Leggere i versi di Umberto Bellintani è fare esperienza della poesia, intendo della poesia osservata fuori dalle sue definizioni, fuori dalle sue proiezioni di linguistica e di poetica. È fare esperienza della poesia nella sua semplicità e nella sua fragilità: un dire che è respiro, soffio, tremito di foglia nella sera (giallo di ginestra sulla lava, si direbbe dalla soglia del libro poetico leopardiano), e in questa sua apparizione leggera e fuggitiva la poesia mostra che un solo legame davvero importa, quello che unisce la terra e il vivente, ma anche il desiderio e la parola, il passaggio e il ricordo.
Come accade questo miracolo, questo mostrarsi della poesia nella sua per dir così nuda essenza, al di là di ogni convenzione disciplinata, nei versi quasi istintivi e tuttavia lavoratissimi di Bellintani?
È difficile rispondere, per via del fatto che l’accadere stesso della poesia è fuori da ogni progetto, e se è studio e lavoro, questo avviene dopo che il dono, il passaggio del vento, insomma la grazia, l’état de poésie, come diceva Valéry, hanno preso campo. Tuttavia dopo la lettura dei versi di Bellintani è forse possibile cogliere un movimento che è alla radice del divenire poetico: la parola si aggrega, prende corpo, intorno a un’immagine che allo stesso tempo è come la divisa dell’anima e come un éclair, un lampo nel chiuso e nell’enigma del sentire, e questa parola-immagine si fa verso, cioè cerca un suo ritmo, e va poi a comporsi in una sequenza, con silenzi e riprese. È la poesia come diastole e sistole di un pensiero. In questo movimento che porta la parola-immagine nel tempo di un verso e nel tempo di un dire poetico, lo sguardo su di sé, quello sguardo che muoveva per via di un lampo dal sentire, si fa sguardo sul mondo. L’interiorità è figura prima dell’esistenza, in questa poesia. La “notte di poca luna” della plaquette commemorativa curata da Elia Malagò è tempo-spazio di una presenza: l’amico, la sua voce, l’invito a credere pur nell’assenza di fede, il suo allontanarsi senza lasciar sentire il rumore dei passi. Un dialogo – fraterno e aspro, con l’amico don Primo Mazzolari – lascia la sua storia umorale e corporea di confronto e scambio e confessione e preghiera e bestemmia e scommessa, lascia la sua vitalissima spirale di sentimenti che hanno al centro la necessità – necessità direi benjaminiana – di una speranza nella non speranza – lascia dietro di sé il rumore delle parole e l’affanno del sentire per risolversi, contro il fondale altamente simbolico di una scena – “nella notte di poca luna” –, in una presenza, in una voce, in un passo che non fa rumore.
Quel dialogo, del resto, tra un poeta e un sacerdote, raccolto da Elia Malagò e Nella Roveri a corredo esegetico della bella riedizione di Forse un viso tra mille (Passigli Poesia) restituisce più di ogni periferica biografia la figura umana di un artista che si lascia attraversare dalla parola poetica. Parola poetica, ricorda don Primo Mazzolari, che non può che essere profezia: cioè un dire per un altro tempo, per il tempo di colui che legge, per un tempo che sia oltre il tragico: ed è proprio della poesia accogliere il tragico per mostrare la necessità della sua cancellazione. Qui la poesia di Bellintani, proprio nel suo non cercare una quiete nell’esito trascendente, ma restando nel cerchio di una terrestrità animata, dolente, perplessa – dolce nella sua perplessità – sembra mostrare un’intesa dialogica, anche se da sponde molto diverse, direi dalle sponde di due fiumi molto diversi, con la poesia di Mario Luzi, che è forse l’esperienza poetica del nostro tempo insieme più affondata nell’inquietudine della condizione umana e più tesa nel tentare di sospingere lo sguardo verso l’orizzonte, verso un oltretempo, verso quel confine tra visibile e invisibile da cui muove l’interrogazione sul tempo presente, e sul fuggitivo.
La poesia di Bellintani è esperienza di una creaturalità quotidiana, prossima, il cui suono e la cui presenza dà anzitutto il senso del vivente, dell’essere vivente tra viventi. Di questa fisica poetica, che nella nostra tradizione ha due sorgenti attive, quella lucreziana e quella francescana, tra loro mai del tutto separate, è più alla seconda che questi versi attingono. Con un particolare timbro che sa accogliere le cose, la prossimità ad esse, insieme agli altri viventi, insieme ai volti del ricordo. Sicché paesaggio naturale e paesaggio umano hanno lo stesso respiro, si fanno per il poeta elementi, per dir così, della propria interiorità: “Ma distenditi con me sull’erba dolce del ciglio / e quella fronte rasserena come il mare / in questa sera dolcissimo levriere / che si riposa nel chiarore della luna.” Da questa condizione si avverte il senso forte del vivente: “e che son vivi gli alberi dentro di noi stessi, / e che lo sono i cavalli, e il tramonto che fu /…”. . Ed è proprio questo sguardo ospitale, questa accoglienza in un solo orizzonte del dolore e del visibile, della presenza e del tempo finito che ci permette di evocare per Forse un viso tra mille l’immagine del sorriso (la poesia, come il sorriso, diceva Leopardi, “aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”). È forse per questo sorriso della poesia che don Primo Mazzolari dice dopo la lettura del libro poetico di Bellintani: “mi sono riposato e ricreato”. Si potrebbe anche dire che Bellintani disloca la creaturalità pascoliana, la sua fisica e trasognata vicinanza, verso un’intimità dolente e turbata, verso una nozione tutta interiore di presenza. Un cammino, questo, che sarà comune ad alcuni poeti suoi contemporanei come Caproni e Sereni, e appunto Luzi, ma anche il primo Zanzotto. L’élegos è piegato verso risonanze meditative, la descrizione riportata nella zona smossa del desiderio.
Nella Nota di questa edizione le due curatrici hanno riportato le pagine di una sorta di autoritratto inviate da Bellintani a Giacinto Spagnoletti nel 1959 per l’antologia Poesia italiana contemporanea, che sarebbe uscita da Guanda nel 1964. Sono evocate le tracce infantili di una vocazione all’ascolto delle voci naturali e al dialogo con le erbe e i fiori (“fu allora che sentii di parlare ad erbe e a fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi”, passaggio che ricorda da vicino il leopardiano, e vichiano, passo del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, quel riferimento a una sorta di paradeison che unisce l’antico e il fanciullo: “quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna…”. Un’esperienza che nella rievocazione infantile di Bellintani trascorre nell’imitazione: “E modellavo animali e animali con la terra gialla che mi dava la riva di un fosso o la terra nera…”. Imitare la natura è dare continuità ad essa, ed è anche ospitarla, sostare nel colloquio con essa.
Poi la lontananza, Sinanaj, Megalo Pefco, il Partenone. Ma su tutto, in questi frammenti di un’autobiografia poetica, colpisce la centralità della sera messa nel cuore della memoria: “E la sera era dolce, la sera era arcana. Era la sera che è impossibile dire, e io allora mi sparsi nella sera, e forse sentii per la prima volta che avevo le braccia tenere, e che si poteva morire”. Poeta della sera è Bellintani. La sera apre e chiude il libro poetico. Come in Campana, le sere sono l’annuncio e il corteggio della poesia. La sera nella sua alleanza con l’arcano (questo senso dell’arcano persiste nella successiva poesia di Bellintani). Nella modernità, è Baudelaire che sottrae la sera alla sua simbolizzazione – il giorno che muore – per animarla di presenze e suoni e passaggi e volti e pensieri, e insomma farne una complice dell’immaginazione poetica. Sera di Gorgo pare quasi inaugurare nel libro il dischiudersi di particolari che sono tutt’uno con la sera: le figure intorno al carretto, il rosso dell’anguria, l’asino come ombra che sogna e mastica biada, il cielo verde giada, la rondine che “vi si tuffa, /esce, si perde”. Si precisa la dizione poetica come disporsi delle cose, della parole-cose, alla maniera rilkiana, ogni cosa con la sua necessità dell’esser lì, nel suo tempo, nella sua lingua, nella sua essenza: “Lasciatemi all’aperto / mattino, al cammino sulle orme del passato, / alla luna ch’è la Luna al mio paese, / alla casa ch’è la Casa”. Le cose si accampano nella loro prossimità, che è prossimità del tu, accoglienza nella lingua: “O tu, / nuvola del cielo bianchissimo fiore, / deponi un seme del buono della vita / in quel suo occhio bruciato dal sudore”: è il vecchio padre che ara nel campo il personaggio cui rinvia l’allocuzione lunare. Il tu non è rivolto solo alle cose ma anche ad altre presenze come l’angelo: la scena è, più che baudelairiana, biblica: “non darti posa; /sorreggilo alle spalle / e veda il grigio del color della mimosa”. Ed è il padre a un certo punto ad apparire come il “roi de l’azur” de L’albatros (“Io mi rido del lampo e della nube”). Leggendo Forse un viso tra mille ho via via l’impressione che l’affollata sera baudelairiana, con i suoi registri sublimi e abietti, solenni e disperati, con le sue apparizioni di salvezza e perdizione, giunga in questi versi (si veda Con fuoco per le vie di Verona) attraverso la poesia dei Canti orfici, nella quale Les fleurs du mal sono tessitura visibile e necessaria (ma anche attraverso Sbarbaro e per certi tratti attraverso il primo Ungaretti). Les fleurs du mal sono di fatto il libro poetico che più d’altri trascorre nella poesia del nostro primo Novecento. Questa risonanza baudelairiana, che ha la tensione verso l’ailleurs come motivo forte e il rovesciamento dell’esotico in senso della lontananza, della sua necessaria apertura, riaffiora in Oltre l’orizzonte portami, là dove appare la via “dei carri zigani e dei cammelli, / e dove passano segrete le antilopi”. Ma c’è in questi versi non l’ossessione del voyage, della sua ripetizione, del suo perdersi, come non c’è nello “sventolio di fazzoletti” la tristesse mallarmeana di Brise marine, ma il desiderio dell’approdo, l’attenuazione di quell’assedio della lontananza che è la nostalgia: “Beato chi al vespro della vita giunge / per vie monotone, chi non lascia indietro / uno sventolio di fazzoletti”. Anche se Nostalgia è il titolo di una poesia, non c’è algos per l’impossibilità del nostos (“non avrò più ritorno” aggiungerà nell’edizione ultima del testo), c’è piuttosto l’apertura di un vedere che l’immagine della terra lontana comporta: “Vedo gli uccelli / sui comignoli dei tetti / di un paese dell’Epiro / e scroscia un fresco scintillato di rugiada”. Ogni ricordo – figure familiari, oggetti perduti, suoni e linee di paesi, aria stessa del borgo – è anzitutto un prender forma visiva, nitida, definita, di una presenza. L’esperienza dell’arte figurativa indubbiamente soccorre questa pulsione verso la determinazione iconica del ricordare. Nel cui cuore c’è l’essere fanciullo, l’“incauto fanciullo” – con un corteggio del ramarro azzurrino, dell’anatra palustre, del canneto, del grillo, della merla – il se stesso fanciullo e altri fanciulli rapiti dal tempo, sottratti al tempo, tutti richiamati a sentire ancora il grido dei bianchi uccelli lungo il fiume, “dove il fiume oggi imbosca”. I versi della terza sezione hanno una levità dell’evocare che è grazia e accoramento, dolcezza del richiamo alla nuova presenza di quel che è perduto e dolore perché solo la parola può dar vita, certo vita illusoria, al tempo fatto cenere. Il tutto immerso in una luce fluviale che spalanca meriggi, e con voci di ragazzi che si rispondono da sott’acqua alla riva, dall’assenza alla presenza, dalla morte alla vita: “dove il fiume rode alla boschiva sponda / fanciulli da sott’acqua parleranno / lietamente ai fanciulli sulla riva. / Così lieta ricomincia sulla riva / la gazzarra più feconda e si pronuncia / ogni nome di chi giace sotto l’acqua / come fosse al lieto coro sulla riva”. Dove la fanciullesca letizia rimbalza sulla riva in una ripetizione che è sciabordio d’acqua e memoria. Anche il “corpo cereo” del giovinetto emerso dall’acqua e il pianto della madre con i suoi gridi e il pianto muto delle altre donne è accadimento che sta nella luce splendente, sotto il gorgheggiare delle rondini. Il ricordo è una piccola arca, e raccoglie, per preservare nel tempo, o per ospitare nel tempo della poesia, “lo stupore / e la grazia del dolore, il dolce piangere”.
Il testo che comincia “Che mai tu scordi la bella vallata verde” è come il sigillo della raccolta, la barca che appare ha la funzione di un emblema o di un’impresa. Le presenze che vi salgono sono figure di un’appartenenza: i cavalli galoppanti nella sera, la cicogna, il biancospino, la luna, la stella del mattino, l’ocarina sono lampi e forme della vita. Alla levità essenziale e musicale che fa pensare talvolta ai versi di Sandro Penna si aggiunge qui una necessità di compresenza, quel volersi portare della vita ogni particolare, salvarlo dalla cancellazione: “… Ma è tutto un mareggiare, / e queste braccia arcanamente io disserro / come la gru che di là distese l’ali / per l’alto volo…”. La poesia come resistenza all’oblio, come un pensare contro l’oblio : su questa proprietà del poetico avrebbero riflettuto sia Jabès sia Bonnefoy.
Nella poesia d’amore che si distende nella quinta sezione l’elemento contemplativo ed evocativo si dissipa per lasciare spazio al senso dell’enigma e all’interrogazione: e tuttavia è ancora nel paesaggio, nella sua luce, nei suoi particolari visivi, che l’amore cerca le forme del suo mostrarsi: è riva, è rondine, è sole che schiude la rosa d’inverno. Il floreale è il campo dove attingere le definizioni del corpo femminile. Nelle quattro poesie dedicate a Katina di Megalo Pefko il tu è il destinatario d’una “invitation au voyage”: raffigurazione della vita, del suo pulsare e dispiegarsi, e del suo sottrarsi alla comprensione, unità con la luce e con il paesaggio: “Tu non sei, /o cara, meno dolce della sera / che cala sopra il mondo e infonde calma”.
Le poesie che seguono chiamano nella stessa trama del vedere il ricordo d’Albania, lo sguardo verso l’orizzonte oltre il quale è il proprio paese, il rombo della guerra, le sere e le lune, i pensieri del prigioniero di guerra. Ci sono quadri di un’arcadia semplice, liberata dall’orpello del locus amoenus (il pastore, le nere cavalle tra i fichi d’Albania, il canto che scende sulle onde del Vojussa). L’endecasillabo “cala la luna al di là del pioppo nero” può essere figura elementare di questa solitudine animata da orizzonti scrutati. Negli ultimi versi il ritmo si allarga, tenta la canzone mesta e meditativa nei modi direi di certe poesie di Antonio Machado (“Ricordo e non ricordo le rose del sole nascente”). Tornano figure d’amore, torna la madre scolpita nell’attesa del figlio, del suo ritorno, ritratta nella congiunzione del suo canto rivolto al bimbo e del suo pianto per l’assenza del figlio, torna l’epicedio per la sparizione di amici, il lamento per la tomba abbandonata, priva anche di un fiore. Ma tra le apparizioni ecco il garrire della bandiera d’Italia al vento d’aprile e dinanzi al suo trionfo il bimbo “sfracellato dalla bomba”, il bimbo che è “solo sul selciato”, privo anche del pianto d’una madre. Un’immagine forte che oppone un corpo non più vivente all’enfasi patriottica. Un crescendo di tensione etica e di visionarietà dolce abita le ultime pagine del libro poetico, insieme con un invito a salvare “la memoria, la memoria / almeno del riso, la memoria”, rivolto alla sua Gorgo, quella Gorgo che era, come ricorda Elia Malagò, suo “fortino” e “osservatorio”, un invito rivolto agli amici del paese e del tempo lontano. Per chiudere, quasi in una salmodia, con una meditazione sul tempo che verrà: parole rivolte al figlio, congedo e disegno di una speranza che è pronunciata come volontà: non volere il dolore nel tempo, sapere che “la notte” e “la pena” sono un passaggio verso la luce e verso la pace, è questa forse la tensione vera del dire poetico, la sua ragione.
Forse un viso tra mille, trascorse le fantasmagorie di memoria e di sguardo, spentisi i gesti del ricordo e spostatisi nell’ombra del già stato i visi, con la loro luce e il loro sorriso, lascia nel lettore come un invito, come una consegna. L’esistenza è più che la storia, il sentire è puro se è in dialogo con la natura, la lingua è dolce se disloca il sapere nel vedere, la conoscenza nella luce. La memoria è corpo, palpito, respiro. E ancora – il che è come il timbro più proprio di questa poesia – la sera è luce che muore e che rinasce in altra luce.
[Intervento letto al Festivaletteratura di Mantova il 7 settembre 2014]