Jean-François Lattarico, Professore di Letteratura italiana presso l’Université Jean Moulin – Lyon 3, si interessa da sempre di letteratura e melodramma dei secoli XVII e XVIII. Suo campo d’indagine privilegiato è il Barocco italiano: ha per esempio curato l’edizione italiana de Il viaggio di Enea all’Inferno di Giovan Francesco Busenello (Palomar, 2009, ahimè introvabile), ha tradotto in francese la Messalina di Francesco Pona, primo romanzo storico (1633) della letteratura italiana (Publications de l’Université de Saint-Etienne, 2009), ma anche opere di Ariosto, Goldoni, Metastasio. Sulla figura di Busenello ha scritto il saggio Busenello. Un théâtre de la réthorique (Classiques Garnier, 2013); e sul vivace mondo delle accademie secentesche veneziane, in particolare quella degli Incogniti, di cui il versatile Busenello è stato uno dei protagonisti, il saggio Venise incognita. Essai sur l’académie libertine du XVIIe siècle (Champion, 2012). Ma i contributi di Jean-François Lattarico alla riscoperta di autori negletti o alla ridefinizione di ingegni celebrati del Sei e del Settecento si estendono a Ferrante Pallavicino, Rompigliosi, Marino. Quanto al melodramma, Lattarico ama indagare in particolare il rapporto tra libretto e canto,e propone una rivalutazione dellaparola poetica,spesso ritenuta marginalerispetto alla musica: da qui gli studi sui librettisti veneziani come Faustini e lo stesso Busenello messi in musica da Francesco Cavalli, o ancora sulle opere di Pietro Antonio Cesti. Il suo interesse per il Barocco travalica la collocazione storica e si spinge a esplorare i tratti dello sperimentalismo barocco teatrale o letterario anche in autori contemporanei (la sua tesi di dottorato, non a caso, era su Gadda). È in via di pubblicazione presso Léo Scheer un suo saggio – che si preannuncia assai gustoso – sugli animali all’Opera.
CLAUDIO MORANDINI – Caro Jean-François, vorrei chiacchierare con te proprio di Barocco. Per prima cosa vorrei sapere che cosa può insegnarci oggi il Barocco di cui tu ami occuparti, quello fertile delle Accademie, quello del melodramma: se penso a quella stagione ricca di fermenti, ne colgo (con invidia, con nostalgia quasi, quel tipo particolare di nostalgia che si prova per epoche non vissute ma scoperte e amate sui libri) lo sperimentalismo instancabile, l’ansia di esplorare nuovi territori e nuovi generi e di scrollarsi di dosso modelli e paradigmi superati, un senso anche di collaborazione e di condivisione che oggi può sorprendere.
JEAN-FRANÇOIS LATTARICO – Caro Claudio, come ben tu saprai, il Barocco ha avuto dei connotati negativi fin quando è stato definito quale determinato periodo estetico, durante l’Ottocento, ed è tornato in auge, con un senso positivo, solo di recente (almeno in Francia, vedi il Larousse del 1990). Credo soprattutto che il Barocco, più che un periodo storico, sia uno stato d’animo, una sorta di costante tematica dell’ingegno, come ben scrisse Eugenio d’Ors nel suo storico saggio del 1935, una dinamica creatrice che torna regolarmente, in modo ciclico a secondo delle novità, delle trasformazioni, delle innovazioni artistiche. Ed è una delle ragioni per cui il Barocco, appunto come stato d’animo, può ancora insegnarci qualcosa. L’Accademia degli Incogniti e il melodramma, di cui mi sono occupato e mi occupo tuttora, mi sembrano delle occasioni molto interessanti per illustrare appunto come tu dici lo sperimentalismo instancabile, il desiderio sfrenato di esplorare nuovi territori, quali erano appunto all’epoca il dramma per musica, ma anche il romanzo, o le forme poetiche e teatrali ibride. Il Barocco ha una brama immane per qualsiasi forma di ibridismo, letterario, linguistico, musicale, sessuale – la figura dell’ermafrodismo, che a noi contemporanei evoca alcune prove romanzesche (vedi il riuscitissimo Middlesex di Jeffrey Eugenides, Premio Pulitzer 2003), è perfino diventato una categoria letteraria per analizzare certe creazioni sperimentali, come il romanzo libertino o la tragicommedia del Seicento. È un modo soprattutto di fuorviare dalle categorie troppo rigide che danno per forza una visione dimezzata, se non rimpicciolita della realtà. Il Barocco apre gli orizzonti, fa capire che l’universo non è misurabile, né alquanto stabile e per forza rassicurante, come pensavano erroneamente gli Antichi o i Classici. Giordano Bruno era in questo senso barocco (e usava una lingua barocca, appunto ibrida, per sostenere le sue tesi innovatrici), come lo era il famigerato Ferrante Pallavicino, che morì sul patibolo per aver criticato la bellicosa politica dei Barberini – forse uno degli ultimi “esprits forts” della povera penisola martoriata di questo “Secolo di ferro”, di cui si è occupato Gino Benzoni.
CLAUDIO MORANDINI – E qual è, a tuo parere, il contributo più forte e persistente di quegli anni?
JEAN-FRANÇOIS LATTARICO – Secondo me, la cifra più affascinante e sicuramente più feconda del Barocco è quella dell’analogia. Un bel saggio di Yves Hersant, La métaphore baroque (Paris, Seuil, 2000), se ne è occupato, proponendo ampi stralci del “Cannocchiale aristotelico” di Tesauro che inserì, nel suo mostruoso volume, un ampio trattato sulla metafora. La metafora è segno e fonte inesauribile di conoscenza e di meraviglia. Associando elementi estranei tra di loro, si crea un’altra realtà finora insospettata, di cui il cannocchiale inventato da Galileo è il sommo simbolo: vedere da vicino ciò che è lontano. I progressi fulminanti in tutti i campi della scienza oggigiorno non sono forse un altro simbolo di questa metafora barocca tuttora pertinente?
CLAUDIO MORANDINI – Secondo te viviamo in un’epoca ancora disponibile ad accogliere le suggestioni del Barocco? Se vuoi: siamo ancora barocchi? O almeno: c’è ancora del Barocco in noi? Più generalmente: siamo ancora disposti a correre rischi in ambito culturale, come allora? E quali sono i campi dell’espressione artistica in cui ti sembra di cogliere maggiori sintonie con lo sperimentalismo barocco? Una volta, un po’ avventatamente, mi è capitato di accostare il Gruppo 63 alle accademie del Seicento: stavo leggendo contemporaneamente il tuo Busenello. Un théâtre de la rhétorique e Prose dal dissesto di Massimiliano Borrelli, suAntiromanzo e avanguardia degli anni Sessanta, e mi pareva davvero che le intenzioni e le dinamiche interne ai due gruppi fossero equiparabili, sia pure tra tante differenze soprattutto storiche.
JEAN-FRANÇOIS LATTARICO – Senz’altro gli autori del Seicento sono ancora per noi fonte di grande ispirazione. Nel campo della letteratura, infatti, l’accostamento che tu fai mi sembra davvero interessante e secondo me validissimo. Guardacaso, uno studioso di cose secentesche, Guido Arbizzoni, ha proprio intitolato “antiromanzo” un suo saggio su un testo dedicato alla figura di Elena di Troia di un dimenticato scrittore veneziano, Vincenzo Nolfi, autore anche di melodrammi. Era l’epoca in cui le forme erano appunto instabili, un’epoca in cui si mirava alle sperimentazioni stilistiche, all’ibridismo dei generi: un romanzo barocco non è mai solo un romanzo, è nel contempo un saggio, una biografia velata, un’epica in prosa, ecc. Si inventava molto: il virtuosismo poetico di un Leporeo (che coniò a partire dal proprio nome un genere a sé, leporeambo) può stancare, ma è in realtà di una modernità stravolgente, anticipando di tre secoli la cosiddetta autonomia del significante. Per esempio,i famosi “calligrammes” di Apollinaire trovano così degli affascinanti riscontri nei calligrammi di un Guido Casoni, anch’egli accademico Incognito. Nel campo dell’arte, le figure umane geometriche di un De Chirico ricordano quelle di un Giovan Battista Bracelli, che pubblicò le sue stampe (figure umane di latte, con racchette da tennis, e così via) nel lontano 1624… Il Barocco è nato in tempi di grandi sconvolgimenti scientifici, e così è pure la nostra epoca. Credo che l’incremento degli studi e dell’interesse per questo periodo non sia solo dovuto al fatto di voler riportare alla luce pezzi enormi di storia letteraria dimenticata, scrittori o artisti di una genialità controversa. Il Seicento era anche il secolo della dissimulazione (vedi il bellissimo trattato di Torquato Accetto nell’impeccabile edizione di Nigro), della letteratura clandestina e manoscritta, e quindi chicche di grande valore possono ancora venire a galla, fortunatamente per noi studiosi, ma anche per la conoscenza della mente umana che allora era di una plasticità più atta a cogliere le infinite pieghe (il concetto deleuziano del “pli”) delle varie discipline.
CLAUDIO MORANDINI – E nel campo della musica e dell’opera?
JEAN-FRANÇOIS LATTARICO – Mi vengono in mente certe produzioni contemporanee (Perelà o Medeamaterialdi Dusapin) che istituiscono lo stesso rapporto di grande adesione della musica rispetto al testo drammatico. Pensa che nel Perelà il compositore ha preso il testo di Palazzeschi senza cambiare una virgola, proprio come fece al suo tempo Monteverdi con il poema del Tasso… Tutto questo per dire che il Barocco ha ancora da insegnarci qualcosa, come se fosse una stella morta, spenta durante tre secoli, ma che continua, nonostante tutto, a mandarci la sua pur affievolita luce.
CLAUDIO MORANDINI – Per chiudere, Jean-François: c’è ancora qualcosa del Barocco che ci sfugge, che è rimasto nascosto, che non è ancora stato recuperato, o che magari aspetta una rivalutazione?
JEAN-FRANÇOIS LATTARICO – Sicuramente c’è ancora molto da scoprire. Come dicevo prima, il Seicento è il secolo della letteratura manoscritta e delle pubblicazioni clandestine. Certe opere considerate come perdute possono riapparire quasi per miracolo. Penso al melodramma e alle ricche collezioni private che nascondono, a volte senza saperlo, dei tesori insospettati. Per fare un paio di esempi, è riapparsa così la Finta pazza di Sacrati nella biblioteca privata dei Principi Borromeo dell’Isola Bella, un’opera che uno studioso (Petrobelli) aveva addirittura considerata, qualche decennio fa, “un’opera fantomatica di un compositore fantomatico”. Più recentemente, l’Argippodi Vivaldi è stata riscoperta nella biblioteca dei Principi di Thurn und Taxis a Ratisbona, e ci saranno probabilmente altre riscoperte nei prossimi anni: possiamo sperare,perché no, nella famosa “Arianna” di Monteverdi, di cui si sa che è stata riallestita a Venezia nel 1640, quindi dopo la distruzione del manoscritto originale durante il saccheggio di Mantova nel 1630… Io stesso sono alla ricerca di un libello pallaviciniano (La bucata universale) che è forse scampato alla distruzione durante il processo di Avignone e che potrebbe trovarsi tra le carte dei Barberini nell’archivio segreto del Vaticano… In fin dei conti, la nostra è una ricerca che somiglia a un giallo. Siamo dei detective barocchi in cerca di un prezioso bottino nascosto in un angolo perduto di una biblioteca, e sfuggito per secoli allo sguardo di chi non aveva intuito il valore di questi tesori.