Nel cuore di Gilgameš
Da quando la tenebra ti abbracciò,
ti perse al richiamo del mio nome,
non senti il lamento che ogni giorno
ti offro né riconosci i trofei,
i nostri, Enkidu, non sai le intere
notti, sconfinate, che ho pianto,
perché da allora, le guance scavate,
nella paura di morire ho camminato,
per il destino che m’attende, per te,
amico fidato, non trovo pace.
Quando uccidemmo il gigante Humbaba,
stroncammo l’ardore della dea Ištar,
quando alle genti di Uruk un trono,
le mura, la gloria abbiamo dato,
a che servì, se per sempre da me
sei lontano, se dall’uomo accolto
fra gli dei, il solo scampato al diluvio,
appresi che non c’è speranza
di durare in eterno, l’ultimo sonno
chiude gli occhi nel silenzio senza fine,
non dà ritorno, se la morte
fu così avida del tuo giovane corpo,
se entro anch’io nel numero immenso
di chi non ha più voce, nome,
non getta ombra sulla terra,
di chi ha dimenticato la frenesia
che segue ogni risveglio?