L’uomo del nuovo millennio s’avvia ad essere tra i più sconcertati di quanti abbiano mai mosso piede sul pianeta. Persino i nessi vitali delle attività fisiologiche, quali il mangiare o il respirare, sembrano troncati, cosí netto e definitivo appare il distacco dell’uomo odierno da un qualsivoglia senso del vivere. Completamente azzerato appare ad esempio il rapporto tra ‘serio’ e ‘faceto’, ovverosia tra dura necessità e riposo, o se vogliamo ancora tra serietà e gioco.
Dopo aver accuratamente dimenticato la centralità del gioco rispetto alle responsabilità quotidiane, l’uomo contemporaneo sembra aver dimenticato le responsabilità tout court, per inoltrarsi in una sorta di ebete mediocrità. La festa, il riposo, il vacuo e loro cerimonie, rappresentavano una volta la sicurezza di un riferimento. Tra le rissose città della Grecia ad esempio, gli sport olimpici valevano la certezza di regole imperiture, che ora invece vengono cambiate di continuo e di punto in bianco fino ad approdare alla scelta nichilistica di un’unica regola: non averne. Fino a qualche tempo fa l’uomo responsabile si presentava allo stadio invariabilmente la domenica, e lí si deresponsabilizzava, fidando nel rispetto delle regole. Era appunto sul rettangolo verde che si celebrava la certezza del diritto (eventuali contestazioni fanno parte del gioco). Ora invece avviene piú o meno questo: un tale, deresponsabilizzato dalla scarsità di vere motivazioni esistenziali e dal generale stato confusionario che avverte attorno a sé, se decide di seguire la sua squadra si trova davanti all’informe, dove tutto può cambiare da un momento all’altro.
Cosí il tale, già deresponsabilizzato, si trova davanti all’ennesima deresponsabilizzazione e, siccome due negazioni affermano, a volte anche nella vita, deresponsabilizzando la deresponsabilizzazione si ritrova in una sorta di responsabilizzazione astratta, algida, malazzata. E il calcio in particolare sembra solo in attesa di dare una spinta esiziale (il cosiddetto carico da undici) a una civiltà già senile.
In questo contesto fa il suo ingresso in campo Zdenek Zeman. Incede con passo lento e ritenuto, morbido ma risoluto, il volto che pare segnato da un duro esercizio spirituale, il sorriso timido o solamente accorto che non va mai oltre gli angoli della bocca. Appena possibile fa salire il bavero del cappotto, come a rincantucciarsi in un luogo senza tempo che fondi e dilati lo spazio angusto dei 90 minuti. Zeman, l’allenatore che fa del calcio una maieutica e non solo coi suoi giocatori ma col pubblico delle squadre dove allena: quando arriva lui i tifosi diventano improvvisamente ‘civili’, bonari e perfino eleganti, certe volte. Memorabili le sue squadre, ma altrettanto le tifoserie (quando era a Roma esisteva a suo nome perfino un club Roma/Lazio!). La chiamano Zemanlandia. Attualmente al ‘boemo’ capita di allenare il Cagliari, e durante un’intervista ha avuto modo di ripetere una delle sue massime o formule universali per le quali è studiato e venerato: “Il risultato è frutto del caso, la prestazione no”.
Massime che chiamano a gran voce una fenomenologia, almeno in un primo abbozzo.
Dunque, Zeman è certo depositario di una filosofia immanente, così come della virtù assai stoica della pre-nozione, le cose che sa non le ha imparate. Nella sua risposta se gli piacerebbe vivere in un’altra epoca (“No, non mi piacerebbe”), c’è intatta la forza di qualcosa che vuole restare ‘in potenza’, come in una sospensione bartlebiana, consapevole della causualità delle scelte (“Non ho deciso di fare l’allenatore, forse mi è piaciuto”). La dimensione che gli si adatta meglio è quella di una squadra da costruire sul nulla (“Per me vincere è migliorare gli uomini che ho a disposizione”), non solo per portato naturale, ma perché le cose quando sono giunte a maturazione sono già pronte a marcire. Le uniche virtù che riconosce sono il coraggio e la lealtà che vengono nella consapevolezza del proprio dovere (“Mi viene facile raccontare la verità. Ho problemi, invece, a dire bugie. E cerco di farlo il meno possibile”). ‘Insieme’ l’avverbio principe, ‘Sparta e non Atene!’ potrebbe essere il suo motto.
Sua è l’amara consapevolezza della pigrizia che insegue il rito (“Il derby è una partita come tutte le altre”), nonché della debolezza mentale nascosta nella furbizia (“È più facile capire il risultato che il gioco”). Non ha rifiutato di confrontarsi con la gestione di grandi squadre, ma in fondo pensando che c’era qualcosa di troppo e andava eliminato, perché la mancanza costituisce la parte piú salda e prolifica, in un individuo come nella società. Egli sa che nell’idea della vittoria ad ogni costo c’è nascosto il virus del servilismo, e sa che possono essere i non-potenti, alla lunga, a determinare i cambiamenti (“Talvolta i perdenti hanno insegnato piú dei vincenti”). La chiamano disponibilità al rischio, dicono sia un atteggiamento ormai rarissimo, scommettere su se stessi, sempre e fino alla fine, a volte vincere, altre perdere, eppure e comunque “bisogna cercare di arrivare alla perfezione, pur sapendo che la perfezione non esiste”, è questa la sua intuizione, nell’intenzione non intenzionale c’è una forza imbattibile.
“Usando la fantasia si può fare tutto” è un altro dei suoi dogmata, e poco importa se per questo si è messi al bando o penalizzati come a lui è successo e, ci si può scommettere, succederà, perché la fantasia non è l’infanzia del pensiero come ci viene insinuato, bensí la sua originaria pienezza che da sempre ha garantito alla palla del mondo un futuro.
Zeman è uno di quelli che parlano poco e preferiscono ascoltare, e la sua esistenza calcistica dimostra che non tutto è perduto, che il mondo non vuol morire, e anzi vuole ancora delegare al calcio (e allo sport) le sue vere regole, prima fra tutte la centralità della festa, e dell’abbandono.