Quando il commerciante di alimentari K. Weinrich entrò dalla porta dell’Agenzia di servizi alla persona “Corona” per sedersi e illustrare le sue intenzioni, l’attenzione di Karl colse un’irripetibile serie di dettagli il cui insieme annunciava – giustamente, come si sarebbe visto in seguito – sia curiosità che allarme. Fu infatti con questo particolare stato d’animo che Weinrich, quasi rannicchiato nel soprabito, cominciò a parlare di quella che chiamava la sua esigenza, esigenza che in fin dei conti avrebbe potuto perfino essere interpretata come uno scherzo, se solo si fosse chiusa in due battute.
“Dovrei ritrovare una persona. Ma la mia esigenza – pronunciava questa parola in modo inverosimile, quasi masticandola in bocca – credo sia del tutto particolare.”
“Sono qui da parecchi anni, ho risposto in modo riservato a molte richieste particolari”, disse Karl.
“Oh, non è questo, non è tanto questo il punto”, fece il commerciante: “Non è cosa da condursi in segreto, si tratta più che altro di una faccenda, come dire, delicata.”
Karl stava per replicare, quando il corpo di Weinrich ebbe un sussulto, tanto da riportarlo con l’attenzione sulla materia: doveva trattarsi di qualcosa che riguardava direttamente la sua persona e non altri. Mentre si rigirava le mani, il commerciante sembrava infatti tormentato da un problema che non doveva essere sorto da vicende esterne, quanto dalla scoperta improvvisa di un punto imprevedibile e segreto della sua coscienza. Una scoperta che evidentemente lo aveva spinto a cercare in un secondo momento qualche spiraglio nella realtà quotidiana. I territori montani inducono sempre più spesso all’astrazione, un procedimento non privo di pericoli, pensò Karl.
Ci fu un momento di pausa, una sorta di tregua dolorosa nella lotta interiore del commerciante. Poi, con qualche esitazione, riprese:
“Lei dovrebbe ritrovare me. Sono io la persona da cercare.”
Chiudendo gli occhi, Karl rivide vertiginosamente la sala affollata e maleodorante in cui molti anni prima aveva assistito alla proiezione di Rapporto confidenziale di Orson Welles, ripensò ai piani di chi mette in scena il proprio rapimento, piani che di solito si concludono con dei fallimenti non meno clamorosi che fatali. Stava per irritarsi al punto di rifiutare l’incarico, quando in modo del tutto inatteso ebbe l’intuizione che gli diede un motivo per proseguire: la prospettiva di trascurare tutti i dettagli, di imbarcarsi in un’indagine sui bassifondi della materia.
“C’è di più”, continuò Weinrich, che aveva preso coraggio, “io vorrei partecipare all’impresa. Nessuno meglio di me conosce come sono fatto – lo disse toccandosi una spalla e masticando un po’ le ultime parole – in più, se vengo in giro con lei avrà sempre con sé il campione vivente più prossimo a quello che stiamo cercando.”
Nel contegno del commerciante c’era qualcosa di incerto, che nascondeva una potenzialità inespressa del tutto positiva. Certo, non aveva pienamente coscienza di quel che stava dicendo. Eppure, di rado i commercianti manifestavano gravi disturbi psichici. In questa regione del Nordest italiano i negozianti – e i commercianti di alimentari in particolare – erano una categoria equilibrata, assai poco colpita dalla depressione rispetto alle casalinghe, o ai professori di scuola media inferiore, che occupavano invece i primi posti. Ma qui c’era dell’altro. Karl avvertì di nuovo che il dettaglio scatenante di quell’esigenza non doveva riferirsi a una vicenda personale, o a una vicenda della vita cosciente, per così dire. Solo per scrupolo, dunque – e senza interesse – chiese alcune informazioni sulla famiglia.
Weinrich rispose in modo evasivo perché aveva voglia di restare sul tema. Era cresciuto a Salisburgo, poi i suoi genitori si erano trasferiti a Bolzano, quindi da noi. Sposato con Rita, aveva due figli, Klaus e Alcide, entrambi impegnati a scuola. Come Karl sospettava, il negozio di Weinrich prosperava come non mai. Non c’era quindi da fare affidamento su questi indizi. Si trattava, come era apparso fin dal primo momento, di liberarsi dalla falsa pista delle sue dichiarazioni coscienti (in cui si rischiava di rimanere imbrigliati) e di sfruttare i suoi errori per addentrarsi in una singolare odissea dalla quale si doveva riemergere con un risultato concreto.
“Non ho bisogno di un medico, se è questo che si sta chiedendo”, disse infine Weinrich, in modo deciso.
“Ma no, si figuri.”
Era da un po’ di tempo che non gli capitava un incarico come questo, un incarico il cui oggetto era tanto nascosto che la maggior parte delle persone non lo avrebbe neppure notato.
“Non ha mai pensato di dover lasciare qualcosa ai propri cari? A guardarla, credo sia arrivato a un’età in cui possa capirmi. A un certo punto diventa necessario pensare a ciò che lasceremo agli altri. Mi piacerebbe ritrovare un nuovo me stesso, un me stesso privo delle insicurezze che mi hanno messo quasi fuori combattimento. Ritrovare me stesso vivo e vegeto. Ecco tutto.”
Weinrich aveva un tono apprezzabile, ma la sua materia sembrava muoversi in modo incoerente con le sue affermazioni. Al momento, nonostante il potenziale, non aveva molta solidità: era robusto, ma il suo insieme esprimeva una particolare apertura all’ignoto, come se in qualche modo fosse stato esposto per troppo tempo alle intemperie, al punto che ora parte del suo corpo, in particolare il fianco sinistro, appariva scoperta, priva di difesa. Se solo fosse rimasto esposto qualche giorno in più a quel pericolo – pensò Karl – avrebbe potuto prendere il volo come un pupazzo di carnevale riempito di elio.
“E quando avrebbe intenzione di cominciarle, queste ricerche?” chiese Karl.
“Al più presto, direi. Immagino che dovremo accordarci, ma io direi al più presto. E non si preoccupi per l’onorario. Pagherò il giusto, non di più perché non posso permettermelo, ma sicuramente il giusto.”
C’era qualcosa di bizzarramente pacato nell’espressione della voce, dato il tenore delle sue richieste.
Karl prese il telefono e chiamò Linda, per farle registrare i dati di Weinrich.
2.
La questione preoccupante e meravigliosamente quotidiana posta da Weinrich meritava una riflessione cui Karl nei giorni seguenti cercò di dedicarsi, fra l’organizzazione dei turni di pulizie ad alcuni appartamenti e le prenotazioni su Internet delle visite di controllo per un gruppo di anziani. Gli incarichi parzialmente incoerenti avevano fatto la fortuna recente dell’Agenzia, e del resto Weinrich era il sintomo di un dato non nuovo: la gente si perdeva ormai anche agli angoli delle strade. Quando si imbatteva in un gruppo di persone che conversavano davanti a un bar, Karl si chiedeva per scherzo se si trattasse di una discussione, o di un centro di auto-mutuo aiuto messo in piedi per ritrovare la strada di casa. Il soprabito sdrucito, gli occhiali dalla montatura di metallo arrotondata, l’orologio svizzero ultrapiatto dal quadrante color champagne, le grandi scarpe nere consunte che avevano percorso centinaia di chilometri dietro il banco – testimoniando le più improbabili espressioni di gusto della nostra comunità – evidentemente non erano più sufficienti a garantire una consistenza materiale pronta ad essere riconosciuta. In altre parole, sembrava che la forza dell’abitudine avesse cessato di fornire alla coscienza di Weinrich una solida garanzia.
Eppure quel dolore a un fianco, postumo di una caduta accidentale che aveva avuto luogo durante la processione dell’Assunta dell’anno precedente, agli occhi di Karl poteva ancora essere indicato come una costante nella memoria del corpo. E certo la coscienza aveva pur ceduto per qualcosa. Sugli altri fronti, quelli lavorativi e familiari, Weinrich era stato forse trascurato, ma con una moderazione cui aveva finito per abituarsi. Era stato garzone di macelleria, poi promettente apprendista e quindi, dopo l’ultimo trasferimento, commesso in un negozio di alimentari e bazar del quale aveva poi rilevato anche il reparto tessuti e abbigliamento, che teneva ormai da quindici anni. Una cosa era certa, pensò Karl: non si trattava in alcun modo di un risveglio della coscienza.
L’appuntamento glielo aveva dato verso sera, alle diciotto, per avere a disposizione poco più di un’ora prima dell’orario di chiusura e quindi per non prolungare troppo la cosa nel tempo. Karl si alzò, scostò la tenda e si mise a guardare dalla finestra. Si sentiva affaticato, non del tutto disposto a rituffarsi nell’indistinto dove la coscienza di Weinrich nuotava in modo scoordinato rendendosi riconoscibile a distanza. Avrebbe avuto bisogno d’altro, di trionfali, gloriose serate da trascorrere con Linda sul divano. Weinrich aveva cominciato a non riconoscere le convenzioni quotidiane in un contesto in cui in effetti queste condizioni si erano fatte sempre più deboli.
Stava osservando il giardino oltre la strada quando Linda mise la testa entro la porta e gli fece un cenno in direzione dell’ingresso: “Vieni di là”. Due persone si erano fermate poco oltre la porta. La prima era una donna magra e nervosa, abbigliata in modo affrettato, come se avesse deciso solo all’ultimo di uscire di casa. La seconda era Weinrich. Indossava un giaccone pesante, con i risvolti in pelle di montone che mettevano in risalto le braccia abbandonate lungo i fianchi. Era visibilmente accaldato, sembrava più grande e un po’ più smarrito, rispetto al primo incontro.
“Siamo qui per l’appuntamento”, disse la moglie.
Si accomodarono in ufficio. Lei aveva urgenza di parlare.
“Ora lei mi dovrà scusare se parlo per prima, ma non capisco più dove stiamo andando a finire. Questo qui – e fece un leggero cenno al marito, che guardava a terra – è venuto da lei per raccontarle una serie di storie farneticanti sul fatto di doversi ritrovare. Certo qualcosa non va. In negozio fa quello che deve, ma parla sempre meno con i clienti e questo non va bene. Dice che fa fatica: può essere, non è che ci siamo poi riposati tanto in questi anni. L’altro giorno, però, verso la chiusura, l’ho scoperto rannicchiato in un angolo ad accarezzare una abat-jour come se si trattasse della lampada di Aladino – per non dire altro – il che, francamente, comincia a farmi dubitare che stia davvero perdendo la testa. Ho dato un’occhiata con attenzione. Il suo comportamento peggiora proprio verso sera, cosa che potrebbe ancora essere legata alla stanchezza, se si trattasse di un malanno passeggero. Ad ogni modo, questo è quello che mi auguro, perché in caso contrario non saprei proprio come andare avanti.” Si fermò un istante, riprese fiato, poi proseguì: “Ora, lei si starà chiedendo perché io stia raccontando queste cose proprio a lei e non a un medico – come forse sarebbe il caso – e la ragione è questa: a quanto ne so per ora lei è l’unico a cui mio marito si sia rivolto per parlare della faccenda e io ci terrei che la cosa – sempre appunto sperando che possa rientrare – potesse restare riservata. Sa, nel lavoro come nella vita – lo diceva guardandosi l’orlo della gonna, prima di tornare di nuovo sugli occhi Karl – anche queste cose possono avere il loro peso.”
Lo sguardo di Weinrich si allungava oltre la finestra, assorto in pensieri che le preoccupazioni della moglie non riuscivano a sfiorare. Consapevole della dinamica in corso, pur sapendo che non avrebbe portato a niente di concreto, Karl pensò che fosse comunque opportuno chiamarlo in causa:
“Lei ha qualcosa da dire?” chiese, senza forzare.
“Io rimango fedele al mio credo.”
“Allora attaccati, mio caro, ma non credere che io me ne stia in silenzio a guardare il modo in cui rincoglionisci: ho un milione di cose da fare e forse è il caso che ti ricordi che abbiamo anche una famiglia, che bisogna mandare avanti una casa.”
Facendo violenza a se stesso, venendo meno al principio di non portare mai il discorso sul piano psicologico e cercando per quanto possibile di evitare di trasformarsi in un mediatore, Karl si sforzò di intervenire: “Il suo proposito è forse in qualche modo incompatibile con i suoi doveri professionali e familiari?” Weinrich sorrise, si aspettava una domanda del genere. Rispose perciò con un filo di ironia:
“Io non l’ho mai detto; non mi pare di essere mai mancato al mio dovere. Non vedo dunque per quale ragione dobbiamo discutere su questo punto. Ciò non toglie che io resti determinato nelle mie intenzioni.”
La moglie aveva chiuso gli occhi e scuoteva leggermente il capo. Per quanto un po’ troppo magra, esprimeva molto più di una preoccupazione formulata in termini affrettati, come erano suonate le parole di poco prima. Osservando la scrivania, passava in rassegna i molti fogli sparsi nascondendo una partecipazione emotiva per le sorti del marito che non poteva più concedere. D’altra parte, perché tormentarsi inutilmente, perché voler rimanere ostinatamente aggrappati alle proprie convinzioni?
“In fondo, anche se per ora non lo capisci, io lo faccio per il tuo bene”, riprese il marito, sempre col solito tono singolare e un po’ strascicato: “Nel caso in cui mi succedesse qualcosa, vorrei che potessi avere qualcuno cui rivolgerti. E d’altra parte, l’hai detto anche tu, cosa ti manca, oggi, a parte questa mia intenzione?”
Le spalle della moglie tremarono leggermente. Si portò la mano destra alla bocca, come per dominare un moto improvviso, poi si ricompose:
“Mi scusi,” disse, trattenendo le lacrime, “forse è meglio che continuiate l’incontro da soli. I ragazzi stanno per arrivare a casa.”
3.
Il giorno dopo Weinrich si presentò colmo di buoni propositi. Si era fatto dare un giorno di permesso dalla moglie, secondo la maldestra espressione dalla quale non era riuscito a cancellare alcune lievi inflessioni preoccupanti. Karl aveva rivisto con Linda le varie scadenze e si era messo ad aspettarlo fuori la porta dell’ufficio. Quando lo vide, ne fu subito soddisfatto. “Certo, dovrai inventarti qualcosa”, gli aveva detto Linda. Ed era proprio questo il programma. Il commerciante era di buon umore, abbigliato per una volta in modo confacente: discreto, tanto da non dare troppo nell’occhio.
Mentre si preparavano a partire sotto un cielo incredibilmente azzurro, Weinrich chiese a Karl: “Ha mai lavorato in banca?”. Senza attendere la risposta, continuò: “Io vorrei essere come uno specimen, il bigliettino sul quale il cliente depositava la firma e al quale gli impiegati ricorrevano per riconoscere la validità di quella che si trovava in fondo agli assegni. Mi piacerebbe, dico davvero. Ad ogni modo, se ha l’impressione di avermi ritrovato da qualche parte, non esiti a controllarmi.”
Karl chiuse i bottoni del giaccone: “La ringrazio”. Weinrich aveva depositato se stesso nel proprio corpo come un campione da consultare in caso di incerto riconoscimento. Karl ne rimase soddisfatto. Se infatti a uno sguardo superficiale la materia di Weinrich avrebbe potuto essere considerata debilitata da questa scelta, ignorando le espressioni del suo cliente Karl aveva avvertito senza alcun dubbio che la condizione generale di Weinrich si trovava in crescita: incomparabilmente migliore, rispetto ai due incontri precedenti. Sembrava si fosse nutrita dei due incontri per conseguire una sintesi di insperata affidabilità. Perfino con la moglie la situazione doveva essere migliorata: meno drammatica, più possibilista. “La giornata è cominciata bene” disse così, a mezz’aria. Gli chiese di accompagnarlo nel suo giro quotidiano: “Da qualche parte dobbiamo pur cominciare”. E Weinrich acconsentì.
Karl era partito con l’intenzione di lasciare Weinrich a se stesso e farsi trionfalmente gli affari propri, per vedere come la sua condizione si sarebbe sviluppata e improvvisare di conseguenza. Per prima cosa, quindi, comprarono il giornale e si diressero verso il bar.
Erano le nove e un quarto. Nel locale si trovavano solo alcuni anziani. Karl scelse un tavolino in un angolo, per evitare che Weinrich si distraesse e lo portò con sé come dovessero discutere di un affare di particolare urgenza. Sapeva che i pensionati si sarebbero subito interrogati su di loro, ma voleva proprio che il commerciante si esponesse a queste voci, a questi sguardi fuori del suo contesto abituale. “Qui non c’è nessuno, vero?” chiese, andando ad ordinare, ma Weinrich non sapeva che rispondere.
Presero due cappuccini e si misero a leggere. Più che altro, Karl leggeva, mentre Weinrich, che a quell’ora di solito aveva seguito solo il giornale radio – come aveva fatto anche quella mattina – si sentiva fuori posto e sfogliava le pagine distrattamente.
“Non legge il giornale?”
“Di solito lo leggo dopo pranzo.”
Prevedibilmente, dopo essere partito con entusiasmo, nel giro di mezzora Weinrich aveva già mostrato in modo evidente il proprio disagio. Trovandosi d’un tratto senza occupazione, senza più il conforto del lavoro da svolgere e dell’abitudine da cui era fuggito, Weinrich era ora preda di un’inquietudine che dominava solo a costo di una fatica inconsueta, che fra l’altro portava con sé una serie di considerazioni accessorie e snervanti, come se tutta l’attenzione dei presenti fosse puntata sulla sua inattesa inadempienza professionale, sulla sua defezione esistenziale. Non lo si era mai visto al bar di primo mattino. Mentre beveva il cappuccino teneva la testa china sul quotidiano. Karl gli disse di guardarsi intorno: non c’era proprio nessuno che conoscesse? Impossibile, dato il lavoro che faceva. Gli chiese di ripensare che rapporti avesse con loro. Weinrich si girò col giornale aperto, appoggiandosi al muro e cominciò a parlare a bassa voce da dietro la pagina: sì, di vista conosceva tutti, e in particolare due impiegati che stavano appoggiati al banco e con i quali non aveva alcuna voglia di parlare. Ma non c’era nulla in loro che potesse essere interrogato. “Non è che ci sia proprio bisogno di interrogarli,” disse Karl.
“Sa, più che altro”, continuò Weinrich da dietro il giornale, “sento il bisogno di confessarle una cosa. Quando ho capito che stavo cominciando a vivere la vita di una copia, una delle prime osservazioni che mi sono state di aiuto e anche di conforto – mentre mi sembrava di continuare a cadere, senza sosta, lungo una sterminata parete di bronzo – è stata quella di pensare a ciò che gli altri potevano aver conservato di me, ossia di ciò che di me doveva essere rimasto nelle persone che conoscevo. Qualcosa di me era dunque custodito dagli altri. Non parlo tanto di mia moglie, cui voglio bene, o dei miei figli, dove questo processo deve essere considerato naturale, ma del mio giro di conoscenze, dalle più strette a quelle allargate; e come sa, dato il mio lavoro, conosco di vista un gran numero di persone, non solo del nostro paese. Dunque, pensavo al grande giro di quelli che mi avevano conosciuto. Lei sa che io ho pochi parenti, solo una sorella che vive a Salisburgo. Suppongo poi che sappia che io ho perso i miei genitori. Pensavo quindi alla lunga lista di clienti che ho incontrato in questi anni, anche a quelli che vedevo prima del nostro ultimo trasferimento. Insomma, mi sono messo a ripensare ai miei molti anni di lavoro nel commercio, a cominciare dai primi. Cosa era rimasto, di me – mi chiedevo – in tutte le persone che avevo incontrato, nei miei clienti, che avevo finito per conoscere piuttosto bene? E mi sono risposto che non doveva essere rimasto molto, tanto che ciò che dovevano conservare di me non era che un ricordo confuso. Mi dicevo che quelli erano anni pieni di fervore, per cui forse eravamo tutti troppo concentrati sul nostro lavoro per avere tempo di curare le relazioni come si deve. Ma poi non era neanche questo il punto: il ricordo che dovevano avere di me era qualcosa in cui si confondevano in un’unica immagine sia l’aspetto fisico che il temperamento morale. Su quest’ultimo, almeno, sul fatto di aver sempre amato il mio lavoro, potevo contare; ma mi sembrava comunque di essere rimasto troppo a lungo una figura anonima, priva di evidenti rimpianti, quelli che fanno sì che si possa invecchiare meglio. Di fatto, quando uno racconta per tanti anni – come fa ad esempio il nostro barista – che avrebbe voluto andarsene da qui per aprire un negozio di strumenti musicali, qualcosa di questo rimpianto rimane nel ricordo di chi lo ascolta, tanto che, quando ripensa al barista, questi non solo non lo può separare dal suo lavoro, ma non lo può più separare neanche da questo continuo ripetersi del ritornello che lo ha fatto, in fin dei conti, sia minore che maggiore di se stesso. Io invece per lo più ho parlato poco della mia vita privata; tuttavia ho capito una cosa: le persone si somigliano non tanto per aver condiviso varie esperienze – cosa ci unisce, oggi, ai nostri compagni di scuola? – quanto per il modo in cui rispondono alle molte difficoltà che la vita ci pone davanti. Ho capito che qualcuno ci somiglia davvero se condivide questa propensione, come se ci fosse una segreta analogia nella disposizione della materia.”
Weinrich abbassò il giornale, bevve un po’ del suo cappuccino, e poi tornò a dare l’apparenza di leggere. Karl lo ascoltava con attenzione. “Così, ora vorrei solo capire se ho colto nel segno in questa somiglianza, per questo ho bisogno del suo aiuto. La settimana scorsa ho letto che sabato prossimo, a Dobbiaco, si terrà un famoso concorso per sosia. Ho sempre trovato queste manifestazioni un po’ stupide e ancora oggi trovo gli imitatori per lo più degli artisti mediocri, se non proprio di cattivo gusto, ma sento che sono sul punto di cambiare opinione. Voglio capire, voglio verificare questa mia idea, questa somiglianza segreta.”
Karl provò una certo conforto per le considerazioni di Weinrich. Per buona parte del discorso era rimasto pensoso in silenzio, confidando in una svolta, quella che finalmente era arrivata in quest’ultimo passaggio dove il potenziale promettente che aveva intuito in Weinrich aveva finalmente cominciato a manifestarsi. Che importa considerare esteticamente l’esibizione di un imitatore? Il fatto stesso che si possa organizzare un concorso di sosia mostra appieno l’incredibile sostanza di cui siamo fatti.
“Dunque vorrebbe che la accompagnassi?”
“Sì, gliene sarei davvero molto grato.”
4.
Venne dunque sabato. Bisogna dire che il verde di questi paesi cresciuti in mezzo alle montagne raggiunge intensità che a volte colgono di sorpresa perfino chi vive a un’ora di distanza; tuttavia – per universale riconoscimento – nella maggior parte dei casi la meraviglia non è mai tale da portare questi vicini a superare spesso il gran numero di curve che, salendo, conduce fino in cima: si dovrebbe dunque concludere che, nella scala delle proprie esigenze, l’uomo di norma si accontenta tranquillamente di intensità cromatiche meno ardite. E del resto, in questa come in tutte le faccende estetiche, sono pochi quelli che esigono precisione nei minimi dettagli. Karl aveva risalito la valle e si apprestava a giungere in paese, con Weinrich fedelmente al suo fianco. Sul sedile posteriore sedevano Linda, con la macchina fotografica, e Rita, la moglie di Weinrich, divisa fra speranza e perplessità, con in mano il telefono e col pensiero ai commessi cui subito dopo pranzo aveva affidato il negozio (i figli erano da sua sorella). Weinrich aveva chiesto alla moglie di accompagnarlo perché voleva fosse presente quando avrebbe trovato la chiave della somiglianza – durante il viaggio si era detto molto fiducioso – chiave che le avrebbe mostrato tangibilmente; Linda invece era del gruppo perché Karl aveva insistito che partecipasse con lo scopo dichiarato di dar piena espressione al suo occasionale hobby fotografico, in realtà per cercare di sostenere Rita di fronte agli imprevisti, che non potevano mancare.
Salendo, una piccola baita in fondo a un prato aveva suggerito a Karl l’idea che vi si potesse nascondere uno dei molti sosia, pronto a mostrarsi al momento giusto, negli ultimi minuti della gara, per sbalordire la giuria puntando dritto alla vittoria. Non era un’idea originale, ma poteva funzionare proprio per questo. Infatti in questi contesti si doveva sbalordire con misura, perché la cautela di fondo cui l’ambiente montano induce la popolazione non poteva essere scalfita da iniziative estemporanee, per quanto benintenzionate. Si doveva puntare, per così dire, a uno sbalordimento graduale.
Weinrich guardava serio dal finestrino. Fino ad allora era rimasto per lo più in silenzio. Le rughe d’espressione davano al suo profilo un’aria piena di sorprese, che contrastava col suo contegno abituale, rivelandone – come un’esatta conferma – la riflessione segreta, quella che attraverso il giornale Karl aveva visto all’opera. “La natura in questa valle è davvero fuori dal comune”, disse Karl. In effetti, non si finiva mai di ammirarla. Dallo specchietto retrovisore, ogni tanto Linda gli mandava delle occhiate scintillanti; lui, coerentemente, aveva deciso di liberarsi al più presto del proprio ruolo.
Trovato un parcheggio, visto che c’era ancora un po’ di tempo, Linda propose di prendere un tè, ma Weinrich, dopo essersi sgranchito le gambe, disse di voler trovare subito la sede del concorso. Cedettero, dunque, e andarono tutti e quattro fino al luogo deputato. In un prato, davanti a un hotel fra i maggiori del paese – per i più curiosi potremmo dire che è ancora tra i preferiti degli sciatori – era stato montato un largo palco ancora deserto, ma con l’impianto già pronto e funzionante, regolato dal fonico che stava mettendo a punto i microfoni. Il palco aveva per sfondo un enorme schermo bianco sul quale avrebbero proiettato l’esibizione dei concorrenti. Benché Karl e gli altri fossero in anticipo, cominciava ad arrivare un po’ di gente.
Weinrich se ne stava fermo a guardare lo schermo. “Andate,” disse, “andate pure”. Rita si sedette su una delle poltroncine distribuite sul prato per telefonare a casa. Karl chiese a Linda di comprare qualcosa da mangiare e si avvicinò a Weinrich. Questi cominciò:
“Non so come lei giudichi questa faccenda, ma mi permetta di chiederle di concentrarsi sulla categoria in gara. Qui lasciano perdere quelli che imitano i personaggi famosi. Gliel’ho già detto, non vale neanche la pena di parlarne: è tutto un affare di cosmesi, di costumi. Un misero sforzo inteso a scimmiottare qualcuno nei suoi tic più evidenti e riconoscibili, una cosa da poco. Ma qui è diverso. Prendiamo in considerazione la categoria ‘adulti”. Lei lo sa che al concorso si presentano persone comuni che hanno trovato il proprio sosia?”
Karl si era documentato, lo sapeva. Annuì. “Non si tratta di un’unica, banale convinzione: due persone comuni vanno entrambe sul palco”, proseguì il commerciante, “e non mi dica che è solo questione di affinità, di analogie nel viso, nello sguardo. Come giudica questa propensione ad essere sosia di qualcuno?”
Dopo aver guardato a lungo lo schermo bianco, Karl si girò per osservare le persone che arrivavano sul prato:
“Un po’ come giudico il fatto di riuscire a seguirla nel suo ragionamento.”
“D’accordo, ha capito,” riprese Weinrich, “in tutti c’è una somiglianza interiore; ma finché si tratta di sensibilità, non è così difficile da comprendere. Io credo che si vada oltre, che ci sia un’analogia più profonda.”
La gente aveva occupato metà dei posti a sedere. Si sedettero anche Karl e Weinrich, in quinta fila, vicino a Rita. Linda arrivò più tardi con un sacchetto di dolci e ci mise un poco a trovarli.
5.
Alle sei cominciarono. Il concorso si aprì in modo promettente. Sul palco, inquadrati dalla luce dei riflettori, a circa due metri di distanza l’uno dall’altro, apparvero due incredibili gemelli cinquantenni, vestiti con camicie a quadri grigio e blu e abbigliamento da montagna. Recitavano in tedesco una poesia di Heine sull’inverno, che Karl non comprese per intero, ma che vedeva tradizionalmente l’inverno come la stagione del riposo, in attesa del rifiorire della primavera. Entrando in scena sugli applausi del pubblico, il conduttore, a suo agio a dispetto del gigantesco frac nero, spiegò che non si trattava affatto di gemelli, ma di due persone cresciute a settecento chilometri di distanza, che fino all’anno prima non si erano mai incontrate. Uno dei due – spiegò – era un commercialista di Rieti, che aveva conosciuto l’altro, il contadino, appunto l’anno precedente, mentre era in vacanza a Dobbiaco. Insieme e un po’ per sfida avevano poi deciso di partecipare al concorso. Non c’era molto da capire nel ragionamento di Weinrich: era tutto molto chiaro. I due cinquantenni sembravano davvero costituire l’enigma cui si era dedicato. Tuttavia nel caso dei gemelli – che in realtà avevano due anni di differenza – prima di rimanere senza parole Karl avrebbe voluto sondare anche un’ipotesi genetica tutt’altro che rara: se infatti le vacanze sono occasione di incontro – si disse – non era del tutto da escludere che lo fossero state anche cinquant’anni fa e che avessero lasciato dietro di sé molto più di un ricordo. Ma per ritrovare se stesso, Weinrich non doveva cercare di avventurarsi in questi calcoli indiscreti, aveva bisogno del riconoscimento di uno sfondo comune.
Linda aveva già scattato una decina di foto e mostrava di divertirsi. Al suo fianco, Rita aveva guadagnato un minimo di calma, rassegnata all’idea di dover seguire lo spettacolo fino in fondo. Sul paco comparvero due bambine in abito bianco, non somigliantissime, che cantarono in modo eccellente una canzoncina inglese, quindi due amiche di mezza età (in cui in effetti il tratto di somiglianza doveva essere fornito proprio dall’amicizia, più che da elementi visivamente apprezzabili), due idraulici e due suonatori di contrabbasso, ottimi musicisti. Weinrich sembrava valutare positivamente proprio i concorrenti fra loro meno simili, nell’estensione universale della somiglianza: “Vede”, disse a Karl, “qui parliamo senz’altro di un’affinità più profonda, non di semplice analogia nei tratti esteriori.” Era conquistato, quasi commosso: “C’è qualcosa di più affidabile dell’analogia di due strutture, una somiglianza ‘sostanziale’ nel modo di essere al mondo.”
Karl fece un cenno di assenso. Dopo un istante di silenzio, introdotti da una musica trionfale, i riflettori illuminarono una coppia dall’assortimento del tutto imprevedibile in quel contesto: due uomini di mezza età, uno rispettabilmente magro e alto, l’altro più basso, quasi obeso “in chiaro sovrappeso”, secondo la presentazione ufficiale. Il conduttore specificò che i concorrenti non andavano considerati come imitatori di coppie come Laurel & Hardy, ma che la loro partecipazione al concorso doveva essere valutata esclusivamente in virtù della somiglianza che avrebbero mostrato fra di loro. Una somiglianza che doveva quindi esprimersi in analogie del tutto fuori del comune. Risultò poi che l’uomo alto era un malato di mente. Vestiti con un singolare completo blu, stretto e troppo corto, i due clown recitarono una lunga filastrocca, poi cantarono un corale scambiandosi le parti, in un’esecuzione in cui le voci mostrarono timbri diversi, inequivocabili, eppure venati di una sensibile affinità. Seguendo un’enigmatica coreografia fecero anche alcuni elementari esercizi fisici nei quali molte differenze fra loro venivano armonizzate in un insieme coerente. Per la prima volta, senza che vi fosse alcuna richiesta, i riflettori illuminarono anche il banco cui sedeva l’imperscrutabile giuria degli esperti, che Weinrich vide distrattamente sul grande schermo, inquadrata dalla regia. I due proseguirono il loro semplice esercizio, la cui conclusione fu salutata da un lungo applauso del pubblico.
Nell’intervallo, mentre il conduttore descriveva le meravigliose qualità del paesaggio locale, i tecnici prepararono la scena per il secondo gruppo di concorrenti. Fu un susseguirsi di numeri più rapidi, per lo più di persone di mezza età, numeri intervallati da poche parole del presentatore. Fra questi, due contadini suonatori di corno, due cugini di Rovereto impegnati in esercizi coi birilli e due giocatori di bowling molto somiglianti fra loro, uno dei quali aveva dei trascorsi agonistici nella nazionale italiana. Verso la fine, comparve di nuovo l’uomo in sovrappeso, che si esibiva questa volta con un collega di stazza più vicina alla sua. Weinrich non diceva più nulla, osservava in silenzio la scena in cui si esprimeva la somiglianza segreta degli esseri umani. La solidarietà, spesso latente, conosceva nei sosia delle persone comuni una rapida trasfigurazione. Ciò che era rimasto di intentato nella ricerca del fondo perduto della loro origine, sul palco veniva di nuovo messo in comune. Le foto di Linda ritraevano soprattutto i partecipanti meno capaci.
Così, senza fare attendere troppo il pubblico, si giunse anche al gran finale, alla proclamazione dei vincitori. Nonostante il buon livello della competizione, sottolineato dal conduttore prima di aprire la busta della giuria, il primo premio andò, un po’ a sorpresa, alle due bambine in abito bianco che si erano esibite all’inizio. Karl ripensava ai gemelli, alla loro diversa sincronia, alla loro evoluzione indipendente, apparentemente ignara della loro reciproca somiglianza. Un mortaretto fece scoppiare un gran numero di coriandoli sul pubblico. Tutto si confondeva come nei finali delle feste, dove la forma cessa e a terra rimangono solo i resti dell’euforia precedente. Nel pubblico sembrava farsi largo l’impressione della transitorietà della circostanza, come quando ci si scambia gli auguri a capodanno nella celebrazione dell’incontro fra ciò che si vorrebbe lasciarsi alle spalle e ciò che si spera di migliorare.
Del tutto rinfrancato, Weinrich tese la mano a Rita perché lo accompagnasse a complimentarsi con i concorrenti. Karl e Linda li seguirono, qualche passo più indietro.
Weinrich strinse calorosamente la mano all’uomo in sovrappeso. “Vedi,” scherzò, rivolgendosi alla moglie, “se mi capita qualcosa, sappi che puoi sempre rivolgerti a lui”.