tutta la loro maestosa rovina dominante il Tigri. Piove. I giardini adagiati nella larga valle assumono soffici tinte di un verde irreale: appartengono ai Turchi, ai cristiani nulla è stato lasciato dopo l’atroce eccidio del 1895.
Rendiamo visita ai notabili armeni nelle loro belle case quiete e silenziose. Dolciumi deliziosi all’acqua di viole. Domani ce ne andiamo, la zattera ci attende.
L’intera città conosce la data e l’ora della nostra partenza; vengono a offrirci mille cose graziose: splendidi scialli persiani, candelieri musulmani in bronzo carichi degli eleganti calligrammi turchi, poi tappeti in seta di Kerman, Shiraz, Meshed: la Persia è vicina.
Lavoro farraginoso di imballo, abbiamo 25 colli fra effetti e provvigioni trasportati da facchini curdi, ci incamminiamo verso il Tigri. Piove, per mezz’ora guazziamo nel fango sotto rovesci d’acqua. Sul fiume grigio e impetuoso finalmente compare il kelek, zattera leggera, fluttuante sui suoi otri neri. Al centro, la nostra cabina, piccola, con minuscoli finestrini ai lati; la gente accorre per ammirarla aumentando così la confusione delle mille cose accatastate alla rinfusa. Tutta Diyarbakir è sulla riva a salutarci: i buoni frati, le suore, il vice console francese e la high life indigena. La bandiera issata, strette centinaia di mani, si mollano le corde e di colpo la corrente si impadronisce del fragile telaio su cui siamo trasportandolo violentemente al largo come una festuca. I fazzoletti sventolano, scarichiamo le armi in segno di saluto. Sullo sfondo burrascoso del cielo si staglia nera, cupa, la linea imponente delle mura di Diyarbakir, capitale del Kurdistan.
Notte ormeggiati alle fondamenta di un enorme fabbricato nero, quadrato; non un essere vivente, solo due cani affamati latrano sulla riva. Ripartiamo, l’impressione del nostro moto è quella di essere trascinati dal vento in uno spazio infinito e indefinito, di planare su uno strato di vapori densi. Talvolta la zattera presa dai gorghi turbina su sé stessa nella corrente sconvolta; colpi potenti dei grandi remi innestati sui fianchi la riportano poi a scivolare tranquilla; da lontano, sulla riva risuona lo strido del gufo.
Lentamente, ogni cosa si assesta nella nostra casetta di tela bianca: i letti da campo poggiano su tappeti persiani, la cucina scintillante come argento fa bella mostra di sé sulle pareti della tenda e due grandi lampade illuminano dall’alto dando la dolce impressione di una vera home. Uno dei nostri soldati, bel giovane dai lunghi stivali e il fez a sghembo, dorme attraverso la porta sulle assi del ponte.
I kelekji sono Curdi: giovani dai muscoli d’acciaio, occhi piccoli brillanti di furberia; il più vecchio ha tratti da bassorilievo assiro. Lentamente sfilano davanti a noi i profili tormentati delle montagne mentre cupe e profonde le acque del fiume perseguono da millenni la lenta, ciclopica, metodica opera di distruzione delle muraglie rosse che lo accerchiano.
Hassan-Kief, il paese, bianco tra i cespugli, sta appollaiato sopra una roccia; un arco di ponte romano si regge ancora mentre in rovina sono i piloni al centro del fiume. Più in là tra le rocce, vive una popolazione di trogloditi: enorme alveare in cui si distinguono le scale scavate nella pietra che conducevano alle antiche tombe assire; a gruppi, donne drappeggiate di rosso scendono al fiume con le anfore sulla spalla. Sosta notturna a Celik, file di casette disposte a scalinata sui fianchi del monte; mi addormento cullato dal mugghio di una rapida che scintilla laggiù sotto la luna. Nel sonno sento i battellieri che cantano, un lieve dondolio, ci stiamo muovendo, poi, il kelek flessibile e obbediente si piega gemendo, gira e si slancia sulle acque fangose: il Tigri qui non è più largo di 40 metri. Sfioriamo piccoli villaggi d’argilla, godiamo dell’ombra di grandi alberi, del fresco di cascatelle che dall’alto spruzzano una pioggia minuta. I monti dell’Armenia si disegnano maculati di neve e il Jabal Judi troneggia massiccio; tende nere di Curdi nomadi fra i papaveri in fiore, piccoli kelek trasportano pecore da una riva all’altra.
Jesireh, sulle sue mura nere e diroccate affacciate sul fiume, decine di Curdi fumano in silenzio e in silenzio ci scrutano. Visita del paese con scorta di molti ufficiali: squallore ovunque, strade fangose, piccola e antichissima moschea con al centro della corte due elaborati chioschi e una porta di ferro di puro stile arabo.
Cambiamo soldati; interminabili trattative con il padrone del kelek, si riparte; file di donne scendono al fiume cariche di otri, gli uomini stanno a guardare. Il fiume ci porta rapido e silenzioso lontano nel cuore dell’Assiria. Nelle rive verticali tagliate dal fiume miriadi di uccelli hanno fatto il nido, scivoliamo accompagnati dall’armonioso gorgheggio attraverso la giungla verdissima, morbida, ondulata che copre la Mesopotamia. Bufali neri dalle corna ricurve guardano attoniti questo strano ordigno che passa veloce, branchi di cavalli galoppano tra le lunghe erbe con la criniera al vento. Tende dei Curdi sui declivi, il barcaiolo li qualifica di incorreggibili predoni, fanciulle a viso scoperto, drappeggiate in scialli turchini sorridono guardandoci con i loro grandi occhi.
Il Tigri si espande, forma piccoli laghi azzurri in cui camminano con andatura solenne le cicogne, stormi di anitre selvatiche passano vociando sopra noi. Un antico ascaro di Ibrahim Pascià, il celebre brigante, racconta le gesta e il fasto del suo grande capo defunto. Qui vive una delle tribù in cui ancora si adora il diavolo secondo l’antico rito assiro, i Curdi li tengono in disprezzo. Si avverte la vicinanza di una grande città: le donne, tutte belle di un tipo affine al berbero, oziano sulle rive guardando il nostro kelek passare. Nel tardo pomeriggio, al di là delle praterie, Mossul appare, bianca, ombrata d’azzurro: massiccio accatastamento di cubi abbaglianti, larghe cupole tempestate di maioliche turchino mare, minareti cadenti dai balconcini circolari traforati, immagini che hanno il loro doppio nel riflesso nel fiume che ne lambisce i piedi rapido e limpido. Mossul è un ritaglio dell’immensa pianura assira: strade anguste senza traccia di pavimentazione, case oscure e fresche prive di finestre, solo piccole porte a sesto acuto i cui stipiti in marmo grigio rompono l’uniformità delle alte muraglie. Donne interamente velate di nero, uomini dai puri tratti arabi, pensosi e gravi, incorniciati dal burnus candido; beduine dal passo molle e cadenzato sul tintinnio dei braccialetti stretti alle caviglie fini. Terrazze ovunque, riflessi di focolari scavati nelle mura di fango, ombre nere di donne vaganti nella luce rosata dell’alba sulla città che si sveglia.
Ci si sente così lontani dal mondo, tanto lontani dalla gente di qui, tanto estranei a quanto sta attorno. I mercanti dell’animato bazar ci scrutano con ostilità, nessuno offre gli splendidi mantelli in seta con ricami d’oro, anche i cammelli passano sdegnosi; nella piazza assolata contornata dai lunghi porticati dei caffè, centinaia di arabi fumano in silenzio: distanze enormi, anche dal fiume che sembra irraggiungibile; rotto da un lungo ponte di muratura e di barche, il Tigri separa Mossul dalla campagna. Qui era Ninive, la grande, nulla più rimane. Risaliti sulla zattera, mentre la lasciamo la città appare più bella che mai nelle nebbie rosate della sera, e il Tigri ci riprende per portarci verso sud. Dagli accampamenti degli arabi Shammar, uomini neri nudi scendono al fiume spingendo i loro cavalli in acqua e, sempre in groppa, si lasciano trasportare dalla corrente; si scorge solo la testa dell’animale, l’occhio dilatato dal terrore.
Nimrod, piccolo agglomerato di capanne in paglia e fango che porta ancora il nome assiro della famosa città ora sepolta nella collina fra i papaveri in fiore. Lo sceicco del villaggio giunto su un cavallo bianco ci invita nella sua tenda: si beve il caffè in un circolo di uomini silenziosi. Tra erbe altissime che arrivano all’incollatura del mio cavallo, giacciono massicce pietre fittamente coperte degli artistici caratteri cuneiformi, più in là, un gigantesco cherubino, in parte deturpato, guarda il fiume lontano che ha visto sorgere e morire la sua città.
Oltre le dune rosate, splende un globo d’oro; è Samarra, uno dei luoghi santi ai Persiani: gente ostica, grandi turbanti persiani e indiani, case in mattoni di fango crudi, senza finestre. La moschea Harun al Rashid, incomparabilmente bella, tutta in maiolica dai mille colori, cupola in fogli d’oro lucente come il sole e accanto due agili minareti in legno e ceramica; un catena d’oro preclude l’ingresso agli infedeli attraverso la gigantesca porta a doppio arco acuto scavato l’uno nell’altro, la vasta corte è pavimentata di pregiato marmo e, tutt’attorno, corre un lieve porticato blu e giallo. La torre babilonica di Harun al Rashid, il deserto rosa infinito… Ripartiamo, il Tigri scorre tra le dune e da lontano l’oro di Samarra ci manda l’ultimo addio.
Dopo tre giorni a Baghdad, ci imbarchiamo sul battello inglese “Califah”; immagini colte al volo di cavalieri arabi in una colorata fantàsia, la moschea azzurra di Kalaat Saleh, quella di Shatt el Arab tra le palme allagate. L’acqua turchina dell’Eufrate sposa quella torbida del Tigri rimanendone distintamente separata per duecento metri. Arrivo a Bassora, case in legno traforato, molto arabe, molto belle, contornate di verde; la sera, l’high life locale si raduna sulle rive: uomini dalla pelle più scura in perfetto costume arabo, donne invisibili. Sul “Dumra” della Marina inglese per Karachi: siamo prigionieri a bordo, la bandiera gialla annuncia che la peste è vicina; si riparte, il battello vibra sotto di noi e sul largo fiume, lo stesso che, amico sereno e calmo, ci ha portato da Diyarbakir. Addio alla Turchia, l’elica fatica nel fango che l’incontro dei due fiumi ha creato nel mare. Doppiamo il capo di Mascate, è la terra del sultano di Oman: non è permesso sbarcare né addentrarsi verso il mistero dell’Arabia del Sud. Dopo cinque giorni di navigazione, giungiamo a Karachi, città sorta dal deserto per volontà degli Inglesi. Siamo in India; strade ben tenute fiancheggiate dalle graziose villette dei residenti. E’ il 21 maggio, in treno nel deserto verso Hyderabad-Sind, è il periodo più caldo dell’India. Alle 11 il convoglio si arresta tra le dune di sabbia: in Inghilterra in questo momento il corteo funebre di re Edoardo VII° si muove. Tutti i treni delle colonie sono fermi.
[II – fine]