Ho incontrato Maurizio Noris per una presentazione a cui doveva partecipare il suo amico Franco Loi: cercavamo di instradare preventivamente l’intervento del grande poeta milanese che, come giusto, ci scappava da tutte le parti. Pur vivendo nella stessa città (o meglio provincia), non conoscevo Noris. Una buona occasione per tutti sono ora la sua raccolta Resistènse in uscita da Interlinea e un’antologia da lui curata insieme a Piero Marelli, Con la stessa voce, che vive sull’idea piuttosto originale di far tradurre a una ventina di neodialettali poesie di autori stranieri da loro amati. “Serve alla poesia che trova sollecitazioni culturalmente ricomposte e, più prosaicamente, serve anche ai poeti traduttori a provocare e a rinforzare la qualità, l’appropriatezza del proprio dire”, dice Noris, “l’idea è nata dopo l’urto e la caduta di un vecchio libro di Lorca dalla mia biblioteca. L’ho raccolto aperto e l’ho letto subito (istintivamente?) in dialetto bergamasco. Sensazione straniante ad alta intensità.”
Già, il dialetto: personalmente mi ci sono accostato con un po’ di diffidenza, perché spesso è stato opzione bozzettistica, comica, passatista. Magari c’era anche una prevenzione ideologica: la sinistra progressista ha identificato dialetto e povertà volendoli superare entrambi, e poi dalle nostre parti c’è stata una forte ipoteca leghista. Questa antologia è segno anche di ispirazioni più larghe di quanto si potrebbe banalmente pensare. Noris conviene che “molta poesia dialettale è stata così, e lo è tutt’oggi; mantiene l’accento sul facile, a volte con pelosa compiacenza, consanguineità e appartenenza. Ma non sempre è così. Da Meneghello e dal suo Libera nos a Malo, se ce la giochiamo in poesia come uso del linguaggio del profondo, io uso il mio linguaggio profondo, la lingua prima. Il dialetto è la mia lingua prima, non perché l’ho scelta ma perché viene dalla pancia di mia madre e con questa sono cresciuto. Le parole del dialetto così sentite, incorporate, vengono dalla zona dei noumeni, appercepite prima di imparare a ragionare. Per questo, per me, il dialetto così vissuto, è per certi versi realtà e per certi versi follia.” Qualcosa che ha che fare con la nascita, e la morte anche; “il dialetto”, diceva Manlio Sgalambro, “è il momento animale della lingua… duro linguaggio della necessità… Mortale… la lingua è storica, il dialetto è cosmico… per chi muore non c’è altra lingua che il suo dialetto.”
A questo proposito mi viene da citare la bella poesia Ol ciarùr maìster (Il chiarore maestro), dedicata ad Achille Serrao, che si chiude così: “A sóttre töce i sire / ol me pàder in de l’órt / – sóta ‘l so nus – / töce i nòcc gh’à fó ö sgul / e ö sgarabòcc / de tenerèssa / sö ‘l regìster.” (Sotterro tutte le sere / mio padre nell’orto / – sotto il suo noce – / tutte le notti gli faccio un volo / e uno scarabocchio di tenerezza / sul registro). “Quei versi”, riflette Noris, “sono un conforto a me stesso per una amicizia, direi una figliolanza poetica, finita troppo presto. Achille era una persona ricca e affascinante d’anima, le volte che ci siamo visti, con lui già malato di un tumore ai polmoni, ho provato un trasporto di incuriosimento e d’affetto, che ho sempre sentito verso le persone di cui avevo anche un po’ timore. Una sua lettera, ricevuta il giorno precedente la sua morte testimonia questo sentimento e resterà per sempre una cosa preziosa della mia vita.”
Ho citato l’ultimo lavoro Resistènse, in Santì (2000), la prima delle raccolte che ho letto, dove centrali e prevalenti sono le figure della natura colte al volo nel tempo. Già dal titolo della raccolta successiva – Us de ruch – (2009) si capisce che continua l’attenzione agli elementi naturali, ma mi pare con una maggiore presenza umana come in Sgùi (Voli): “A l’me sgulàt ö fiöl / da la finèstra / la mia töt sö l’sò tónd / gne i ale // – öna braca de ciche / ‘n scarsèla / e vigliaco mónd / a l’püdìa mia cöntale – // L’è fiondàt zó a chignöl / de là dela balaöstra / co la sò stòria / de scónd / che la refüdàa i scale.” (Mi è volato un figlio / dalla finestra / non ha preso il suo piatto / né le ali.// – una manciata di biglie / in tasca / e vigliacco mondo / non le poteva contare – // È fiondato giù a cuneo / oltre la balaustra / con la sua storia / da nascondere / che rifiutava le scale). “Se le figure della natura (della valle, del bosco, del ronco, del paese in cui vivo) sono state un attraversamento del terreno su cui poggia l’impietrito fondo meneghelliano che mi ritrovo, sono le domande sui destini del presente mio, nostro, come poi in Angei?, Zögadùr che sollecitano a coltivare le mie pietre. Sgui è una identificazione con una storia vera, del vivere di adesso, nel mio paese. Il figlio di un amico, un ragazzo”, mi dice Noris, e aggiunge che “raccontare la realtà attraverso la poesia (dialettale) è viatico e filo che dà la forza per scrivere poesie che incrociano l’unicità che siamo e lo si deve fare con la responsabilità di parola che ci appartiene. Zavattini in una sua poesiola FORSE, con poche parole rende un’idea della realtà universale molto più di tutte le enciclopedie e della Rete messe insieme: “Diu l’è gnu dentr’in dla me camara impalpabilment / e al m’à det a te sul a te / a t’fag savé ca n’ag sum mia.”
La poesia di Noris è formalmente piuttosto riconoscibile – versi e strofe brevi poste al centro della pagina, che spesso si richiamano per la rima finale -, però sta forse anche cambiando. Ha a lungo giocato tra reazione individuale e metaforica al paesaggio, alle situazioni, a persone ben definite. Ultimamente, e mi riferisco a Serése, Us del pàder recentissime, nonché ad alcune di Resistènse, il dato realistico di partenza sembra stia perdendo peso: “Ogni parola, ogni verso ha un peso specifico che lo pone al centro della pagina. Un verso al centro che è risucchio di una riga. È anche una questione di spazio tra le parole; il lento sonoro definirsi di un paesaggio di significati tra parole, sufficientemente distanti tra loro per potersi inchiodare a scandire riconoscimenti della parola stessa che si dice.”
Per i lettori attenti ma non specialisti la poesia dialettale del Novecento si inquadra tutt’oggi nella fortunata antologia di Franco Brevini, che seguiva ai lavori pionieristici precedenti di Pasolini. La prima edizione Einaudi è del 1987 e contiene pochi autori viventi, ormai anziani. Noris, sempre collaborando con Piero Marelli, ha offerto qualche anno fa un aggiornamento sui contemporanei, con Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto. “I poeti dialettali di oggi, o neodialettali come qualcuno li chiama, sono i fratelli più giovani o i figli di questo processo”, dice Noris, “sono tanti e sono il risultato del fatto che non esistono più periferie culturali tali da congelare il dire poetico dialettale a esclusivo patrimonio locale, e cullano il sogno della poesia per tutti, immaginando che il dialetto come lingua della realtà è capace di essere anche parola di poesia. L’opposto quindi dell’arroccamento pseudo antropologico leghista, che nella sua primitiva verve pan-culturale pensava di utilizzare il dialetto a difesa, ad autoreferenza della gente di un territorio.” Chi sa se questa materialità c’entra anche con un’altra iniziativa di Noris, la piccola casa editrice Teramata che propone titoli curiosi sugli animali, libri di grafica e manufatti curati per la vista e il tatto, con raccoltine sue e anticipazioni, cucite a mano dallo stesso autore, con uno spiccato senso di condivisione quasi domestica e di dono.
Resistènse mostra più delle raccolte precedenti una serie di sezioni che ambiscono a strutturare i singoli testi in libro organico; resistenza del paesaggio, dei mestieri, certamente della lingua ri-trovata da Noris attorno ai trent’anni. E però anche un ricordo della Resistenza politica vera e propria, scaturito dai luoghi montani sopra al lago d’Iseo, la Malga Lunga dove nel novembre 1944 avvenne un violento rastrellamento di partigiani.
FÈSTA D’AVRIL
Mia tanta calsina
sö ’l rumùr di mórcc
ma fiur de màndola
a rare brache
e ona bofadèla de mas
e d’èrba limunsina
via dré al sul
sö i sturde lèngue
lifròche.
Zèrbe
i góte del sangh
e düre
‘n di ’nsògn del cornàl
róssa
promèssa
tra i nìole raöche
e spalancàde
di bóche.
La desmöèsta us
la cuarcia i büse
i córne grise
e i nùs.
Mia tanta calsina
prima che l’iscrèche
ol lègn
di crus.
FESTA D’APRILE. Non molta calce / sul rumore dei morti / ma fiori di mandorlo /a rare manciate / e una refolata di maggio / e di cedrina / a ridosso del sole / sulle stordite lingue / scioperate. // Acerbe / le gocce del sangue / e dure / nei sogni del corniolo / rossa / promessa / tra le nuvole rauche / e spalancate / delle bocche. // La smossa voce / copre le buche / le rocce grigie / e i noci. // Non molta calce / prima che scricchioli / il legno / delle croci.
Articolo bellissimo e stimolante: grazie per la proposta. E una domanda (forse retorica, ma forse no): quando in Italia ci si renderà veramente conto che la poesia cosiddetta dialettale dà valore e forza ad una poesia in “lingua nazionale” altrimenti spesso asfittica e noiosa? E quando si smetterà di fare distinzione tra poesia dialettale (o neodialettale) e poesia in italiano?