L’era del segreto sta finendo
Una qualsiasi giornata di agosto, periodo in cui il bombardamento delle notizie relative all’andamento dei mercati sembra leggermente ridotto, a beneficio di quello delle notizie “di costume”. Apro il giornale: la pagina culturale ospita un’intervista ad un noto economista e sociologo intorno al fenomeno del «poliamore», come viene chiamato il modello amoroso, sempre più diffuso, che prevede la possibilità di allacciare più legami sentimentali alla volta, senza doverli nascondere ai vari partners coinvolti. Per quale motivo – si domanda il sociologo – oggi, nell’epoca della società liquida, possiamo avere due case, due cellulari, e non due o più relazioni ? Non c’è bisogno, allora, di ricorrere ancora al segreto.
Leggo e ripenso con nostalgia a quel mistero, alimentato dalla supposizione di un intero mondo, un passato e un presente sconosciuti che ogni innamorato immagina custoditi dalla persona amata, il cui desiderio di svelamento costituisce, da sempre, uno dei principali motori dell’innamoramento.
Mistero che la società di oggi, allergica ad ogni tipo di complessità, pretenderebbe di eludere. Ma l’anima umana non può essere decurtata delle sue inevitabili zone d’ombra e c’è il rischio che un’eccessiva esposizione la bruci. Il più grande pericolo della «società della trasparenza» (per citare Byung-Chul Han) è la riduzione del linguaggio alla pura esposizione di dati (ciò in cui consiste la semplice informazione) e, di conseguenza, la scomparsa della complessità, derivante da quel qualcosa di nascosto e profondo che si cela dietro le parole e che costituisce lo spunto per l’elaborazione critica.
Contro un tale pericolo di impoverimento del linguaggio, la possibilità che la parola trovi ancora spazi in cui continuare ad esercitare la sua qualità opaca di stimolo all’immaginazione è tanto più preziosa.
Il pericolo in cui incorre l’uomo, preso nella trappola della trasparenza, non era sfuggito, già alcuni decenni fa, alla scrittrice Anna Maria Ortese, interprete attenta della società (numerose le sue collaborazioni giornalistiche): «Quante cose sa l’uomo d’oggi! E come – quanto più sa – più è paralitico! – scrive Ortese in un articolo del 1969 – Il suo odio per i segreti non ha limiti; perciò egli non produce più segreti, solo incomprensioni».
Chi è Anna Maria Ortese? La quarta di copertina che accompagna il suo romanzo più celebre, Il cardillo addolorato, la descrive così: «Scrittrice segreta, contemporanea di Elsa Morante, Anna Maria Ortese è autrice di undici libri, romanzi e racconti. Nata a Roma, ha vissuto in Libia e ha errato per le varie città d’Italia prima di stabilirsi a Genova, dove ha vissuto dal 1978». L’importanza che Ortese accorda al segreto non è dovuta solo alla solitudine nella quale è riuscita a sviluppare la sua poetica, lontano dalle mode letterarie del suo tempo, ma soprattutto alla sua stessa concezione di romanzo, ai suoi occhi ultimo bastione di resistenza contro la distruzione del mistero.
Principi, misteri e cardilli
L’incipit del cardillo addolorato (edito in Italia nel 1993) evoca direttamente i toni della fiaba: tre giovani cavalieri, legati da grande amicizia, ossia il commerciante Alphonse Nodier, lo scultore Albert Dupré e il principe Ingmar Neville, muovono dalla città belga di Liegi per recarsi in viaggio a Napoli.
La storia si svolge alla fine del Settecento, il «Secolo dei Lumi», come sottolinea con ironia la voce narrante, che ricorda come risalga proprio a quell’epoca l’avvio della fiducia cieca nel progresso.
La sera stessa del loro arrivo, i tre cavalieri si recano alla Casa del Pallonetto, sontuosa residenza di Don Mariano Civile, guantaio di fama europea, con cui Nodier vorrebbe stringere affari; certo, la sua abilità di guantaio gli ha procurato un’ottima reputazione, ma al consolidamento di quest’ultima non sono estranee certe voci relative alla bellezza delle sue figlie.
Il guantaio presenta ai forestieri le uniche due non ancora accasate: ma Teresella è ancora una bambina e quindi è il fascino della più grande, Elmina, a fare breccia nel cuore dei belgi, in particolare in quello di Albert Dupré e del principe Neville. Oltre che dalla bellezza della damigella, questo fascino sembra sprigionare dal fatto che «sembrava esservi un segreto, in lei».
Tale impressione proviene da una certa freddezza, che contraddistingue i suoi modi, al punto da farla sembrare «muta di dentro, come non fosse una giovane donna tanto avvenente e dolce, ma una pietra».
Il principe Neville, il più intuitivo dei tre amici (anche in virtù della sua conoscenza delle arti negromantiche, che lo facilitano nell’indovinare la realtà che può celarsi dietro le apparenze) è convinto che Elmina nasconda un’anima oscura, forse incline al peccato. Quando, qualche giorno più tardi, apprende che la giovane andrà in sposa ad Albert, dapprima tenta di impedirlo (per un senso di protezione nei confronti dell’amico che, in realtà, maschera una gelosia di cui è ancora inconsapevole); in seguito, finisce per arrendersi al matrimonio, ma avvia comunque un’indagine volta ad accertare la natura del segreto custodito dalla fanciulla, che presagisce essere in qualche modo legato al mistero dell’identità di un certo uccellino di cui Elmina aveva fatto menzione: un cardellino; in napoletano, Cardillo, di cui non si conosce il ruolo che esso svolge nella vita di Elmina.
Il primo a cui Neville si rivolge, in cerca di informazioni, è il duca polacco Benjamin von Ruskaja, collega di scienze magiche, di stanza a Caserta.
Secondo le fonti del duca (una lente di Cracovia «che fa rifiorire il passato»), il segreto di Elmina risiederebbe in un delitto commesso durante l’infanzia: l’uccisione, per invidia, di un uccellino, proprio un cardellino, appartenuto un tempo a Floridia, un’altra figlia del guantaio, morta da bambina; sarebbe stata appunto la malefatta compiuta da Elmina a provocarne la morte, sopraggiunta nella bambina per la tristezza di aver perso l’uccellino amato.
Tuttavia, il principe si rende presto conto di quanto sia difficile, in una città come Napoli, dove ci si taglia «i panni addosso l’un l’altro», risalire alla verità. Nel duca, ad esempio, la reputazione di veggente e mago si confonde con quella di gran ciarlone, rinomato per la sua capacità «d’intervenire e pettegolare» in ogni sorta di intrigo verificatosi tra Caserta e Napoli; per il principe, è così impossibile stabilire quanto, nella ricostruzione offerta dal duca, derivi dalle sue qualità di veggente e quanto dalle dicerie.
Lo stesso sospetto di inattendibilità riguarda tutte le storie riferite al principe sul conto del cardellino e di Elmina – ciascuna diversa dalla precedente, per particolari minimi o sostanziali – dai vari personaggi che egli incontra a Napoli, tutti più o meno implicati nella vicenda: dai familiari e servitori di Elmina, a Don Liborio Apparente (l’avvocato di famiglia), alla governante, ciascuno interessato a trarre vantaggio dalla trasmissione della sua particolare versione dei fatti. La forma compositiva in base a cui è strutturato il romanzo ricalca così l’impianto del pettegolezzo, ossia quel meccanismo secondo cui ogni voce ne genera un’altra, spesso più colorita della prima, determinando una catena che si alimenta secondo un processo di amplificazione ed esagerazione progressiva.
Non è un caso, a questo proposito, il fatto che nella prima parte del romanzo, corrispondente al primo viaggio del principe a Napoli, le notizie raccolte sul Cardillo riguardino un uccellino vero e proprio, mentre nella seconda, che narra il secondo viaggio che Neville, trascorsi una decina d’anni, compie a Napoli – dove ritroverà Elmina, ormai vedova –, al Cardillo si faccia sempre allusione come a qualcosa di immateriale, uno spirito, la cui funzione nella vita di Elmina rimane comunque ignota.
Il fatto che la voce narrante non sostenga nessuna delle varie storie raccontate al principe sul Cardillo, ma si limiti a riferirne la trasmissione (riferendo di averla appresa a sua volta da certe fonti, non ben specificate), paragonandole anzi a «continue ciarle di bambini che giocano», riduce tutte le versioni ad un medesimo livello di (im)plausibilità.
Il modello della favola, presente all’inizio, viene così tradito, dal momento che nessun lieto fine (cioè, nessuna verità realmente accreditabile come attendibile) corona le aspettative dei lettori, in un romanzo «che è un dire e smentire continuo».
Il romanzo come reato di aggiunta e mutamento
Il personaggio del mago duca Benjamin von Ruskaja è celebre per le «aggiunte alla realtà» di cui orna i suoi resoconti napoletani.
La sua magia, forse, è tutta qui: nella capacità di plasmare il mondo attraverso la parola. Non a caso, per Anna Maria Ortese, proprio nell’arte di fornire delle «aggiunte alla realtà» risiede il compito etico del romanzo.
Nel suo ultimo testo scritto prima della morte (sopraggiunta nel 1998) in occasione della riedizione del Porto di Toledo – piuttosto che un romanzo autobiografico, una grande opera di ricostruzione romanzesca di sé, pubblicata la prima volta nel 1975, ma a cui Ortese continuerà a lavorare tutta la vita –, l’autrice dichiara la propria concezione di letteratura come «reato».
Per Ortese, scrivere equivale a compiere un crimine «di aggiunta e mutamento», ossia un atto sovrano di immaginazione rispetto a ciò che viene spacciato comunemente come realtà.
Si tratta della stessa scoperta a cui perviene Damasa, la protagonista del Porto di Toledo, nell’iter come apprendista scrittrice che intraprende sotto la guida del suo Maestro d’Armi: la letteratura non sarebbe soltanto un «riflesso» della realtà, ma un «secondo mondo», in cui il «Vivente», sottratto ai soliti automatismi della percezione, viene riorganizzato secondo le leggi della libera invenzione e reso così di nuovo percepibile.
Se il “vero” vero è «intimamente inconoscibile», il compito che il romanzo deve proporsi non è dunque quello di imitare la cosiddetta realtà – la quale costituisce solo un’ulteriore illusione –, ma quello di esibire il proprio statuto fabulatorio; in altre parole, di affermare quel vantaggio che, in letteratura, può derivare dall’impiego di un’immaginazione senza freni, la quale può rivelarsi uno strumento conoscitivo ben più efficace della cronaca realista.
L’illusione dell’uomo contemporaneo, secondo Ortese, è stata quella di confondere l’informazione con la conoscenza. Quest’ultima, intesa come possibilità di comprendere la molteplicità dei dati nell’insieme delle loro interrelazioni, può derivare infatti solo da uno slancio dell’immaginazione.
Al contrario, un eccesso di informazione è proprio ciò che soffoca l’immaginazione.
Nel Cardillo addolorato, Anna Maria Ortese dà vita ad un secondo mondo, che non entra in concorrenza con quello realistico, ma lo sfida apertamente; a tal fine, ricorre ad un principio di massima inclusione e massima relativizzazione della materia.
Oltre che attraverso l’espediente delle versioni che si contraddicono, questi sono ottenuti tramite la rappresentazione di Napoli, dove si svolge la vicenda, come città la cui «fama di sfrenatezza e di lusso» si accompagna a quella delle numerose leggende di «storie non chiare, remote e dolci, di Sibille, di Sirene, di creature femminili in rapporto con gli Inferi…» che la vedono protagonista. In quanto luogo in cui «retorica e letteratura da strapazzo sono già tutte depositate nel costume», Napoli costituisce il paradigma stesso della città-mondo; ma si tratta di un mondo lunare, abitato da folletti, come quello a cui – secondo i mormorii giunti alle orecchie di Neville – la stessa Elmina avrebbe offerto la sua protezione.
Questo universo, fondato sulle leggi dell’inverosimiglianza e della contraddizione, non viene predisposto come strumento di una fuga dalla realtà ma, al contrario, come occasione di guadagnare, per mezzo dell’immaginazione, una nuova prospettiva conoscitiva.
Inaccessibile Elmina
Quando incontrano per la prima volta Elmina, il principe Neville vi scorge una freddezza che, pensa, «si poteva vincere»; l’amico Albert, invece, ne ricava l’impressione di «una distanza, un abisso (…) che non si sarebbe mai potuto superare». Di tutti i personaggi del Cardillo addolorato, i pensieri dei quali vengono spesso illuminati dal narratore, Elmina è l’unica che non viene mai mostrata da dentro. Questo personaggio appartiene alla schiera delle Albertine, delle Lucie (personaggio dello Scherzo di Kundera): io romanzeschi dalla natura sfuggente, che vengono inquadrati unicamente attraverso lo sguardo degli altri personaggi, destinati quindi a destare quell’interesse che soggiace alla nascita del sentimento amoroso.
Il diverso atteggiamento assunto dai due cavalieri è indicativo del tipo di sentimento che essi sviluppano nei confronti di Elmina.
Nella giovane, Albert intravede un abisso «che non si sarebbe mai potuto superare». Egli rinuncia in partenza ad interrogarsi sull’universo interiore che indovina custodito dalla giovane, ossia non si dispone a quell’apertura che prelude alla conoscenza dell’altro. Così, l’amore di Albert per Elmina si rivelerà la semplice proiezione di un ideale, un’illusione destinata a svanire presto.
Dei due amici, il principe Neville è l’unico a voler guardare oltre la freddezza di Elmina, a sperare di poterla «vincere». È quindi Neville il vero protagonista del romanzo: è la sua curiosità ad innescare la narrazione delle storie che ne alimentano la trama. Neville è anche l’unico dei personaggi a subire una trasformazione nel corso del romanzo: all’inizio della vicenda, egli è caratterizzato come un brillante diplomatico, che non esita ad approfittare della sua ricchezza e della sua posizione per affermare il suo potere sugli altri; appare così interamente proteso verso la dimensione materiale della vita. Durante il suo viaggio di formazione napoletano, però, durante il quale sperimenta per la prima volta l’impossibilità di realizzare alcuni suoi desideri e, in particolare, di poter risolvere la faccenda che più gli preme, ossia scoprire la verità sul cardillo e conquistare il cuore di Elmina, Neville matura e impara ad appropriarsi anche della sua dimensione interiore.
In particolare, impara ad amare il «dolore del cardillo» che, per il principe, esprime l’ultimo anelito della natura, intesa come semplice «vivente», ossia come tutto quanto sfugge alla pianificazione razionale e costrittiva imposta dal progresso.
Ma questa è solo l’ultima delle sue ricostruzioni dei fatti: appurata l’impossibilità di scoprire il segreto di Elmina e conquistarla, il principe decide di ritirarsi una volta per tutte a Liegi; una volta rientrato nel suo sontuoso palazzo, dà ordine di chiudere le scuderie per sempre. Proprio allora, però, la sua costanza viene premiata. Il maggiordomo fa irruzione nel suo appartamento, annunciando la visita di «un certo Cardillo, da Napoli», che chiede di essere ricevuto.
Neville, incredulo e felice, si prepara ad accogliere l’antico oggetto della sua quête, che finalmente «gli avrebbe spiegato» tutta la verità. Il romanzo, però, si conclude un attimo prima che l’incontro rivelatore abbia luogo.
Per tutto il corso del romanzo, lo sguardo di Neville ha coinciso con lo sguardo del lettore, che si è inoltrato nella storia attraverso le informazioni raccolte, di volta in volta, dal principe. Il finale, invece, provoca per la prima volta una discrepanza tra i due punti di vista: al personaggio sarà svelata una verità che al lettore resta preclusa. L’intero romanzo si fonda così sulla reticenza.
Il fatto che, fino alla fine, la valenza assunta dal cardillo resti opaca è un espediente necessario ai fini del mantenimento del carattere fittizio ostentato dal romanzo. Concentrare in un unico passaggio lo svelamento del mistero rappresentato dal cardellino avrebbe attribuito al romanzo i tratti del poliziesco, genere in cui l’esposizione di un fatto misterioso viene condotta unicamente in funzione dell’agnizione finale, in cui risiede l’unico interesse dell’opera.
Ma nel territorio puramente romanzesco che contraddistingue il Cardillo addolorato, la delineazione del’intrigo, contrariamente a quanto accade nel poliziesco, non serve alcuno scioglimento finale. Essa svolge piuttosto la funzione di memorandum: il suo significato è quello di ricordarci l’irriducibilità del segreto, come fulcro insopprimibile alla base delle relazioni umane.
Quando era ancora impegnato nella sua quête, riflettendo sull’eventuale influenza del cardillo nella vita di Elmina, il principe Neville ne aveva tratto una riflessione universale: la scoperta che, spesso, dietro i comportamenti apparentemente inspiegabili di qualcuno, possa nascondersi un «qualche povero, ma terribile altro». Si, dietro l’apparenza, ciascuno può nascondere un segreto del passato, un amore, un Cardillo, una gioia o un dolore. E poco importa portarlo alla luce perché il semplice fatto di immaginarne la presenza ci permette di cogliere il prossimo nella sua concreta alterità e di avviare il processo di conoscenza. Nel romanzo, è proprio l’invenzione del Cardillo, un essere magico, a stimolare questa scoperta. In ciò allora mi appare risiedere il grande merito di Ortese: averci ricordato il valore concreto della magia, o meglio dell’immaginazione, ai fini della comprensione dell’altro.
Un grande romanzo che merita grande attenzione ed un’appassionata rilettura. Ringrazio per questo Simona Carretta e Zibaldoni.